Tutti i soldi del mondo
Tra i peggiori film di Scott, un confuso miscuglio di thriller e biopic che perde la sua cifra morale in un mare di noia, macchiettismo e piatta superficialità.
Secondo Oscar Wilde il cinico è colui che conosce il prezzo di tutte le cose e il valore di nessuna. Lo stesso forse si può dire anche dell’avido, del morboso accumulatore di ricchezze per cui non esistono cose inestimabili perché tutto ha un prezzo, tutto può essere soggetto a contrattazione e ridotto a un’identità economica. Anche la famiglia, anche la vita stessa.
Tutti i soldi del mondo è una storia di denaro, di ossessione e solitudine, di una ricchezza economica che fa il paio con una degradante e parossistica povertà morale, emotiva, umana. Ma il discorso etico prende la forma di un film vacuo e stanco, nato senza idee e proseguito per inerzia lungo una ricostruzione storica macchiettistica e priva di spessore.
Ridley Scott ci ha da sempre abituati ad un cinema altalenante, frutto di un professionismo tecnico capace di valorizzare con un pieno controllo della macchina hollywoodiana buoni materiali di partenza (The Counselor, The Martian) ma anche di cadere vittima di sé stesso e della propria povertà di sguardo quando si pone al servizio di sceneggiature meno valide. E quella di Tutti i soldi del mondo, firmata dall’anonimo David Scarpa, è di una mediocrità non indifferente.
Superficiale nei caratteri psicologici e goffo nella gestione dei generi di riferimento (biopic e thriller, mescolati malamente tra loro), lo script del 25° film di Scott si prende ampie libertà nel ricostruire il rapimento del giovane John Paul Getty III, ma nello sganciarsi dalla Storia non approda a nessuna conclusione degna di nota, nessuna riscrittura che valga la pena seguire lungo gli interminabili e tediosi 132 minuti del film. Vengono accennati alcuni elementi degni di nota, come i rapporti a due tra uno dei rapitori (Romain Duris) e il giovane ostaggio (Charlie Plummer), o tra la di lui madre (Michelle Williams) e l’assistente dell’avido nonno (Mark Wahlberg), ma nessuna di queste dinamiche viene valorizzata, a nessun personaggio viene dato spazio e ossigeno, sacrificati a favore di una narrazione ripetitiva e superficiale che si adagia sui fatti senza che, paradossalmente, ne vengano raccontati di interessanti. Persino quello che dovrebbe essere il cuore del film, il contrasto speculare tra il dickensiano Getty (Christopher Plummer) e la macchina mafiosa che orchestra il rapimento, viene affidato didascalicamente a poche battute a effetto, senza che scrittura o sguardo registico riescano in qualche modo ad andare più a fondo, a toccare realmente una qualche nervatura morale di un mondo eretto sul solo denaro. E’ così che il re al centro di tutto, «l’uomo più ricco della Storia», resta soltanto una figura sullo sfondo, eminenza grigia animata da contraddizioni ed eccessi che non diventano mai materia d’indagine.
Tra i peggiori film a firma di Scott, Tutti i soldi del mondo è arrivato nelle sale sulla scia di polemiche a non finire, dallo scandalo che ha coinvolto Kevin Spacey alla sua successiva eliminazione, asportazione chirurgica risolta a tempo di record grazie ad un esercizio di professionismo estremo da parte dell’ottantenne regista di Alien. Senza entrare nei meriti della questione estetico/morale, estremamente controversa e più grande degli esiti del singolo film, resta lecito guardare a Tutti i soldi del mondo come ad un esempio lampante di come il mestiere e la tecnica non possano bastare se a mancare è l’urgenza di un’espressione comunicativa, l’energia vitale che trascende l’approccio col pilota automatico figlio della pura efficienza.