Morte di un matematico napoletano
Nato dall'esperienza artistica di "Teatri Uniti", l'esordio cinematografico di Martone è il racconto errabondo, dimesso e assieme partecipe, degli ultimi giorni di vita del matematico Caccioppoli, interpretato magnificamente da Carlo Cecchi.
Morte di un matematico napoletano si apre con l’immagine di un muro scrostato, mangiato dall’incuria e dal tempo, un muro che giorno dopo giorno perde pezzi di sé. Non poteva che partire da un correlativo oggettivo questo film di Mario Martone, un’opera prima incentrata sulla città e sul rapporto che gli spazi urbani intessono con l’intimità emotiva di chi li abita.
Dedicato alla figura di Renato Caccioppoli, matematico geniale e sofferente, alcolista suicida sconfitto da una malinconia e disillusione assolute, il film si concentra sull’ultima settimana di vita del suo protagonista, relegando al fuori campo la storia dell’uomo e del paese, l’antifascismo, le prime scoperte matematiche, l’amore. È grazie alle persone che circondano e incontrano Renato che possiamo ricostruire scampoli del suo passato, tracce dal grande potenziale drammatico che Martone e la sua co-sceneggiatrice, la scrittrice Fabrizia Ramondino, lasciano sullo sfondo. Morte di un matematico napoletano è un film errabondo in cui arriva la città a mediare e conservare questi ricordi, immagini di un passato che nel delirio alcolico si mescolano al presente inquinandolo, aprendo le porte a una dimensione onirica che riversa incubi notturni, angosce, insoddisfazione perenne. Renato la attraversa e si perde in questa città, Napoli, vera co-protagonista di una storia di sconfitta che sembra procedere secondo un meccanismo fatale e irreversibile. Di questa città Martone e il suo direttore della fotografia Luca Bigazzi – alle spalle pochi film ma già bravissimo – fissano due volti, uno diurno e l’altro notturno, due aspetti di una metropoli ambivalente e pericolosa che abbraccia e assieme soffoca, riempie e subito dopo isola. Attorno a Renato si alternano due toni di luce, quello giallo e malsano di un sole morente e quello plumbeo, liquido, dei vicoli notturni, delle stanze vuote, dei sogni misti a ricordi.
Vincitore del Premio speciale della giuria al Festiva di Venezia del 1992, Morte di un matematico napoletano è un esordio non comune, che nasce dall’esperienza artistica e vitale di Teatri Uniti, la compagnia fondata a Napoli nel 1987 dall’unione di Falso Movimento, Teatro dei Mutamenti e Teatro Studio di Caserta. Martone del resto è regista teatrale prima che cinematografico, e al cinema arriva con un bagaglio di sperimentazione e innovazione linguistica non da poco; Teatri Uniti nasce proprio attorno a questo sincretismo, volendo farsi laboratorio di produzione e studio capace di ibridare l’arte scenica contemporanea con le logiche del cinema, della musica e delle arti visive. Quest’energia esplosiva anima, seppur sottotraccia, il film, che vede al suo interno personalità e professionisti di ascendenza teatrale, a partire da Toni Servillo. A caricarsi il film sulle spalle è però Carlo Cecchi, straordinario attore e regista che qui riesce ad aderire fisicamente al disfacimento del suo personaggio, cucendosi addosso il senso ineluttabile e ossessivo del pensiero di morte. È straordinario seguire Renato nelle sue lunghe camminate, nei suoi comizi improvvisati, nelle esternazioni di una sensibilità contraddittoria che alterna al pietismo disperato la fame assoluta di conoscenza e piccole umanità. Renato è disilluso ormai senza aver avuto la fortuna di farsi cinico; non riesce a trovare senso in nessuna delle istituzioni che lo circondano (né il partito né l’università, men che meno il tessuto sociale delle amicizie e dei colleghi) né a rendersi immune dallo scorrere di un tempo inteso solamente come sofferenza, peso, costo da pagare. Martone non sconta al personaggio i suoi aspetti più scomodi, su tutti un maschilismo tenuto malamente sottotraccia, ma al centro del gesto filmico resta comunque la tensione di un avvicinamento impossibile, la pulsione a colmare la distanza dello spazio e del tempo così da alleviare, per quanto possibile, l’assoluta solitudine. Perché Renato vive e muore solo, in un gioco di presenze e assenze che culmina nella sequenza finale del funerale: prima di allora Renato è presente ma avvolto dal vuoto, anche quando in compagnia; dopo la sua morte invece la scena si riempie di persone, di voci e di corpi, tutti si affastellano a salire sul palco del commiato e dell’elaborazione pubblica. Peccato che lui, ormai, sia altrove.