L'odore del sangue

di Mario Martone

Portando liberamente su schermo il libro di Goffredo Parise, Mario Martone racconta di un amore finito, tra tradimenti e stanche apatie.

L'odore del sangue - recensione film Martone

Un corpo nudo cammina su una striscia scogliosa immersa nel mare turchese. Pochi istanti. Poi lo vediamo nuotare, sott’acqua, e riaffiorare, mettersi supino, il viso e i seni verso il sole. Si fa strada, con difficoltà, tra la solidità delle rocce ricoperte di alghe e i tratti liquidi, avanza carponi verso un altro corpo nudo, maschile, disteso in posizione fetale, il capo poggiato sulla pietra asciutta, il cinto e le gambe abbandonate. I due amanti si stringono a sé, avviluppati in un abbraccio che ne fa un solo corpo. Il mare, sullo sfondo, è un gorgo limaccioso di alghe e smeraldo, torbido e impastato, come miscuglio di tempere. L’incipit di L’odore del sangue, film che Mario Martone dirige sei anni dopo Teatro di guerra, trasponendo liberamente un romanzo postumo di Goffredo Parise, ha tutto il fascino di quella compenetrazione panica che poi sarà elemento preminente in Capri-Revolution, ultimo lavoro ad oggi del regista napoletano.

Una comunione, quella tra uomo e natura, su cui Martone da sempre indaga, sensibile com’è all’influenza quasi geo-psicologica dell’ambiente sull’essere umano, condizione indispensabile per (ri)trovare equilibrio, sincerità, sentimento ed ispirazione (si veda anche il Leopardi de Il giovane favoloso). Ed è emozionante vedere come i due innamorati – Carlo (Michele Placido) più grande di Lù (Giovanna Giuliani) di almeno trent’anni – esprimano fisicamente, energicamente, tra ruzzolate nell’erba e rincorse nei boschi, l’impeto della passione e la spensieratezza dell’amore, sulle note di quella ballata struggente, senza tempo, che è Amore che vieni, amore che vai, in cui De Andrè ne canta tutta la mutevolezza e labilità.
Ma l’idillio bucolico dura poco, pochissimo. Una telefonata riporta Carlo in città, a Roma, dove lo attendono una stanca vita borghese, frutto del suo successo come giornalista e scrittore, e la moglie Silvia (Fanny Ardant), con cui vive da separato, in un rapporto aperto fatto di reciproche concessioni e conseguenti rivelazioni sulle proprie frequentazioni extraconiugali. Se Carlo frequenta Lù, una ragazza di campagna dal fisico androgino e dalla vitalità dolce, Silvia si è invaghita di un giovane muscoloso col “culto della forza”, un violento fascista (di quelli «che hanno ammazzato Pasolini», dice Parise nel libro, ambientato negli anni Settanta, a differenza del film) di cui per tutto il racconto non vedremo mai le fattezze. Una presenza misteriosa e minacciosa che riaccende la gelosia del marito e lo porterà verso una deriva che sembra ineludibile, al pari di quella del matematico napoletano Renato Caccioppoli, protagonista del primo film di Martone.

Ossessionato, anche di notte, dalla ricerca di un’immagine da associare ad un rivale cui non può neanche dare un volto, Carlo chiede ripetutamente a Silvia di descriverglielo in tutti i suoi particolari, soprattutto quelli più intimi, sessuali, trascurandone tragicamente gli aspetti psicologici e la pericolosità, come se il ragazzo esistesse soltanto in funzione fallica. Ne viene fuori il ritratto di una borghesia romana dalla sessualità perversa, persa nell’edonismo e nel voyeurismo più sfrenato, contrassegnata da una inerzia e vacuità esistenziale già abbondantemente portate sullo schermo da Antonioni (e a lui rimanda, inequivocabilmente, la scena ambientata tra i blocchi cementificati di Burri nel Grande Cretto di Gibellina).

Nonostante Silvia viva in prima persona la violenza, la prepotenza e l’inadeguatezza del giovane a cui si concede, da lei stessa definito in più occasioni «disadattato, confusionario, malato, ignorantissimo», non riesce a sganciarsi, masochisticamente, da questo rapporto imprudente e sembra anzi eccitata ferinamente dall’odore del sangue, della gioventù, di una brutalità vitale testosteronica. Una parafilia che arriva a mostrare chiaramente la propria natura sadica quando Silvia propone a Carlo di fare l’amore, perché «adesso sarebbe tanto più bello», dopo che lui ha provato a strangolarla per mettere fine ad una situazione diventata ormai insostenibile.

Alla fine, però, a mancare è proprio il dolore, quello vero e non finalizzato al semplice eccitamento sessuale. Una sofferenza che sia genuinamente sentimentale, ma anche semplicemente viscerale, qualcosa insomma che inneschi una reazione fisiologica, indirizzata ad abbatterne la fonte. A dominare è l’apatia grigia e consunta di una coppia finita, fatta di individui altrettanto svuotati di spirito (ri)costruttivo. Non è un caso che Martone scelga di raccontare tutta la vicenda, dai momenti più sereni e amorosi a quelli più melodrammatici, senza grandi variazioni di stile e trattamento registico. L’amore, quello vero, tra Carlo e Lù, è tutto nei primi, intensi minuti di L’odore del sangue, prima della telefonata che introduce il giovane contendente, prima che la gelosia e le pulsioni di morte prendano progressivamente il sopravvento, facendo svanire, come un ricordo d’estate, l’amore che venne, l’amore che andò.

Autore: Domenico Saracino
Pubblicato il 15/12/2018
Italia 2004
Regia: Mario Martone
Durata: 100 minuti

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