First Reformed - La creazione a rischio
Capolavoro dal sapore testamentario che condensa e supera l'intera filmografia schraderiana.
Nel rigore ascetico di un 4:3 bergmaniano, l’occhio scivola sulla vecchia parete di casa del reverendo Toller. È appena un attimo, ma l’immagine si svuota, senza lasciare traccia di figura umana. Eppure quella stessa immagine vive, respira, è abitata da qualcos’altro. Ci guarda, faccia a faccia, impetuosa. Ciò che non ha vita si fa carico di una memoria affettiva, di un dolore atavico impossibile da mettere in scena se non nel vuoto stesso che l’ha generata. Un vuoto pienissimo che conserva in sé il soffio più antico: come il deserto di Adam Resurrected, tutto rinchiuso in una stanza, tutto nella mente di chi ancora sogna.
Il libro di Giobbe rimbalza dalle cosmogonie malickiane alla stanza scevra del reverendo Toller: “Dov’eri tu quand’io ponevo le fondamenta della terra?” La parola vivifica, genera immagini, scava nel profondo alla ricerca di un carisma perduto: parola e immagine, Verbo e creato.
Il reverendo Toller tiene un diario, scrive rigorosamente a mano, permette che la parola sgorghi da sola, come un fiume in piena. L’atto stesso della confessione è un progressivo svuotamento cui può seguire l’azione del sangue, il gesto sacrificale, il martirio. Questa parola è eterodiretta, come quella del Profeta in cui risuona il Verbo di Dio. Non solo: Toller, novello Giacobbe, lotta contro l’angelo nella notte più lunga della sua vita – che è quella del suo ultimo anno. È in questo conflitto, in questo scontro infinito, che si modella la visione, che nasce la missione di un prete che vuole ricominciare da capo, radicalmente. Definitivamente. Per rifondare il mondo c’è bisogno di un gesto estremo: la rabbia, o meglio ancora il furore, si eleva ormai a categoria centrale del cinema schraderiano.
A settantuno anni, Paul Schrader firma il suo film definitivo, dal rigore testamentario, l’opera che si insinuava tra le immagini di un’intera carriera. Il capolavoro che era già lì, nel 1972, quando il regista finiva la sua tesi di laurea, quel Trascendente nel cinema che avrebbe arginato il suo intero percorso creativo. Forse già allora in Ozu, Bresson e Dreyer, Paul Schrader modellava il suo film-sacrificio, inseguito, iniziato, interrotto, rifatto, ripensato, ritrattato per quarant’anni. È un film che conosce il peso del dolore, il flagello della carne, l’amore che tutto può e tutto salva, perfino oltre la luce della redenzione. Nella storia del reverendo Toller, Schrader mette finalmente in scena quella spina nella carne di paolina memoria. Il male che ci perseguita, l’angelo di Satana che ci schiaffeggia e tormenta, giorno dopo giorno, in un crescendo di rara intensità.
Non è tanto l’origine del male a interessare Schrader, quanto il suo insinuarsi quotidiano, il suo movimento sinuoso e serpeggiante, il suo lavorio lento e implacabile: non è d’altronde questo il cuore della sua filmografia? Non è la radice calvinista, apocalittica, ad averlo portato al cinema stesso come luogo di battaglia, come resa dei conti sempre in divenire? In un mondo alla deriva, scivolato nella catastrofe ambientale, l’apocalissi schraderiana, l’ultima rivelazione, germoglia nei controcampi di idraulico liquido e di alcool. Lì, in fondo al bicchiere, si scorge la necessità di un soldato di Dio che rinasca nel sangue di Cristo, per il sangue di Cristo. Si potrebbe anche parlare di una sorta di curato di campagna in versione kamikaze. E se tutto il creato non fa che lodare il suo Creatore, sono il silenzio, l’angoscia e la malattia l’anticamera per una nuova storia della Salvezza (o della dannazione?). Del resto da più di quarant’anni Paul Schrader va alla ricerca di questa lotta notturna, di quest’incubo eucaristico.
