Tournée, il vero burlesque
Il film, che valse ad Amalric il premio per la miglior regia a Cannes nel 2010, condensa già nel titolo un’idea precisa di cinema e di vita: fluida, sfuggente, sbrigliata.
Tournée (2010), il quarto film di Mathieu Amalric dietro la macchina da presa, è l’unico, tra gli otto lungometraggi da lui girati e poi distribuiti, ad essersi aggiudicato un premio internazionale importante, qual è il Prix de la mise en scène del Festival di Cannes. Non che questo dato debba necessariamente significare qualcosa, considerata la soggettività e, per certi versi, la casualità di ogni riconoscimento (quell’anno, giusto a rigor d’informazione, il presidente di giuria era Tim Burton e la Palma D’oro andò a Weerasethakul per Lo zio Boonme che si ricorda le vite precedenti); eppure c’è, di fatto, che la capacità di messa in scena di Amalric raggiunge qui, almeno in determinati passaggi, una certa, inoppugnabile, levatura poetica, trasmutante. Che viene dall’approccio jazzistico, cassavetesiano alla regia e alla direzione attoriale, dall’improvvisazione, dal lasciare la realtà esprimersi senza troppi imbrigliamenti, aprendosi alla sorpresa e al detournement.
Perché se tournée viene da tourner, dal voltare, girare, deviare rispetto ad una traiettoria troppo definita, allora Amalric trovò nel 2010 il titolo e la metafora perfetta per la sua idea di cinema (tourner si usa, tra l’altro, anche per intendere l’atto del girare un film): fatta appunto di sbilanciamenti e sbandamenti, di meravigliose sospensioni e divagazioni. Come avviene, ad esempio, per il viaggio lungo la campagna francese che l’impresario Joachim, non a caso interpretato da Amalric stesso, fa assieme ad una delle spogliarelliste e attrici di burlesque che ha deciso di portare in tour dagli USA in Francia. È a questi momenti di deriva che l’attore e regista sembra essere più interessato, piuttosto che ad uno story concept e a recitazioni rigidamente impostati.
A confermarlo è anche la scelta precisa di utilizzare attrici non professioniste, provenienti proprio dal mondo del burlesque, a cui Amalric non fece peraltro leggere neanche la sceneggiatura, proprio per evitare irrigidimenti e tenersi aperti all’estemporaneità dell’ispirazione e della performance. Perché sia Cassavetes che Amalric pensano, in fondo, che il sé non sia altro che un grande bluff, l’abborracciamento continuo di un piano – esistenziale, in primis – che, semplicemente, non esiste; non può esistere. Ecco perché in Tournée regnano i contrasti, unico modo possibile per descrivere questa processione sregolata e sghemba che è la vita, dove spesso si sterza, si riprende la barra e lo sguardo – se tourne, quindi – solo quando si rasenta il limite della strada, il confine oltre cui giace l’abisso, il vuoto, l’assenza di immagini.
Non può che essere una tournée, la nostra vita, un susseguirsi di giri e girotondi, di esibizioni – spettacoli e danze e atti performativi – che approntiamo per noi e per gli altri; perché solo nello sguardo, nell’interpretazione, nella forma, possiamo davvero esistere. Sovrascrivendo, sovraimpressionando noi stessi sulla pellicola caliginosa della realtà con l’energia cinetica dei nostri corpi e gesti e con la forza acustica delle nostre espressioni sonore. Noi, con le nostre condizioni e proprietà, di corpi e forze, con le nostre resistenze, velocità, temperature, flussi, viscosità. Amalric sembra, più di altri e nonostante l’incompiutezza e i limiti dei suoi film, aver compreso e dunque scelto di rappresentare la fluidità dell’esistere e degli esistenti, la fluidodinamica del sentire e dei senzienti.