The Mountain
Rick Alverson recupera l'anima più inquietante e sofferta degli anni Cinquanta americani, ma il suo sguardo intrappola il film in una pretenziosità stilistica che lascia soprattutto un senso di inconcludenza.
Due sedie poste l’una di fronte all’altra, nell’angolo di una stanza vuota. L’immagine eletta a foto di copertina di The Mountain rievoca la talking cure, richiama il dialogo che si fa strumento psicanalitico, soccorso lenitivo. Stranamente però nel film di Rick Alverson non vi è traccia di tutto questo, il mondo allestito dal film è congelato e asfittico, popolato da personaggi isolati tra loro e vittime di conflitti interni che paiono irrisolvibili. Nelle soluzioni offerte dal Dottor Wallace Fiennes (Jeff Goldblum) non c’è nulla di verbale, emotivo, empatico; il suo esercizio medico seda infatti le tensioni dei pazienti più aggressivi attraverso elettroshock e lobotomia, la malattia mentale viene troncata alla radice ma azzittita assieme alla coscienza, la cura confusa con la narcotizzazione. Ad accompagnare il medico lungo questa discutibile odissea psichiatrica c’è il giovane Andy (Tye Sheridan), orfano di padre in cerca di figure genitoriali, fotografo voyeurista che insegue un contatto con l’alterità psichica mentre vive l’ossessione e il ricordo della madre ospedalizzata, rinchiusa e forse lobotomizzata anch’essa in qualche stanza imbottita e accecata di bianco.
Il disagio psichico permea ogni atmosfera del film di Rick Alverson, che prende di petto il mito degli anni ’50 e lo stravolge svelando gli aspetti più oscuri e dimenticati del decennio: conformismo, alienazione, sofferenza e disumanità esercitate da una medicina psichica ancorata a metodi Ottocenteschi con ben poco di umano. Per Alverson la nostalgia che tanto domina la comunicazione contemporanea trova il suo riflesso nella pratica della lobotomia, soluzione anestetizzante che mira ad appianare ogni sussulto del pensiero. Ben lontani dal tanto decantato American Dream, gli anni Cinquanta di The Mountain sembrano piuttosto un incubo di incomunicabilità e addomesticamento, un orizzonte grigio e marrone squadrato nelle geometrie e soffocato negli spazi, dove l’alterità non trova modo di esprimersi e il conformismo si esercita a colpi di correzioni chirurgiche. Anche i sussulti emotivi dell’inconscio sono dominati dalla stessa atmosfera plumbea e sterile, l’onirico è abitato da confusi incubi sessuali e accesi momenti di panico, mentre la realtà scorre monotona come una delle lunghe strade boschive attraversate da Andy e Fiennes nel corso del loro viaggio.
L’unica prospettiva di fuga da questa dimensione immobile e contratta è la cosiddetta montagna, una confusa e facile metafora attorno alla quale ruotano tutti gli aspetti più vitali negati dall’universo del film: felicità, scopo, contatto fisico e mentale. Al di fuori di essa non vi è speranza, un approccio manicheo che si riflette nel formato 4:3 con cui Alverson soffoca personaggi e spettatori. Il risultato è una rievocazione mortifera la cui portata politica ci sembra disinnescarsi in partenza, imbrigliarsi in un pantano di pretenziosità e faciloneria stilistica. The Mountain fa sue molte delle strategie tipiche dell’approccio autoriale-festivaliero – camera fissa e tempi dilatati, personaggi silenziosi, composizione geometrica dell’inquadratura – ma questi stilemi vengono trattati con la superficialità di chi vi ricorre per adesione ad un canone prestabilito. Nel tentativo di criticare il ricorso politico alla nostalgia per un mito americano edulcorato e scisso dalla sua dimensione storica, Alverson fa del suo film un universo solipsistico e autocompiaciuto, che si adagia su effimeri elementi di stile e confonde la forma con l’inconsistenza, offrendo al posto della lobotomia la sicurezza di un teorema raffazzonato.