The Predator
Il nuovo episodio della saga Predator è un campo di battaglia tra autore e produzione, un film schizofrenico in cui Shane Black non riesce a tenere unite personalità e necessità di franchise.
In un momento storico come questo, con tutti gli studios hollywoodiani a caccia di proprietà intellettuali da serializzare, difficile che un prodotto come Predator non fosse oggetto di un rilancio. Parliamo del resto di una saga anni Ottanta che non si è mai affermata, un film capostipite dal carisma infinito a cui seguono pochi e confusi titoli che non sono riusciti a costruire una mitologia vera e propria (al contrario di quanto accaduto nel mondo del fumetto, dove si sono moltiplicate negli anni le storie dedicate all’universo di Predator). Per legittimare l’operazione il compito di restyling è stato attribuito a Shane Black, sceneggiatore di punta dell’action a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta che ha già dimostrato di saper miscelare personalità e necessità di franchise nel blockbuster Iron Man 3.
Il piano produttivo prevede l’articolarsi di tre film gestiti dal creatore di Arma letale, nel caso questo primo episodio dovesse risultare fortunato al botteghino, e la direzione immaginata da Black e produzione è chiarita dal finale, che apre il film ad un futuro vicino al cinecomic. C’è da sperare però che una volta imboccata questa strada, regia e produzione trovino migliori punti d’incontro perché questo Predator si è rivelato un film schizofrenico e confuso, che cerca di recuperare la caratterizzazione sopra le righe e la violenza grafica dell’originale comprimendo però ogni slancio all’interno di rigidi confini di convenzionalità.
Scimmiottando Schrödinger, Predator è e non è un film di Shane Black allo stesso tempo. È un action con una buona dose di violenza (di cui molta digitale) e alto livello di ironia, ambientato durante una festa nazionale (non più Natale ma Halloween) con un bambino tra i protagonisti e una coppia di personaggi virili amici/nemici. Ma soprattutto è una storia di cacciatori e prede in mezzo alla quale piove a metà film un gruppo di veterani afflitti da Disturbo da stress post-traumatico, una sporca dozzina di soldati scartati e accantonati che ricorda i personaggi istrionici delle storie di guerra sceneggiate da Garth Ennis. Ognuno di loro porta con sé un disturbo diverso che lo rende un pezzo difettoso del sistema, una scheggia impazzita pronta a imprecare, insultare, ferire ma fare comunque la cosa giusta. Tratteggiati in poche battute con un talento che li rende subito materia rara per lo spettatore, questi personaggi (ben più dell’inconsistente protagonista e sua assistente scientifica) sono la vera firma di Black sul progetto Predator, ma anche cartina tornasole di quanto il film sia stato sede di conflitto tra una produzione che tende al conformismo e uno sguardo autoriale che di convenzionale può avere davvero ben poco. Seguendo Predator sembra di vedere Black che viene costantemente tirato per la manica da una forza normalizzante, interessata soltanto ad un film di servizio che rilanci nel modo più indolore possibile un brand da trasformare a breve termine nell’ennesima materia supereroistica. Questa schizofrenia di fondo si fa ancora più evidente se consideriamo poi il fatto che attorno ad essa il film inanella una serie di soluzioni di scrittura davvero ingenue e oggi improponibili, dalla scienziata killer al protagonista che spedisce a casa armi aliene per posta.
Privo di un corpo attoriale forte e ipertrofico attorno al quale cucire un immaginario nostalgico seppur aperto al futuro, Black si incarta in uno script rimaneggiato, raffazzonato, drammaticamente privo di un protagonista forte ma con una memorabile banda di comprimari, vecchi maverick da guerra che avrebbero meritato un film tutto loro libero da logiche conformiste volte al franchise e alla serializzazione a tutti i costi.