Benedetta
Verhoeven sovverte il sistema di segni su cui si regge il potere ecclesiastico all’epoca della Controriforma, in un film in cui il sacro è una pantomima e il desiderio un’arma rivoluzionaria
Flesh+Blood, del 1985 (L’amore e il sangue per l'edizione italiana) è probabilmente il titolo più eloquente fra quelli scelti da Paul Verhoeven per i propri lavori, essendo in grado di evocare, in guisa di sineddoche, la cifra tematica ed estetica, quindi concettuale e morale, del suo cinema. Carne viva e sangue, vita e morte, maschile e femminile, istinti basici e pulsioni ai confini con la perversione dirigono i destini dei suoi personaggi, e sono gli autentici propulsori della sua visione del mondo e dell’uomo, una visione di cui il film con Rutger Hauer e Jennifer Jason Leigh, poc’anzi richiamato, costituisce uno dei baricentri più significativi. Ateo dichiarato, allergico a qualsiasi dogma, sia esso religioso o profano, alieno da ogni principio d’autorità, Verhoeven non ha dubbi su quale versante scegliere nel sempiterno conflitto fra Desiderio e Legge. Ecco allora lo scandalo-spettacolo, la necessità dell’esibizione esplicita di temi e corpi (laddove sovente gli uni sono gli altri e viceversa), l’urgenza di una verità filmica che letteralmente trasudi dall’immagine per sommergere l’occhio, perché Verhoeven, old boy del cinema europeo e americano, non si nasconde mai e gioca, felice come un infante, con gli attori, le attrici e gli spettatori, esibendo argomenti non di rado scabrosi e tracimando non di rado oltre i confini dell’(auto)ostentazione compiaciuta e beffarda.
Da queste premesse non può che svilupparsi un cinema terragno e sanguigno, legato alla materia, alla carne, al transitorio, tutti elementi-categorie che, venendo assolutizzati nel cinema dell’olandese, obliterano dall’orizzonte ogni astrattezza metafisica, ogni traiettoria morale/moralistica aggrappata all’indiscutibilità della Legge (umana o divina che sia). Ed è da qui che nasce anche la refrattarietà di Verhoeven per l’autorità e per l’aura sacrale di cui è rivestita, poco importa che sia incarnata dalla Federazione di Starship Troopers (1997), dalla OCP di Robocop (1987), o ancora dalla polizia di San Francisco in Basic Instinct (1992), perché lo sberleffo è dietro l’angolo, meglio se dissimulato/sommerso dall’accumularsi di segni e stereotipi coerenti col contesto rappresentato. Ciò che riesce pressoché impossibile nascondere, a Verhoeven, è l’idiosincrasia per la sacralità religiosa e per i molti feticci di cui si addobba. Dalla devozione fanatica del padre di uno dei tre protagonisti di Spetters (1980), passando per il Cristo feticcio sessuale ne Il quarto uomo (1983) o per il San Martino “menagramo” de L’amore e il sangue, in tutto il cinema del regista è pressoché presente un sarcasmo furente e derisorio nei confronti dei simboli e dei rituali cristiani, ma soprattutto del sovraccarico di potere e di credenza irrazionale, ai confini con la magia, che essi innescano nell’uomo.
Il percorso di demolizione (in)controllata degli idola religiosi raggiunge lo zenit in Benedetta, ultima fatica del regista e, probabilmente, massima espressione della sua iconoclastia. Prendendo le mosse dal saggio letterario di Judith C. Brown Atti impuri (1986), focalizzato sulla figura della monaca toscana Benedetta Carlini, Verhoeven ritorna al film in costume di ambientazione rinascimentale, dopo L’amore e il sangue, pur spostando le lancette della Storia avanti di circa un secolo. Tuttavia, là dove il 1501 raffigurato in quest’ultimo titolo viene visto dal regista come una sorta di prosecuzione ideale del Medioevo, quindi come un’età autenticamente barbarica e senza speranza, ancorché libera, in quanto animata da quanto di più originario e primordiale alberga nel cuore dell’uomo, l’epoca a cavallo fra fine ‘500 e inizio ‘600 di Benedetta tratteggia invece una società in apparenza più evoluta, addomesticata e, nondimeno, ben lontana dal risultare pacificata. E non è forse un caso che a scandire, almeno in parte, i destini dei personaggi Verhoeven ponga, in entrambi i film, quella sorta di deus ex machina al contrario che è la pestilenza, un moltiplicatore di tensione e disseminatore di discordia e diffidenza, che articola ulteriormente i due racconti filmici.
