Late August, Early September
Alla ricerca della complessa luminosità emanata da ciò che esiste, Olivier Assayas firma un film di piena libertà che raggiunge gli universali passando attraverso la vita.
Mentre sta girando Late August, Early September, Olivier Assayas pensa già a Les Destinées sentimentales. Non perché non creda al progetto in cui è impegnato: il ritratto di una generazione alle prese con i problemi sentimentali ed economici di una condizione instabile e senza certezze, nell’ultimo atto della giovinezza e già all’ingresso nel mondo della realtà adulta, gli è famigliare e vicino, in una parola naturale. No, sta pensando ai Destini (come anche nel caso di Irma Vep, che è, per stessa dichiarazione del regista, un film girato nel tempo libero proprio nell’attesa del futuro film), perché lì le sue immagini vogliono arrivare. Sintesi di tutto il suo cinema precedente, in realtà forse addirittura movente del suo fare cinema, l’adattamento dell’omonima opera di Jacques Chardonne è visto dal regista come la soluzione (ovviamente provvisoria) del suo cruccio tematico-formale: come rendere visibile in immagine, dopo la modernità post-godardiana, la complessa luminosità emanata da ciò che per un attimo esiste e tocca chi vive per sempre? Che fare quindi dopo Godard? Che fare dopo il cubismo? Che fare dopo Proust? Assayas risponde a questa domanda iniettando la sua grafia, il suo diagramma formale di movimento, dentro a un codice normativo che lo faccia risplendere; quello della linea classica, l’unica disponibile dopo la fine della modernità, linea rinvenibile proprio nel genere romanzesco post Proust – di cui Chardonne è esponente.
Late August, Early September non vuole essere questa sintesi tematico-formale, ma si pone le stesse domande e raggiunge le stesse risposte, perché è in un certo senso già Les Destinées, e infatti è girato come se lo fosse (con i suoi temi), solo attraverso la mediazione del blando autobiografismo proprio della prima fase (di cui il film è summa) e senza l’irrigidimento nella regola. Rispetto all’adattamento di Chardonne “il film di famiglia” è più libero, disinteressato agli obiettivi, impegnato non nella ricerca di un’immagine teorica ma solo nella propria gioia di fare ed essere – talmente libero (e girato nella povertà del Super16) da causare la paura in Assayas dell’abbandono di tale libertà; un film fatto “tra” che assorbe tutto ciò che lo precede e lo supera e sta in acrobatico equilibrio all’interno di una carriera, diventando teorico suo malgrado. Teoria al massimo grado proprio su quei destini sentimentali, su Proust, su come superare Proust, su come confrontarsi con il tempo della vita e con il suo incedere, sulla fine della giovinezza, sulla fine delle certezze, sulla morte, sul perdono, sulla memoria, sugli oggetti che la contengono. Teoria che inizia con delle pulsazioni luminose e non è mai veramente altro che una panoramica di queste intensità abbaglianti, concretate da corpi attoriali che gli danno forma tramite connotati, gesti, azioni.
Questa luce dei corpi, catturata nel movimento incessante della camera, ruota intorno alla minaccia della sua scomparsa, alla possibilità di un affievolirsi: se fosse possibile normalizzare la progressione ellittica del film, fatta di accensioni e spegnimenti arbitrari come impressionati in modo casuale, in una trama si potrebbe dire che la trama racconta della malattia di Adrien (interpretato da François Cluzet), scrittore da poco quarantenne, e della reazione dei suoi amici e collaboratori (il mondo è quello dell’editoria) a questo suo malessere un po’ nascosto, un po’ ignorato. Il punto non è però la rappresentazione della malattia e della reazione degli affetti, per quanto dotata di disarmante lucidità – quella lucidità che permette al particolare di sforare nell’universale -, bensì la rappresentazione dell’impermanenza delle cose che la malattia (che è in realtà certezza più o meno confessata della fine) innesca nel corpo del vivente e dei viventi. E, non secondariamente, la rappresentazione della disperata necessità di sostanziare questa transitorietà improvvisamente rivelata, il desiderio di sconfiggerla contraddicendola tramite il raggiungimento di qualcosa di concreto, qualcosa di meramente materiale in grado di durare. Ecco se c’è un avverbio che potrebbe corrispondere alle immagini con cui Assayas cerca di trasmettere lo stato emotivo dei personaggi che fa vivere sullo schermo questo avverbio sembra essere meramente: perché il termine mero, nel suo doppio significato, corrente – solo, schietto, quasi banale – e arcaico – singolarmente lucente -, rende bene lo stato di immagini che si fanno carico della lotta contro lo svanire delle cose e soprattutto del valore che le cose assumono in sé proprio in virtù del loro svanire, mediante la frequentazione del loro banale esserci, della loro superficie.
