Potremmo aprire quest’articolo dicendo che Kevin Smith è tornato. Che dopo l’hollywoodiano Due sbirri a piede libero dell’anno scorso, filmetto senza onore né gloria, il cantore del New Jersey abbia recuperato i grandi livelli del passato, ma in realtà sarebbe un’apertura tanto facile quanto imprecisa.
Il primo motivo è che la carriera di Smith è notoriamente controversa, inflazionata dal suo grande esordio con Clerks. Il secondo è che questo Red State è qualcosa di totalmente alieno alla precedente filmografia del suo regista/sceneggiatore; girato e distribuito pressoché nella piena indipendenza, presentato al Sundance nel gennaio 2011 e distribuito sul mercato home-video americano dallo scorso 18 ottobre, Red State – premiato come miglior film al Sitges, Festival internazionale del cinema della Catalogna – è un film di genere che si fa pamphlet politico, un thriller asciutto e furioso allo stesso tempo che si agita come una scheggia di vetro nei nervi scoperti di una nazione insanabilmente contraddittoria. Un lavoro che oggi, a pochi giorni dall’uccisione di Gheddafi, acquisisce nuova paradossale forza, semantica e simbolica, tant’è che per la sua comprensione siamo costretti ad una breve e allucinata detour storica americana.
Iniziamo con il 21 agosto del 1992, quando agenti dell’ATF e dell’FBI cingono d’assedio la fattoria della famiglia Weaver (padre, madre, figlio quattordicenne e bimba in fasce). Gli Weaver, mossi da una squallida e confusa idea di separatismo bianco, si erano isolati nella propria proprietà, non nascondendo simpatie politiche per movimenti di estrema destra. Attirata per quest’azione l’attenzione dei federali, il signor Weaver viene valutato come un individuo pericoloso e incriminato per una detenzione illegale d’armi da fuoco. Non essendo comparso in tribunale i federali circondano la sua fattoria, e nella manovra uccidono il cane che aveva rivelato la loro presenza. Vedendo degli stranieri sparare al proprio animale, il figlio degli Weaver fa fuoco a sua volta e viene presto abbattuto a mitragliate dagli agenti. Successivamente anche la madre viene uccisa, centrata da un cecchino, mentre il marito inizia a rispondere al fuoco. Si arrenderà all’assedio dopo pochi giorni, e prosciolto per l’accusa di omicidio di uno degli agenti diverrà protagonista di un infinito evento mediatico e giudiziario.
Il secondo punto è ancora più eclatante. Sempre nel 1992 l’ATF, sospettando un possesso di armi da fuoco modificate, monta un caso federale contro David Koresch e la sua congregazione dei davidiani, con sede in una fattoria a Waco in Texas (un culto dai molti aspetti semplicemente disgustosi). Il 28 febbraio del ’93 un tentativo di perquisizione dello stabile sfocia in un conflitto a fuoco con dieci morti tra davidiani ed agenti; la sparatoria diviene poi un assedio lungo 50 giorni, condotto con tanto di veicoli corazzati e carri armati leggeri, risolto da un incendio che causerà 76 morti, compresi diversi bambini. Se è stato appurato che diverse di queste morti sono avvenute seguendo una modalità di omicidio-suicidio, molte altre sono state attribuite allo spaventoso incendio del fienile, le cui cause non ancora accertare risiedono con buona probabilità nell’uso da parte degli agenti di particolari granate a gas. L’aspetto più rivelante del controverso massacro di Waco però risiede nel fatto che l’evento funse da catalizzatore politico, unendo molti esponenti di movimenti estremi contro un nemico comune: il governo federale. Ed è da questo background che scaturisce il nostro ultimo tassello, l’attentato di Oklahoma City del 19 aprile 1995, in cui Timothy McVeigh fece saltare in aria con 2.300 chili di esplosivo fatto in casa l’edificio federale Alfred P. Murray, causando 168 morti.