In Benedetta, lo sfondo dei conflitti che attivano il procedere della narrazione è uno degli innumerevoli sistemi di potere interni alla chiesa di Roma, vale a dire il ricco convento femminile di Pescia, nel quale vengono ammesse solo fanciulle di famiglia benestante. Le anime libere e inquiete di Benedetta (interpretata con carisma e senza eccessi recitativi da Virginie Efira) e di quella che diverrà la sua amante, la novizia Bartolomea (Daphne Patakia), fungeranno da freno agli ingranaggi del sistema stesso, scolpiti nel tempo e nella storia. Il terreno dello scontro è, innanzitutto, il segno, da intendersi come (re)interpretazione dei processi cognitivi e valoriali che conferiscono identità e potere ai membri di una collettività.
In un orizzonte storico come quello della Controriforma, nell’Italia cattolica del ‘600, epoca intrisa ancora di superstizione e di quello che – agli occhi di un non credente come il regista – è un sapere pseudo-magico come la religione, la funzione narrativa ricoperta dalla protagonista è quella di disfare, letteralmente, il tessuto semiotico su cui si regge sia la micro-comunità di cui entra a far parte sia, per esteso, la macro-comunità rappresentata dall’Ecclesia intera. Ricorrendo sovente a immagini da aperto scandalo (il Cristo asessuato o indomito spadaccino dei sogni estatici di Benedetta, la statuetta della Madonna riconvertita in godemiché) e chiaramente parodiche (più alla Monty Python che alla Buñuel, per intendersi, e con più di un pizzico di Borowczyk), Verhoeven scompagina, letteralmente, “l’impero dei segni” cattolico, tramite le visioni e i “miracoli” (le stigmate) che consentono a Benedetta dapprima di essere incoronata come badessa del convento, persino in odore di santità, e che poi la rendono vittima di un’accusa di eresia. Se la religione è un sapere pseudo-magico, il sacro ne individua la soglia e il confine. Di qui, la pantomima del sacro – la blasfemia, se si vuole – che Verhoeven filtra attraverso il personaggio di Benedetta, senza chiarirne le ambiguità o i disegni, ma creando un’immagine deformemente speculare a quelle di santi, beati e martiri dell’iconografia cattolica. Del resto, Verhoeven si è spesso collocato al cospetto di un’immagine ben definita di società (quella della piccola borghesia di Spetters, quella para-nazista di Starship Troopers, o ancora, quella iper-liberista, corrotta e repressiva a un tempo di Robocop) per mostrarne le aberrazioni e per demolirne gli archetipi, soprattutto morali e comunicativi.
In Benedetta, là dove l’iconoclastia è l’innesco per la rivoluzione all’interno dell’impero dei segni cattolico, la componente sessuale lesbica di cui si rendono interpreti Benedetta e Bartolomea funge da grimaldello ulteriore per far saltare la serratura dell’ipocrisia di un mondo che nega l’umano e le sue naturali pulsioni, là dove consente sotterraneamente qualsiasi abiezione, purché allineata alla narrazione e al sistema di potere dominanti. La sottile linea che separa il santo dal peccatore, il credente ortodosso dall’eretico (ma anche l’approccio serio da quello caricaturale, a livello di regia) è esibita in tutta la sua fragilità dal personaggio di Benedetta, tanto delicata e partecipe nei privati convegni amorosi con la sua protetta, quanto energica, persino diabolica, quando agisce in pubblico, divenendo – nell’ennesimo cambio di segno operato dal regista – una sorta di posseduta dal “demone” di Cristo, tanto che il regista le mette in bocca parole e timbro da ossessa degne di Linda Blair, o magari di Carla Gravina, nei momenti in cui il personaggio si ritrova preda di uno dei suoi momenti estatici in cui “vede” Gesù, l’unica figura maschile possibile nell’immaginario di chi ha preso i voti.
Rimanendo coerente a una filmografia colma di figure femminili forti e testarde, animate sovente anche da un inevitabile cinismo e da una cospicua dose di ambizione, in ambienti sempre o quasi colonizzati dalla predominanza maschile, Verhoeven costruisce un film pressoché interamente muliebre (spicca la badessa originaria del convento, interpretata da Charlotte Rampling), con figure gerarchicamente rilevanti o sottomesse, poco importa, tutte rinchiuse all’interno di un recinto in cui vigono, in sedicesimo, le medesime regole della sopraffazione e della cupidigia del mondo esterno, di cui è simbolo l’unica figura maschile rilevante, il nunzio apostolico interpretato da Lambert Wilson. Sospeso fra dramma privato, conflitto pubblico e icastica parodia, Benedetta è un coerente punto d’arrivo per un regista che di rado ha occultato la propria indole refrattaria alle regole – pur lavorando, e con successo, a Hollywood – e che in questo caso, da ateo di formazione protestante quale è, ha trovato pane per i suoi denti affilati.