Il collezionista di carte
Di nuovo nel cinema della colpa e dell'espiazione, a contatto con Bresson, ma questa volta quello di Schrader è un film sul potere delle immagini mancanti, sul loro ruolo all'interno del trauma sociale.
Sarebbe superficiale ridurre Il collezionista di carte (traduzione, ahimè, capziosa a tal punto da attirare in sala un pubblico non certo avvezzo – e felicemente – al cinema di Paul Schrader) a una versione laica di First Reformed. Se è vero che la produzione più recente del regista si è ormai consolidata sul grande tema dell’espiazione della colpa, e che la forma del suo cinema è sempre più vicina a quel Bresson che continua, ripetutamente, ostinatamente, a citare (come questo possa essere considerato un “appiattimento” per certa critica, resta un mistero), lo Schrader di The Card Counter è questa volta marcatamente politico, e la riflessione che ricava a partire da un’immagine mancante non può essere liquidata facilmente, ma va piuttosto letta alla luce della sua educazione calvinista: Schrader infatti ha ricevuto tale formazione in gioventù, nel seminario della Chiesa Cristiana Riformata, dove la spettatorialità cinematografica è vietata; va da sé, quindi, che la produzione di immagini e la Colpa vadano a braccetto nella sua riflessione.
William Tell (un meraviglioso Oscar Isaac) ha finito di scontare otto anni di carcere, inflittigli per essere stato aguzzino ad Abu Ghraib, in Iraq, e decide di sopravvivere con le vincite essenziali (qualche centinaio di dollari) che riesce a ottenere contando le carte nei vari Casinò. I suoi piani vengono però sconvolti dall’incontro con Cirk (Tye Sheridan), un ragazzo che cerca vendetta contro il maggiore John Gordo, il carnefice capo e primo responsabile delle torture, risparmiato grazie al suo peso politico e al fatto che nelle foto che ipotecavano lo scandalo non apparisse; Cirk infatti accusa Gordo per il suicidio del padre, commilitone di Tell che, terminata la reclusione, ha ripetutamente violentato moglie e figlio prima di togliersi la vita.
The Card Counter è un film sulle immagini assenti, sul potere che l’immagine celata alla vista esercita sui personaggi (un figlio privato dell’immagine del padre, un uomo condannato perché in una fotografia non figurava il suo superiore) e sugli spettatori, torturati dal non visibile, da quelle violenze che, per tutta la durata del film, guadagnano forza proprio perché in fuori campo, lontane dagli occhi e quindi dal mare magnum delle immagini pornografiche che affollano il contemporaneo. Le fotografie che diedero vita allo scandalo di Abu Ghraib nel 2004 sembravano una rivelazione, la manifestazione di una realtà segretata agli occhi del paese e al mondo intero che segnò un grosso scollamento tra Bush e l’opinione pubblica, ma le immagini che certificano il dramma personale, quelle vissute in prima persona dagli aguzzini, quelle della tortura, nello specifico, devono rimanere lontane dallo schermo e quindi dal pubblico, troppo personali, troppo reali per essere riportate, stilizzate, o anche solo immaginate.
Come il Michael Moore di Fahreneit 9/11 che validava il dramma dell’11 settembre con uno schermo nero che lasciava spazio al solo audio del crollo delle torri, per Schrader l’immagine è un trauma, o forse Il trauma, e se in First Reformed il pastore interpretato da Ethan Hawke finiva con l’auto-torturarsi per le immagini che tempestavano la sua, e solo la sua, mente, questa (mancata?) espiazione di William Tell assomiglia più a un tentativo di esorcismo di un trauma sociale, che può trovare soluzione, se davvero la può trovare, solo nel confronto diretto, isolato e occultato con quelle stesse immagini che, prive di supporto materiale, faticano a sbiadire, impedendo al protagonista la possibilità di (re)integrarsi in una realtà utopica in cui queste non sono mai state prodotte.