Ora direte: cosa c’entra tutto questo con quel simpaticone barbuto di Silent Bob? C’entra perché è esattamente a questi eventi storici che fa riferimento Smith in Red State, costruendo un film stratificato che si interroga sui tratti genetici del proprio paese, dal senso e modus applicandi degli Emendamenti Costituzionali alla sua politica estera. Il primo strato di Red State è l’apparenza ingannevole delle superfici: in cerca di una facile avventura sessuale, tre ragazzi liceali si mettono d’accordo per raggiungere una sera una donna trovata online, ma finiranno nelle mani di una setta di fanatici religiosi. Sono passati circa 10 minuti e siamo nel pieno della tradizione slasher, ma ecco che Smith introduce la figura del predicatore Abin Cooper (un grande Michael Parks) e tutta la sua famiglia di fondamentalisti cristiani, facendo compiere al film una sterzata improvvisa. “Le persone fanno le cose più strane quando credono di averne il diritto, ma fanno cose ancor più strane quando credono semplicemente” dice l’agente dell’ATF Keenan alla fine del film, palesando l’intento di Smith di mostrare il potere mistificante e auto-legittimante di ogni ideologia. Fino ad ora però Red State non è stata solo una furiosa requisitoria contro il bigottismo del fondamentalismo religioso, si va molto più a fondo e lo possiamo notare dal nome della congregazione del predicatore Cooper: i Five Points. Come saprà chi ha visto Gangs of New York, i Five Points erano la zona povera di Manhattan in cui, nella seconda metà dell’ottocento, le bande criminali dell’isola si davano battaglia, regolando conti e dividendo territori col sangue e cadaveri. Erano le strade e i vicoli in cui stava nascendo un paese geneticamente pregno di violenza e diversità e scontri ideologici, un paese in cui il possesso delle armi da fuoco è riconosciuto dal secondo emendamento come un diritto inviolabile, al pari di quello di voto o di libertà d’espressione. Lo stesso emendamento che Smith mette direttamente in campo nel film, mostrato ad alimentare la follia e l’incomunicabilità di un paese sconnesso.
Siamo al 50esimo minuto e sino ad ora Red State si è rivelato un’autentica sorpresa: caustico, intelligente, girato benissimo, ma manca ancora qualcosa. Abbiamo sul banco degli imputanti la Chiesa, presto arriverà anche lo Stato. E’ infatti solo a metà minutaggio che il film rivela la sua vera natura, nel momento in cui agli agenti ATF che hanno circondato la fattoria (manco a dirlo con la scusa di una perquisizione per sospetto possesso di armi da fuoco modificate) viene ordinato di uccidere indiscriminatamente tutti i presenti all’interno, bambini compresi. I federali infatti hanno per primi ucciso accidentalmente qualcuno all’interno della proprietà, facendo esplodere una vera e propria sparatoria tra le due parti. Consapevoli di aver mandato al diavolo l’operazione, gli uomini dell’ATF possono solo che fare piazza pulita, così che nessuno possa raccontare ciò che è successo davvero. Etichettati come terroristi, i membri della confraternita non hanno diritto a processi o inchieste, sono semplici testimoni scomodi. E’ con questa geniale manovra di scrittura che Smith trasforma del tutto il suo film, portandolo ad un confronto tra massimi sistemi erosi al loro interno, svuotati di senso e lasciati in balia di ogni degenerazione. E’ un Paese rosso sangue privo di ogni punto di riferimento.
“Hanno mandato a puttane quello che erano venuti a fare. Ci uccideranno, così non possiamo denunciarli, non vogliono testimoni, spareranno a tutti noi.” Semplice e diretto, lo sfogo di uno dei membri più giovani della setta ci sbatte davanti alla faccia dieci anni di politica estera americana. Cosa sono stati forse biechi individui come Saddam Hussein, Muammar Gheddafi, Bin Laden se non testimoni scomodi? Cosa erano forse questi uomini, una volta catturati, se non mine vaganti cariche di segreti inconfessabili? L’intervento dell’ATF di Red State così altro non è che una propaggine della lotta al terrore degli ultimi anni, l’ennesima manifestazione di quella modalità d’azione invasiva che ha già portato ad Enduring Freedom e alla seconda guerra del Golfo, situazioni andate a puttane condotte da un paese allo sbando, colmo di voci assordanti. Da oggi, contro di esse possiamo distinguere con lucida chiarezza quella di un inedito Kevin Smith.