First Reformed non fa che ripartire da dove tutto era cominciato, aggiornandolo, realizzando l’opera che più di tutte racconta il vuoto pneumatico che ci circonda. Si tratta del film assente, del film che manca, del film in sottrazione che concentra tutta la sua tensione per poi squarciare lo schermo clamorosamente, devotamente. E lo fa dopo The Canyons, lo fa dopo i cinema chiusi, le camere digitali, le gloriose star cadute come meteore di un universo retrò (Cane mangia cane). Lo fa dopo aver sognato Bogart tra i pixel digitali, lo fa dopo aver esplorato i corpi simulacrali di Lindsday Lohan e James Deen. Lo fa ripartendo da un crocifisso che emerge dall’oscurità, dal corpo della chiesa che è lì ed è sempre stato lì, oltre l’immagine, sotto l’immagine, nel suo cuore segreto. Bisogna scavare, scorticare la pelle dell’inquadratura, togliere fino ad arrivare allo spirito stesso delle cose. Fatichiamo quasi a vedere questa croce, questa chimera che brilla appena nel buio. Poi, lentamente, eccola venire alla luce, come fosse rinvenuta dopo secoli di oblio: un incipit archeologico con gli occhi puntati nelle tenebre. Per un gioco di rimandi, pensiamo alla croce sepolta sottoterra, stretta al cuore del protagonista di Silence di Scorsese, in viaggio oltre i confini del nostro mondo. Ma qui la croce ritorna, rinasce e, soprattutto, riforma.
Schrader, fin dall’inizio, ritrova un lume tra le tenebre, intercetta l’ultimo agnello che subisce su di sé i mali del mondo, sognando di rinascere in una purezza senza tempo. In fondo il reverendo Toller è un Travis Bickle mosso dall’ardore spirituale di un sacrificio ultimo, totale. Non gratuito, non folle e santo come quello di Alexander in Sacrificio di Tarkovskij, ma guerrigliero, munito di un’armatura come un vero e proprio soldato di Dio. Eppure la luce in Schrader è poliforme, il suo riflesso genera entità anfibie, contraddittorie: allo specchio, il volto di Dio può sovrapporsi a quello del diavolo, la scimmia imitatrice. Il discernimento, allora, è la chiave per l’uomo giusto. Ma le pulsioni, i fremiti, i tremori, ledono il guerriero, lo feriscono e lo fortificano allo stesso tempo. Da Romani 7: “Io non compio il bene che voglio, ma faccio il male che non voglio”.
Nelle strutture verticali di una composizione solenne, ogni apparizione del personaggio di Amanda Seyfried emana radiazioni angeliche. Ma insieme lancia un riverbero molto più inquieto nell’aria, nel corpo stesso dell’immagine. Un lascito, un risveglio del desiderio addormentato. Arriviamo al momento in cui il corpo di lei sfiora quello di lui: non tanto la scoperta dell’altro, ma il suo pericolo imminente, la tentazione dell’angelo. Lo spazio si colora allora di desiderio, il tempo scolpisce l’immagine, ci fa sentire le pulsazioni stesse di un sogno sacro e profano attivato dal medesimo battere di ciglia. Vediamo il corpo pesante del reverendo steso a terra, supino, statico eppure vibrante. Sopra di lui la figura della donna, aerea anche se carnale, buona anche se proibita. Le sue labbra sono un varco per un viaggio oltre i confini spaziotemporali, da conservare, rispettare, bramare nelle notti di guerra. Le anime levitano, sollevate da un soffio, condotte poi a volare sulle rovine stesse di una terra che brucia e che soffre. L’intero creato, all’unisono, sembra gridare a squarciagola, come in uno specchio distorto. E da lì in poi tutto il controllo assoluto di Schrader, tutta l’essenzialità bressoniana, si sposa con lo sguardo paranoico di Travis Bickle, intrappolato nel riflesso finale di Taxi Driver. Il film esplode: le strutture portanti si liquefanno, la tunica rivela il corpo, l’armatura lascia spazio al sangue, l’atto terroristico s’inverte in emanazione d’amore. E nella canzone finale (dove rivivono ancora la mano destra e la mano sinistra di Mitchum nel capolavoro di Laughton) il tempo, tutto il tempo del mondo, si sospende nell’unico atto d’amore possibile: l'irruzione della grazia, cuore di tutto il cinema schraderiano e dei finali più belli del mondo (American Gigolò, Lo spacciatore). L’ultimo bacio prima del risveglio, l’ultimo sogno in un mondo fin troppo desto, l’ultimo film in una sala ormai in chiusura. Il cinema della fine...alla fine.
Poi uno stacco netto e il buio senza voce in cui l’immagine precipita.
Nell’oscurità il silenzio non è mai stato così assordante.