L'uomo fedele
(Le nostre stupide) Chansons d'amour: l'esordio di Louis Garrel è un ménage à quatre che, tra prelievi truffautiani e secchiate d'autoironia, rincorre e testimonia la fugacità dell'amore.
Lui e lei, un appartamento parigino, l'annuncio en passant di una gravidanza imprevista, ma il padre è un altro. E cioè il miglior amico di lui, ombra ectoplasmatica, rivale senza volto, che un volto, un'immagine non acquisterà per tutta la (brevissima: meno di 75 minuti) durata di L’uomo fedele. Lei li ama entrambi. Così lancia una monetina: la monetina sceglie il fantasma, e lei scompare a sua volta. Lei è Marianne, l'amore della vita di lui, Abel, che dormirà con un'altra e probabilmente con altre per dimenticarla, ma dimenticherà soltanto loro, aloni passeggeri di lei. La ritroverà nove anni dopo al funerale di quel compagno eletto dalla sorte, un amico dimenticato, parte del loro ormai perduto trio – non ancora triangolo – universitario (di dreamers?) scioltosi con l'avvento dell'adultità. La morte li riunisce, e permette ad Abel e Marianne di riprendere il discorso amoroso, mai davvero interrotto, comunque mai risolto; e non sarà un canto a due voci, ma corale: un francesissimo ménage à trois, naturalmente, anzi à quatre, con gli incomodi Eve, sorella del defunto che nutre un amour fou bambino per Abel, e Joseph, pargolo di Marianne e (forse...) del fu partner, che non può soffrire il repentino rimpiazzo del padre e dunque s'inventa (forse...) ch'egli è perito per avvelenamento, per mano proprio della dolce genitrice.
Eros, Thanatos, bugie e twist d'amorosi sensi, sogni labili quanto il loro avverarsi: il debutto in cabina di regia di Louis Garrel sta a qualche metro di distanza dalla tristesse autobiografica delle opere paterne (ma il co-sceneggiatore Jean-Claude Carrière è stato autore per Philippe e pure per Buñuel, e qualche zampata la tira), e un paio di metri vicino a un senso truffautiano del cinema (il citatissimo Baci rubati, ma anche, e particolarmente, Non drammatizziamo... è solo questione di corna).
In questa commedia sentimentale spruzzata di thriller (tutto nella testa e nello sguardo del piccolo guastafeste Joseph), malinconico divertissement di laconica autoironia, Garrel si fa beffe del proprio profilo d'icona romantica parisienne, smontandone la parvenza ombrosa e desiderabile, un po' umiliandosi, ma con tenerezza, raccontando Abel come un attonito e volubile fanciullo senza qualità peculiari, un bambolotto di buone intenzioni in balìa delle onde del destino e soprattutto delle volontà delle due donne che gli strattonano il cuore: Marianne, la Laetita Casta sua consorte qui femme fatale del quotidiano, con un segreto negli occhi e un incanto sfuggente che ipnotizza le di lui azioni; e Eve, bellissima post-adolescente, la figlioccia d'arte Lily Rose-Depp, fresca, sorprendentemente in parte, che si strugge per Abel per metà della sua vita e raggiunge la maturità nel momento in cui quasi per caso attesta l'ordinarietà, la mediocrità del proprio enfatico sogno d'amore («Quando facevo l'amore con altri, pensavo a lui... ora che lui è mio, a chi penso?»); ed è peraltro a lei che Garrel regala i momenti più ispirati del film, con la rielaborazione fantastica di un presente sempre imperfetto, la diagnosi di una distanza incolmabile fra immaginazione/cinema e realtà fugace, opaca, immancabilmente deludente. Scartando la figurina di Abel rimane un uomo fedele all'idea dell'amore per se, e resta egli stesso idea, a incarnare tanto l'inafferrabilità implicitamente tragica dell'amore quanto, in fondo, il suo ridicolo.