Assayas non si ferma che sulle superfici delle cose, le coglie per un attimo, vola sopra di esse, indugia e poi, come se guardarle fosse troppo, distoglie lo sguardo. La mera superficie colta però si fa sempre attimo singolarmente lucente che vale in se stesso, patrimonio che si può per pochi istanti catturare, ricordare. Adrien racconta bene di questa forma di appropriazione delle cose quando racconta di un disegno che ha comprato per il solo gusto di poterlo fare, con i soldi guadagnati dal suo primo libro. Intorno a questo stesso disegno ruota il film: è firmato da Joseph Beuys, rappresenta un cervo e vale una fortuna. Questo stesso disegno diventa l’eredità lasciata da Adrien per Véra, la ragazzina di lui innamorata (interpretata da una giovane Mia Hansen-Løve), che proprio nel finale del film riceve il disegno come ricordo della relazione passata. Adrien diventa, dopo la sua scomparsa, il disegno, nella misura in cui è ricordato attraverso di esso, cioè l’oggetto con cui per un attimo è stato in grado di compiere qualcosa di concreto nel mondo; un gesto di autentica, disperata presenza teso a contraddire la sua necessaria dispersione nel nulla. Il destino sentimentale di chi resta sembra essere ricordare l’assenza, rilevarne la traccia attraverso le mere cose che parlano la lingua dei morti, resistere perché persisti ancora un po’ la vibrazione di ciò che ha attraversato lo spazio vitale - e quando Assayas conduce la macchina negli spazi provocando sbalzi senza drammaturgia non è forse il suo un modo di riprodurre la vibrazione vitale di ciò che può al massimo transitare e transita senza grandi ragioni?
Beuys non è una scelta casuale a questo proposito: in un momento in cui l’orizzonte culturale della Germania del dopoguerra era segnato da una volontà di un internazionalismo non intenzionato a riflettere sul passato recente e a dichiarare la propria incapacità di elaborare il lutto per le vittime del fascismo, la sua operazione artistica si caratterizzò in senso contrario come un’estetica della memoria. Questa estetica della memoria in Beuys si coordinava con la ferma negazione di ogni cristallizzazione (tutto è coinvolto nella polarità freddo/caldo, caos/forma, e bisogna cercare il calore), tentativo di uscire dall’arte cercando di seguire la metamorfosi, la dinamicità della natura. Anche Assayas propone un’estetica della memoria (che diventerà nel suo cinema forza contraria alle anestetizzazioni del capitale) coinvolta nella tensione tra dissoluzione e aggregazione: i suoi personaggi cercano di aggrapparsi alla materia, le immagini cercano di strappare qualcosa dal mondo, sia i primi che le seconde rispondono al destino sentimentale di chi è costretto a tutti i costi a ricordare per non farsi vincere dalla perdita, per non lasciare l’ultima parola all’assenza e allo scorrere temporale che tutto disgrega, che tutto rimuove. La forma si impregna di questa consapevolezza, di questa lotta in tensione e si fa cattura indebita, contrabbando di luminosità che rimane sospesa sopra le necessità illustrative senza diventare mai astrazione fuori contesto. Non è ancora linea classica, ma è una linea che si apre e apre le cose, radicandosi in esse, anche quando queste sembrano non avere più niente da dire. È linea che interroga e ascolta i silenzi, perché sa che in essi c’è un mormorio che dal fondo del tempo perduto dice «vita, vita, vita».