La camera azzurra
Amalric adatta Simenon e trova nelle rifrazioni chiaroscurali della camera azzurra la sua ossessione per il femminino e per la trasposizione in immagine della parola scritta.
A Mathieu Amalric interessa il punto dello spettro visibile in cui un’evidenza letterale e indubitabile si ribalta in ciò che la nega, il momento in cui, nella piega della luce meridiana che illumina a crudo la scena, fa capolino un’ombra, il punto cieco di una piena visibilità che smentisce programmaticamente ogni ossessione di nitidezza. La camera azzurra si apre con questo dettato chiaroscurale: un fascio di luce accende la natura morta di una stanza d’albergo, le cose appaiono per come sono, fasciate dalle certezze della loro logica, e poi ecco all’improvviso un corpo che si muove e le smentisce, facendo intravedere un diverso punto di inizio, una diversa origine del mondo (si cita la provocazione di Courbet), un’altra versione dei fatti, un’altra verità. Il chiaroscuro (opposizione di tonalità che manda sempre in crisi le certezze della superficie) – già presente in Tournée e anche in Stringimi forte - è per Amalric il modo di afferrare quel punto di flessione in cui la realtà, per come appare e per come si vede, si traduce in qualcosa di meno famigliare, in qualcosa che sfugge sempre, mandando in crisi il linguaggio con cui l’uomo articola la realtà. Questo punto è per il regista francese un’ossessione da cui non si esce e che, a voler sintetizzare, si potrebbe chiamare femminino: è nel corpo, nello sguardo, nel sentimento di una donna che Amalric, da antropologo che lavora con gli sguardi, la prossemica e l’espressione (secondo la lezione dei registi con cui ha lavorato, su tutti Desplechin e Cassavetes) trova il momento di curvatura in cui la propria prospettiva maschile sul mondo, la propria visione del mondo, si ribalta in altro (o altra).
Se già Tournée era un film sul disperato e fallimentare tentativo di un “produttore” di capire dei corpi femminili e Stringimi forte un puzzle sul trauma inafferrabile di una donna in fuga, La camera azzurra lascia presto intendere di essere un puntiglioso affresco (Amalric, regista letterato, ama inquadrare in maniera descrittiva, come cercando un’inquadratura che sia anche parola) della frantumazione della realtà del maschio protagonista a causa della pressione di una novità annunciata da un corpo femminile: la storia, tratta dall’omonimo libro di Simenon, è quella di Tony, della sua amante Andrée (interpretata da Stéphanie Cléau), delle sorti della loro relazione e del tracollo psicologico dell’uomo di fronte all’incedere giudiziario interessato a fare chiarezza sulla morte del marito di lei. Questa frantumazione Amalric la porta in scena interpretandola in prima persona, frammentando il proprio sguardo d’autore, dislocandosi davanti e dietro la macchina da presa per rinunciare a qualsiasi forma di imparzialità, disorientare la propria identità e disperdere l’autorità dei propri connotati a favore di un’apertura di principio ai connotati altrui, e così intercettare un punto di traduzione della prospettiva che pare impossibile; il volto del suo personaggio, un groviglio di ansie piccolo borghesi mal elaborate, si comprime e si disfa con grande acume interpretativo sotto la claustrofobia che un 4:3 finalmente motivato imprime e rafforza a ogni svolta narrativa, in una struttura temporale costruita proprio per strappare via la dimora fissa alle fattezze, spiantarle e lasciarle nel dubbio di dove ricollocarsi.
Allo sguardo perso di Tony risponde il corpo sfuggente dell’amante Andrée, interprete del femminino di cui sopra: è proprio la comparsa sulla scena di questa estraneità a dissestare i sillogismi borghesi e a destituire tutte le logiche che il protagonista pensava vigenti: non soltanto quelle di una realtà di classe asfittica (che Amalric cattura nella scelta scenografica di una villa ultra moderna, asettica e infelice nei suoi bianchi perfetti circondati dal nulla), preoccupata di una morale legalista (che infatti si esplica con assoluta assenza di dubbio in forma giudiziaria) che tenga presente il costume e sappia indicare il colpevole, ma anche quelle, ben più stringenti e invisibili, per quanto oppressive, della realtà tout court. Entrando come un nuovo punto di origine nella storia delle cose, il corpo di donna non soltanto demoralizza il realismo descrittivo di Amalric, ma lascia precipitare la realtà per come la si frequenta in un qualcosa o un nulla mai davvero compreso, che non si lascia derubricare a somma di fatti evidenti - una catena di eventi da giallo, un morto, o forse più di uno, due amanti, un uomo, una donna – e non certo a qualcosa che si vuole a tutti i costi trasparente. Cercando un punto da cui spostare il proprio sguardo dall’osservazione alla comprensione del femminino Amalric sembra riconoscere così che, almeno nell’immagine, la trasparenza non si dà dove si crede o sembra sia garantita, ma invece dove dialetticamente sembra negata, nell’opaca dissimulazione che sottende quieta dietro l’angolo di ogni parola e ogni smorfia: la letteralità dell’immagine, della catena di eventi, della realtà dei fatti, va contradetta da un andamento contropelo, che smonti e rimonti la famigliarità dello sguardo sulle cose. Così il momento di cinema è sempre un momento di crisi dello sguardo.