Tre piani
La cura e il prendersi cura: l’ordalia di Moretti sulle braci del presente.
Bisogna fare una premessa prima di avvicinarsi a Tre piani di Nanni Moretti: per tentare di capire l’opera, stavolta più che mai, è necessario guardare ciò che sta sullo schermo, non dentro le nostre aspettative, vedere il regista di questo film e non colui che conoscevamo in passato, affrontare quello che c’è e non quello che vorremmo ci fosse. Insomma, per assurdo, dimenticare Moretti, mettere da parte l’aggettivo “morettiano” per come tradizionalmente lo intendiamo. Perché Tre piani è radicalmente diverso da tutto ciò che il cineasta ha girato finora, eppure si inserisce con coerenza assoluta nel percorso da lui intrapreso in questi anni. E forse apre una nuova fase.
Tre piani, ormai è noto, si ispira liberamente all’omonimo libro di Eshkol Nevo, ma esegue un gesto di riscrittura radicale: sposta la storia dal palazzo di Tel Aviv a un condominio nel quartiere Prati a Roma, espungendo così la componente israeliano-palestinese che è sottofondo costante del romanzo. Basti pensare alla colpevolizzazione del vicino di casa, operata dal personaggio di Scamarcio, per rendersi conto del suo significato se intrecciato alla questione palestinese. Attenzione: in realtà Nanni Moretti c’entra qualcosa con la questione, ovvero con la sua rielaborazione cinematografica, cucita oggi da un grande regista “morettiano”, Elia Suleiman. Vedere per esempio Il tempo che ci rimane: nel personaggio di se stesso, nella sua imperturbabilità, negli scarti paradossali per le strade di Nazareth c’è una rilettura peculiare del cinema morettiano, applicato alla contesa storica tra vicini-nemici. Questo per dire che un legame sotterraneo di Moretti con la questione palestinese esiste, nella poetica del fuori luogo e del fuori posto, nel cercare uno spazio dove non è concesso, nell’assenza di senso che produce smarrimento. Ma non qui. Qui il problema viene messo da parte, Moretti asciuga Eshkol Nevo: abbiamo “solo” tre piani in un condominio e una serie di eventi che li segnano.
Un ragazzo ubriaco fa un incidente stradale e uccide una donna: è il figlio del giudice Vittorio (Nanni Moretti) e di Dora (Margherita Buy), moglie che si adegua alla vita del marito, il quale condanna il giovane senza appello; Lucio (Riccardo Scamarcio) lascia la figlia piccola al vicino di casa, l’anziano Renato (Paolo Graziosi) su cui si allunga però il sospetto di un abuso sessuale; quindi Monica (Alba Rohrwacher), madre sola con un marito lontano, affronta una maternità problematica e inizia a vedere un grande corvo nero, che appare solo a lei. Nei fili di queste vicende il regista convoca alcuni temi e li impasta tra loro: la cultura del sospetto, il giudizio morale che confina col moralismo, la complessità di essere madri, le donne che restano sole, la vecchiaia e la morte. Ma anche la vita. Volendo possiamo trovare assonanze col suo ultimo cinema, come detto la coerenza è assoluta, e sta proprio in quello sprofondo che Moretti ha il coraggio di guardare in faccia: il corvo che vede Monica, non è forse lo stesso metaforico male che affligge il pontefice di Habemus Papam? O il dolore sordo che emerge nell’apprestarsi a perdere un genitore in Mia madre? Le storie si intrecciano, a volte appena e altre con violenza, avanzano per ellissi (“cinque anni dopo”), scrutano nell’abisso e infine trovano la catarsi.
