Luca
Smarcandosi dalle ambizioni e sofisticazioni di alcuni film precedenti, l’ultima opera della Pixar diretta da Enrico Casarosa si affida a semplicità narrativa e fascino visivo.
Ne La Luna, cortometraggio animato candidato agli Oscar con cui Enrico Casarosa ha esordito alla regia nel 2011 – dopo decenni di storyboarding, prima per Blue Sky Studios (Cars Motori ruggenti, L’era glaciale, Robots) e poi per Pixar (Ratatouille, Up) –, un bambino viene portato al largo, in mare, per vivere il suo primo giorno di lavoro con papà e nonno, due figure da cui imparerà immediatamente ad affrancarsi per trovare la sua personalissima strada. Dieci anni dopo, Luca, primo lungometraggio d’animazione diretto da questo poetico storyboard artist ligure trasferitosi negli USA all’inizio degli anni Novanta e prima opera targata Pixar con ambientazione in Italia, racconta di un’altra prima volta; quella di Luca, appunto, e della sua prima esperienza fuori dalle profondità marine in cui, data la sua natura di mostro subacqueo, è nato e cresciuto.
Quella dei “pesci fuor d’acqua” (e quindi delle prime volte) è una situazione narrativa, un tropo, tanto ricorrente (soprattutto in ambito comico) da aver determinato, nel corso del tempo, la formazione di un vero e proprio sottogenere cinetelevisivo. Come molti personaggi passati su piccoli e grandi schermi, sia in carne ed ossa (nelle produzioni live action) che in mesh poligonali e skin (in quelle d’animazione), anche Luca si ritrova infatti fuori dal proprio elemento naturale, fuori posto, e pur se spaesato e inesperto è portato dalla curiosità, dal caso o dalla necessità ad adeguarsi ad un nuovo ambiente, a una nuova vita, in maniera non dissimile da quanto avviene ad esempio a Marty McFly in Ritorno al futuro o ai due musicisti interpretati da Tony Curtis e Jack Lemmon in A qualcuno piace caldo.
L’unica differenza è che qui il modo di dire è preso alla lettera e inscritto nello story concept: Luca è effettivamente un pesce fuor d’acqua, come già Ariel prima di lui o Ponyo. E come loro anche lui è una creatura a metà tra mare e terra, un po’ come in La forma dell’acqua e, quindi, in Il mostro della laguna nera (che è sicuramente uno dei tanti riferimenti, assieme ai capolavori di Miyazaki, ai classici disneyani e al cinema italiano del secondo dopoguerra, da cui si è lasciato ispirare quest’ultimo film della Pixar).
Allo stesso tempo, come molti protagonisti di film Disney (e non), dalla sirenetta a Nemo, da Pocahontas alla Vaiana di Oceania, e come il bambino de La luna citato in apertura, Luca sfida l’autorità parentale, per vivere l’avventura d’una vita o, magari – invertendo i termini ed estendendo il senso –, una vita d’avventure. Ad un primo, superficiale sguardo, personaggi e azioni potrebbero dunque essere visti come derivativi, poco originali, se non fosse che, a ben vedere, questo meccanismo è in realtà una pietra angolare del metodo di costruzione narrativa di Disney, dei Pixar Animation Studios e, in realtà, di moltissima produzione cinematografica, televisiva e letteraria, sin dall’alba dei tempi di ciascuna di queste forme d’espressione e con radici che affondano in ere ben più remote della storia umana (basti pensare a quanto teorizzato e dimostrato dai lavori dai linguisti e semiologi russi e poi da Campbell e Vogler).
È insomma la narrazione, il modo stesso in cui siamo abituati a favoleggiare e tessere trame, a lavorare da sempre su pochi, condivisi blocchi archetipici, che vengono poi di volta in volta modificati e aggiornati in base alle coordinate spazio-temporali del contesto di creazione e fruizione del racconto, delle culture produttrici e consumatrici. E questa naturalissima operazione, se ben congegnata, non comporta ovviamente alcun tipo di scadimento del prodotto, ma anzi lo rende idealmente più godibile su scala globale e, soprattutto, idoneo a tutto un universo di aspettative e interpretazioni che finiscono per renderlo più ricco e complesso di quanto realmente, costitutivamente, sia.
Eppure questo modo di utilizzare i tropi che potremmo definire semplice o semplificato, privo di significative trasformazioni, è uno dei motivi per cui Luca è considerato da una parte del pubblico e della critica come “già visto”, scontato; banale persino. Del resto il suo lavorare di archetipo in archetipo (il pesce fuor d’acqua che deve adattarsi ad un altro mondo, il diverso trattato con ostilità, l’amicizia che diventa avventura, il genitore castrante, ecc. ecc.) senza le sofisticazioni e stratificazioni ravvisabili in altre produzioni Pixar – soprattutto quelle basate su soggetti e sceneggiature di Pete Docter (Toy Story, Up, Inside Out, Soul) – e il suo essere rivolto ad un pubblico forse meno adulto rispetto a quello chiamato in causa dal film che lo precede nella lista delle produzioni Pixar (Soul), lo mette certamente a rischio di essere percepito come un’opera meno ambiziosa sul piano artistico-intellettuale, meno originale, complessa, articolata o innovativa.
Eppure è proprio questa sua presunta semplicità – che rimane comunque soggettiva e tutta da verificare – a risultare affascinante ed efficace, stabilendo un legame tra Luca e altre produzioni pixariane-disneyane caratterizzata da una certa irresistibile immediatezza. Semplicità che è più che altro una scelta di non cavillare, di non eccedere nel processo di sviluppo, elaborazione e costruzione del racconto, e che nulla toglie alla sua capacità di prestarsi a diversi livelli di lettura, alcuni dei quali fecondamente incastonati nel dibattito contemporaneo (su tutti, la dialettica inclusione/esclusione) e alla forza della riflessione che il film è in grado di innescare su temi fondamentali come la libertà, il coraggio, il valore dell’amicizia o la difficile ricerca della propria identità.
Per non dire di quanto questa elementarità sia chiaramente del tutto esclusa dall’impianto tecnico-visivo (anche se si può notare una certa volontà di stilizzazione), sempre al massimo della forma (come del resto è consuetudine quando si parla di Pixar), in particolare per quanto concerne il sistema di lighting, che in Luca diviene un vero e proprio strumento di meraviglia, in grado di sbalordire lo sguardo per resa cromatica, gamma dinamica e realismo. Il modo in cui la luce, maneggiata con grande espressività sotto la direzione fotografica della veterana Kim White, si riflette sull’acqua della riviera ligure, il tramonto illumina le rocce o fa risaltare i colori delle case e dei vicoli di Portorosso è già, di per sé, mezzo potente di godimento estetico e di immersività. Un motivo in più per rimpiangere il fatto di non poterlo guardare sul grande schermo.