Nelle prime inquadrature di A Master Builder, ispirato dal dramma di Ibsen Il costruttore Solness, adattato dal commediografo e attore Wallace Shawn, troviamo un intreccio di linee verticali (le case) e orizzontali (il tracciato seguito dalla camera car) che traduce la tensione che attraversa l’opera, divisa tra la definizione razionale della struttura architettonica e la perdita di sé come assenza di coordinate – l’erranza lungo una strada che, hellmanianamente, non porta da nessuna parte. La visione ricorrente di case o torri proviene dalla mente dell’architetto Solness, il più importante costruttore della città, che non sopporta l’idea di dover perdere un giorno tutto quello che si è conquistato negli anni. Allucinazione terrorizzante che si ripete sempre uguale e che indica una fuga destinata a restare soltanto immaginata. Tutte le linee convergono sempre verso la casa dove l’uomo vive e lavora, recluso come in un bunker.
I lenti zoom in avvicinamento circondano il set, assediandolo. Un set infestato dai fantasmi del passato – la morte dei figli, l’incendio che distrusse la casa della moglie e diede avvio alla carriera dell’uomo – e attraversato da corpi spaventati da un futuro che, inevitabilmente, prevede il decadimento fisico e professionale. Il titolo designa, al contempo, questo sentimento di angoscia per l’avvenire e il turbamento che si origina dalla verticalità delle costruzioni. In qualche modo Solness è condannato a non avere mai il controllo dello spazio che abita o inventa. Anzi, al contrario, è proprio quello spazio a generare il terrore della caduta, come conseguenza inevitabile della gravità, destino di ogni corpo che sogna la verticalità, l’altezza, il cielo.
L’unica via di fuga è il cinema, inteso come potere immaginifico, fantasia o sogno, rappresentato dalla giovane Hilde, ragazza conosciuta dieci anni prima e presto dimenticata, che sconvolge la vita dell’uomo riaccendendo in lui sentimenti sopiti. Un’apparizione in grado di spingerlo verso la salvezza della propria anima attraverso un percorso che segue le vie tortuose del desiderio e della memoria e che ha origine nel magnifico volto di un’infermiera. Nel momento in cui la ragazza entra in scena cambia anche il formato: un cinema scope che riduce il rapporto tra altezza e diametro dell’immagine. Così alla verticalità della casa viene contrapposta l’orizzontalità del cinema, capace di condurre Solness lungo i sentieri del passato fino al cuore del trauma e poi al ricordo della giovinezza che lo spingerà al sacrificio di sé. È questo punto di vista onirico a consentirgli alla fine di poter conquistare il cielo senza tuttavia vivere l’angoscia della vertigine. Il prezzo per la salvezza della propria anima è la morte, poiché non esiste luogo in grado di accogliere Solness se non la fine come dissolvimento di qualsiasi struttura o involucro, persino quello corporeo che, proprio come le case costruite dall’uomo, non è altro che una forma geometrica vuota, un contenitore privo di contenuto. L’unica redenzione risiede allora nell’evanescenza, nel dissolvimento della materia fino alla trasparenza, al cuore dell’immagine, alla bellezza di una visione finalmente liberata dalla prospettiva geometrica, e rivolta non più dall’alto ma verso l’alto. Questo percorso di espiazione sembra in qualche modo iscritto già nel nome del personaggio che foneticamente evoca le parole soulless e soulness, letteralmente dall’assenza di anima fino alla sua piena consapevolezza, attraverso una tensione costante dello sguardo che abbandona ogni sovrastruttura fino a disperdersi nell’aria, tornando ad essere puro movimento soggettivato, sguardo incorporeo, come i camera car iniziali, e per questo liberato dai vincoli della materia.
Il cinema di Jonathan Demme, sempre più inclassificabile e anarchico, riparte da un dramma teatrale ottocentesco e arriva fino al cuore delle cose. Recupera la leggerezza infinita di Rachel sta per sposarsi, con il quale condivide l’utilizzo di una piccola telecamera digitale e il nucleo traumatico della storia, superandolo infine nello stupore che segue la (ri)scoperta del cinema come unica salvezza possibile dell’uomo.