Seppure in teoria le coordinate siano precise, Moretti neutralizza totalmente la storia: il lavoro di annullamento negli accenti degli attori, la loro recitazione a tratti catatonica realizza un atto di astrazione che li porta lontano da Roma, ma anche dal qui e ora. Possiamo essere ovunque. Le battute vengono declamate come in certi film di Manoel de Oliveira. Il microcosmo a tre piani diventa allora un universo a sé, che qui non contiene il modello freudiano (Es, Ego e Super-Io) di cui restano vaghe tracce, ma si apre proprio alla totalità. Ecco la smisurata ambizione del Moretti di Tre piani: parlare del mondo, del legno storto dell’umanità. E perfino provare a curarlo.
In tal senso interviene l’analisi di Roberto Lasagna nel suo libro Nanni Moretti. Il cinema come cura (Mimesis, 2021): si tratta di «un regista estraneo dal cavalcare le mode e il cui cinema è sin da subito auto-riflessivo, ponendosi, a testa alta, come una cura per la mente». Seguendo la linea interpretativa Moretti oggi frequenta la cura in un doppio senso: la cura di sé e il prendersi cura. Se il suo discorso da oltre quarant’anni si propone come gesto catartico nei confronti di se stesso, forse Tre piani è un film proprio sull’impossibilità di prendersi cura dell’altro. Gli abitanti del condominio, inchiodati ai loro errori, consumano convenevoli ma non riescono mai a parlarsi, a tendersi davvero la mano a vicenda. “È guasto”, dice la bambina riferendosi alla demenza senile dell’anziano, ma forse anche alla totalità del palazzo e del cosmo.
Perché facciamo i nostri sbagli? Quanto siamo disposti ad ammetterlo e tentare di correggerli? C’è una rima tra la figura di Scamarcio e quella di Moretti, due “erranti” che si lasciano dietro il peso delle scelte, l’uno nel trattamento ingiusto del vicino di casa, l’altro nell’allontanamento del figlio che per lui resterà non riconciliato. Persone che parlano senza comprendersi perché troppo egoriferite, che parlano solo per ottenere la conferma delle proprie convinzioni, che pensano solo a se stesse: può un film fuori dal tempo essere più contemporaneo?
Moretti si affaccia in un pozzo nero fatto però di improvvise illuminazioni, di repentini squarci di luce: come nella sequenza della segreteria telefonica, che riporta il giudice severo alla voce del figlio bambino, e per un attimo concede un sorriso, subito prima della dissolvenza definitiva che conduce alla morte. Un momento carico di significato, straziante, il migliore del film.
Mancanza di senso, dolore e incapacità di comunicare: Tre piani cammina la sua ordalia sulle braci del presente, ma alla fine concede una nota di speranza. Arriva dai nuovi nati, dalle prossime generazioni, come fa notare Alberto Crespi (Cineforum NS n.3, settembre 2021): qualcosa di simile accadeva in Gloria Mundi di Guédiguian, film che si apriva proprio con una nascita a rendere tangibile il dubbio su cosa sarà dei nostri figli. Ai neonati Nanni Moretti affida l’ipotesi della felicità e la possibilità di uno spiraglio (rivediamoci Aprile), qui incarnata da Margherita Buy che finalmente ritrova figlio e nipote, permettendo a un film così chiuso e cupo di aprirsi. “Domani”, era l’ultima parola di Giulia Lazzarini, la madre di Mia madre: domani è l’ultima parola metaforicamente anche in Tre piani.
Un film imperfetto, difettoso, che può facilmente essere smontato (il tiro al piccione a Cannes lo dimostra): si può criticare nelle singole parti, in quelle più didascaliche o meno riuscite. Ma anche un film avvolto in un grave dolore alla ricerca di una luce che - potere del cinema - Moretti insegue per sé e vuole offrire allo spettatore. Cura e prendersi cura. Non sarà cool Nanni Moretti, non sarà un nuovo regista dell’oggi e non avrà girato Titane, il film post-cronenberghiano e cripto-femminista che ha vinto la Palma d’oro, al contrario è un “vecchio” regista europeo: ma il suo sguardo a tratti vibra ancora, il suo cinema negli anni si fa sempre più disperato, struggente e infine liberatorio.