Il maestro giardiniere
Schrader trova il punto conclusivo della sua trilogia sul cinema trascendentale e si concede un momento di straordinaria libertà espressiva, in cui non solo teorizza sui presupposti teologici dei propri maestri ma guarda con commozione alla propria carriera.
C’è una scena, in Master Gardener, dove Paul Schrader rimette in gioco tutto il suo cinema. In realtà si tratta giusto di una frase, accennata quasi con disinteresse dal personaggio di Joel Edgerton (Narvel Roth, giardiniere in cerca di redenzione dopo un passato di violenza efferata) nei confronti di quello interpretato da Quintessa Swindell (Maya, ragazza in fuga dalle proprie dipendenze e motore di quella possibile redenzione), quando i due si trovano all’interno di un parco e sono sul punto di affrontare i segreti dei rispettivi passati: «E poi di là c’è il giardino giapponese». È in questo breve cenno, apparentemente banale e circostanziale, e invece pietra di inciampo per la disattenzione con cui spesso si interpretano le categorie su cui lavora questo regista (su tutti l’ossessiva ripetizione degli stessi segni e delle stesse soluzioni drammaturgiche) - interessato come ormai quasi nessuno a fare ancora un cinema di idee, di pensiero, contro tutte le pressioni conformiste e omogeneizzanti, contro tutte le tendenze e i compromessi -, ecco è in questo segno che Schrader annuncia il suo film non solo come la chiusura di una trilogia sul cinema trascendentale (composta anche da First Reformed e The Card Counter), a cinquant’anni dalla tesi di laurea sullo stesso tema, e non solo come il possibile bilancio conclusivo di una carriera intera, ma più nello specifico come un inaspettato gesto di smitizzazione (simile per molti versi a quello compiuto con The Irishman da Scorsese rispetto all’epica del racconto mafioso), o meglio, di abbandono dei propri codici di riferimento, che si rivela essere anche commovente rivendicazione identitaria.
La storia e l’impostazione figurativa di Master Gardener in apparenza non sembrerebbero muovere a favore di questa tesi, anzi: fin dalle prime controllatissime immagini Schrader sembra considerare il personaggio di Narvel Roth come una figura speculare ai personaggi costruiti in precedenza, l’ennesima estrinsecazione narrativa delle teorie sul formalismo trascendentale, l’ennesima occasione di argomentazione per esponenti. A guardare bene però (questo è un cinema da guardare con attenzione, un cinema di abissi mascherati da superfici, pieno di depressioni concettuali nascoste nel dettaglio) sono molti i segni e gli strappi che avvertono di uno slittamento fuori dai moduli con cui il regista ha impostato il cinema della trascendenza – la frase sopra è solo uno di questi, un inside joke che incuriosisce su quale configurazione estetico-botanica sarebbe propria di Schrader, regista da sempre disinteressato sia all’esperienza estetica del teatro, propria del barocco giardino francese tutto quinte e simmetrie, sia al sincretismo pittoresco proprio invece del giardino all’inglese, sintesi tra neoclassicismo e naturalismo. Che dire, ad esempio, della grandiosa inversione a U con cui a un certo punto il regista ribalta i presupposti di teologia dialettica bressoniani - quelli secondo cui non c’è salvezza redentiva se non in una rivelazione che è esterna a questo mondo – operando la riscrittura dell’iconografia della cacciata dall’Eden con cui il film sembrava essere rigidamente impostato fino a un certo punto (con il personaggio di Norma, interpretato da Sigourney Weaver, padrona del giardino che scaccia i due novelli Adamo ed Eva dal giardino di sua proprietà)?
Ultimo di una serie di momenti di rottura degli schemi derivativi (tra cui spicca l’abbandono, tramite sfogo di Narvel, del modulo narrativo diaristico solitamente usuale nel regista), la riconfigurazione concettuale della cacciata – apparentemente confermata, poi invece annullata e rivista nella sua dimensione di contratto sociale (se per Adamo ed Eva nel racconto biblico la caduta corrisponde all’inizio del lavoro, nel film i personaggi protagonisti si garantiscono la permanenza nel giardino edenico proprio mediante l’assunzione di lavoro contrattualizzato) – genera un’immagine totalmente nuova non solo nel cinema di Schrader (mai pienamente redentivo), ma proprio nel senso lato del termine: un’immagine non ancora vista, un’immagine assoluta, nel senso etimologico di “sciolta dal resto”. È l’immagine di Narvel e Maya nel giardino, l’immagine che territorializza la loro redenzione, segno di un’avvenuta, compiuta, non più solo utopicamente sognata, appropriazione umana di uno spazio di salvezza. Quest’immagine mai vista, quest’immagine redentiva, non è impronta visibile di un’invisibilità trascendentale (come appunto insegna il formalismo) ma è rivoluzione concreta dei programmi del destino e infatti giunge a conclusione come punto apicale della metafora del giardinaggio con cui è costruito il film (“il giardinaggio è possibilità di un futuro”); questa stessa immagine non indica più solo una matrice costitutiva, un’origine di provenienza (“è di là il giardino giapponese”), ma si distanzia dalla propria genetica con una ferma decisione d’identità (“è di là il giardino giapponese, ma non ci andremo, la nostra storia si compie altrove”), che illumina Master Gardener oltre le formule esponenziali della ripetizione, trasportandolo nel territorio delle confessioni private e universali a un tempo, che superano anche la raffinata teoria sul cinema.
Mentre danzano nel porticato soleggiato, nella casa che conquistano ribaltando il destino di sofferenza e disfatta a cui sembravano destinati, i personaggi di Narvel e Maya non sono più elementi espressivi del linguaggio formalista, quella lingua morta riabitata da Schrader fuori tempo massimo (culturalmente parlando) per rompere con lo stato di progressiva virtualità delle immagini contemporanee (cercando ripetizioni segniche non smaterializzanti ma capaci di creare segni materici, analogici): sono elementi di una lingua viva, corpi concreti, figure libere da qualsiasi determinismo narrativo e concettuale, segni di una salvezza disponibile anche dentro al tempo e di un perdono che si compie nel mondo pur essendo per definizione fuori da ogni sua logica (l’immagine libera finale è innescata da questo nel film, un perdono impossibile che però si compie). Negli ultimi momenti di Master Gardener, Schrader si concede questa salvezza e questo perdono irreale come conquista personalissima in cui identificarsi, desiderio di pace fuori da ogni forma imposta e momento di intensità privato confessato quasi con timidezza, almeno per una volta, almeno per una piccola storia. Nel cinema non c’è niente di più vicino a una preghiera.