Il paradiso del pavone
Presentato a Venezia 2021, il terzo lungometraggio di Laura Bispuri è una riflessione dolce-amara sulla complessità dei rapporti famigliari.
Al suo terzo lungometraggio, la regista Laura Bispuri mette in scena un “gruppo di famiglia in un interno”, con l’intento di descrivere e mettere a nudo tensioni segrete, aspettative deluse e, forse, possibilità di riconciliazione.
Dopo l’eccellente esordio con l’inconsueto Vergine giurata (2015) – lucida riflessione sulla femminilità, sulla repressione, sulla tradizione – e l’esplorazione di una maternità dolorosa e imperfetta nel successivo Figlia mia (2018), la Bispuri sceglie ora un orizzonte meno estremo e più quotidiano, apparentemente più addomesticabile. Tuttavia, il cuore pulsante del film sta proprio nella sua volontà di rintracciare, in questa dimensione (falsamente) solida e accogliente, l’incongruo e l’inquietante, il non dicibile, il non sanabile.
È il compleanno di Nena (un’ottima Dominique Sanda, ora gelida ora enigmatica), e figli, nipoti e amici si riuniscono nel suo appartamento di fronte al mare per pranzare insieme. Ma l’accogliente e confortevole salotto diventerà subito soffocante, un minuscolo, opprimente palcoscenico dove si scontreranno con forza implosiva i sentimenti e i desideri dei protagonisti: le ansie e il bisogno di ribellione di Adelina (Alba Rohrwacher, già protagonista dei due precedenti titoli della regista), l’insoddisfazione del marito Vito; il rapporto spezzato tra Caterina e Manfredi, il silenzio inscalfibile di Grazia, il segreto che lega Nena e Lucia.
Il pavone del titolo è Paco, l’animale domestico della piccola Alma, che se ne sta spaesato nel salottino ben arredato, come un oggetto onirico, ma anche simbolico, come un monito, come un interrogativo, o magari come il retaggio di un altro cinema (Buñuel, Fellini?). Quando fa la ruota, la sua coda meravigliosa urta un vaso di ceramica, che si frantuma in mille pezzi: l’animale sarà punito, costretto fuori sul terrazzino nonostante il rammarico di Alma. In fondo, la vicenda del pavone è specchio e sintesi delle vite dei protagonisti: meglio non svelare se stessi, non aprire mai la coda, nel timore di distruggere qualcosa o di essere giudicati. Per questo Caterina non dirà della rottura con Manfredi, che a sua volta non dirà dei suoi nuovi amori e della futura paternità; Nena sceglierà di autocensurarsi, Adelina di obbedire e non contestare. Ma fino a quando?
Se c’è un passaggio chiave, in questo film che sembra optare per il registro del realismo e che invece, a ben guardare, predilige la stilizzazione e la metafora, è appunto quello della fuga del pavone. Il terrazzino è stretto, il mare così azzurro e così vicino, sulla ringhiera si è posata all’improvviso una colomba (il pavone l’ha già “incontrata”, in un dipinto appeso in salotto). Il piccolo uccello bianco, anch’esso e più di tutti un simbolo, si lancia leggero nell’aria limpida e vola via. Ma per il pavone, come per i protagonisti del film, volare via è ben più difficile.
Film rarefatto e trattenuto, quasi claustrofobico, costruito su dialoghi che a tratti si incagliano in una certa schematicità e tuttavia rafforzato dalle sue aperture all’onirico, quasi al surreale (e al grottesco?), film dove tutto sembra (volutamente) stridere come stridono i violini della colonna sonora che a un certo punto taglierà il silenzio, Il paradiso del pavone è un oggetto difficile da classificare, così sospeso e teso tra aderenza al reale e tendenza alla stilizzazione. Sembra quasi che perfino la bella fotografia (di Vladan Radovic) ne voglia denunciare l’anima misteriosamente doppia, accostando, in un equilibrio fatto di antitesi, la luce tiepida e rosata con continui sprazzi di ciano e di verde. Forse distante, per alcuni versi, dai precedenti lungometraggi della regista – perché più diradato, più sussurrato - Il paradiso del pavone sceglie di sovrapporre all’ambiguità delle relazioni tra i personaggi una certa ambiguità della rappresentazione, interrogando, in questo modo, lo spettatore.