I’m Not Him. Io non sono lui. Un’affermazione decisa, diretta, che non lascia margini di dubbio, di ambiguità. Già il titolo dice molto. Il film di Tayfun Pirselimoglu mette in scena il rapporto tra Nihat, un uomo di mezza età molto riservato, solo, e una lavapiatti di nome Ayse. La ragazza ha un marito in prigione che somiglia molto a Nihat. Tra Ayse e Nihat s’instaura un rapporto particolare, giocato sui silenzi, su rapidi sguardi, due solitudini che cercano di confortarsi a vicenda. Finché un giorno Ayse, durante una gita in barca, annega misteriosamente.
Fino a questo punto I’m Not Him si gioca bene il fascino di un’opera misteriosa, affascinante, condotta con grande rigore (riprese statiche, pochissimi movimenti di macchina, quasi totale mancanza di musica) che ci spinge davvero a chiederci a quali conclusioni voglia arrivare Pirselimoglu. Ma da qui in poi I’m Not Him inizia a rendere evidente ciò che nella prima parte era tenuto nascosto, palesa e vanifica l’ambiguità fino a quel momento ottimamente costruita, diventa didascalico, prevedibile. Nihat inizia a vestirsi come il marito in carcere di Ayse, si mette i suoi occhiali, si taglia i baffi, inizia a comportarsi come lui, si ritrova a ripercorrere la vita dell’uomo, il suo lavoro, le sue abitudini. Finché un giorno incontra una ragazza identica ad Ayse. I’m Not Him diventa così un gioco di pura teoria sul tema del doppio, sui giochi tra le identità innestate sull’ennesima struttura costruita come un nastro di Moebius.
La cosa che lascia perplessi, e che allo stesso tempo può affascinare, è che un simile apparato teorico è spesso utilizzato al cinema per esaltare la potenza delle illusioni e del falso, della libertà del narrare oltrepassando le strutture vincolanti. Gli esempi sono infiniti (da Vertigo di Hitchcock alle sue riletture operate da Brian De Palma, da David Lynch a Holy Motors), tutti legati dal mettere al centro del loro discorso la macchina-cinema. E la gabbia dei ruoli, le sbarre, il brivido del voler essere altro da sé, era quella che, nel finale di Professione: Reporter, si apriva per fare passare l’impossibile macchina da presa di Luciano Tovoli e sbrigliare le magnifiche visioni di Michelangelo Antonioni. In I’m Not Him tutto questo non c’è, la gabbia non si apre, non c’è mai la libertà dell’illusione e il film termina in carcere, con un’inquadratura fissa e insostenibilmente geometrica su una cella. E’ curioso che assieme a I’m Not Him è arrivato al Festival del Cinema di Roma lo straordinario Bong Joon-Ho di Snowpiercer che ci ricorda, tra le tante cose, quanto sia bella la consapevolezza di agire in una struttura chiusa, quanto possa essere potente uno sguardo capace di stare, nello stesso tempo, dentro e fuori le regole (e la sfida di Bong è enorme dato che lanciata direttamente alla Hollywood dei blockbuster). I’m Not Him è l’esatto opposto, un film tutto dentro le regole, chiuso in cella come i personaggi all’interno delle sue inquadrature.
Il discorso di Pirselimoglu è sicuramente condotto con grande coerenza, dove lo stile statico e controllatissimo è il perfetto corollario di un cinema di esclusiva fascinazione teorica, che si diverte, spesso con umorismo beffardo, a giocare con i doppi, con i rimandi, con le circolarità. Dispiace però perché una sorta di Vertigo riletto da un regista turco, e sfruttando la maschera attoriale del bravissimo Ercan Kesal, poteva essere un’idea interessante, come a voler ripercorrere con sguardo e sensibilità sicuramente personali alcuni nodi cardine della storia del cinema occidentale. Dispiace che il buon lavoro di messa in scena, l’insistenza ossessiva sulla figura dello schermo cinematografico (finestre, porte, quadri, televisori inquadrati di sbieco), approdi a una meditazione piuttosto cupa sull’impossibilità di evasione, di superare gli ostacoli, di sognare mondi altri: in sintesi la negazione di qualunque tipo d’immaginario. Più che altro ci sembra che I’m Not Him risulti in netto contrasto con alcune delle grandi tendenze del cinema contemporaneo, che è sempre più frammentato, caotico, meticcio, dislocato sui supporti più disparati. La centralità dello sguardo di Pirselimoglu, la sua ricerca della geometria, poste al servizio di un discorso così chiuso e votato esclusivamente al gioco teorico ci fanno sembrare il suo un film fuori fuoco rispetto al suo tempo.