Sicario

Tra Mann e la Bigelow Sicario è un film estremamente prezioso e potente, operazione astratta e politica sul genere che conferma lo spessore raggiunto oggi dal cinema di Denis Villeneuve.

Sicario di Denis Villeneuve è la storia di un mondo in osmosi, fotografia al calor bianco di confini che mutano e vengono mutati, di linee tracciate sulla terra che si spostano dal giorno alla notte mentre saltano limiti di morale e giurisdizione, potere e controllo. La frontiera tra Stati Uniti e Messico che diventa terra di nessuno e confronto western, cadavere in putrefazione attraversato da un’esplosione vermiforme di tunnel sotterranei. A cavallo di questi ci sono i sicari, armi perfette e inconoscibili che operano secondo schemi a noi ignoti, e “semplici” agenti federali che sono stranieri in terra straniera, ambasciatori di regole ed etica che nessuno è più interessato a seguire. Il loro sguardo è il nostro, siamo totalmente persi in una terra popolata da lupi.

Negli ultimi anni di audiovisivo americano, cinema e serie tv crime hanno dedicato un’attenzione crescente al fenomeno del Cartello, in particolare a quello messicano. Al centro di questa narrazione si è imposta una fascinazione (evocativa prima che estetica) per l’estrema violenza della sua prassi quotidiana, una brutalità gore parossistica e solo apparentemente priva di senso, che diviene invece linguaggio dall’atroce efficienza comunicativa. Da Traffic a Breaking Bad, da Le belve a The Counselor - Il Procuratore, il Cartello è diventato l’ipostatizzazione perfetta di un male oscuro e illeggibile, quasi sempre senza volto e detentore di una forza distruttrice.

Tuttavia l’interesse che il noir americano ha subito nei confronti di tale violenza supera la mera fertilità spettacolare, dipendendo piuttosto dalla possibilità di leggere la lotta contro tale potenza sanguinaria come l’incapacità occidentale a confrontarsi con la brutalità fredda e calcolatrice di un mondo esterno privo di regole. In particolare sono The Counselor e Sicario, veri film gemelli, a sfruttare l’evocazione di una violenza sovraesposta per raccontare il tentativo umano di dare ordine al caos, di comprendere la natura bestiale del mondo contemporaneo e la sua cifra incontrollabile. Nel noir di un tempo questa funzione la svolgeva la rapina a mano armata, meccanismo ad orologeria dal funzionamento tanto studiato quanto fatalmente imperfetto, oggi invece sono teste mozzate e brani di corpi appesi ai confini della città di Juárez, inferno in terra che registra mille bande armate e una media di 7 omicidi al giorno.

Come il fenomenale film di Scott/McCarthy, Sicario di Villeneuve scava nell’orrore al confine e ci porta con sé attraverso un sguardo vergine, un punto di vista incosciente dell’apocalisse già avvenuta, esterno ad ogni flusso narrativo. La conseguenza è un film decentrato e diluito, dalla narrazione esplosa in filamenti di cui non è possibile ripercorrere la storia. Emily Blunt è sempre più eroina degna del cinema di Cameron, ma il suo sguardo è inevitabilmente vergine del caos che ormai domina il confine, e come il procuratore senza nome di Michael Fassbender le sue azioni diventano vittima di paura e istinto. Sono personaggi che agiscono allo sbaraglio, in una crasi tra maelstrom e volontà di dare ordine al caos che da sempre attraversa tutto il cinema di Villeneuve, costantemente affacciato sui tentativi che l’uomo fa di direzionare e controllare la propria esistenza.

Come tutti i personaggi di questo cinema, l’agente Kate Macy vive poi la propria lotta in solitudine, la stessa che circondava il poliziotto di Jake Gyllenhaal in Prisoners, un altro protagonista in lotta contro la cieca brutalità del male. Non a caso la guerra oggi si combatte con il joystick di Good Kill e le scansioni laser di Zero Dark Thirty, viviamo una disumanizzazione dello sguardo a favore dell’occhio elettronico e termico, le stesse protesi tecnologiche che in Sicario permettono ai soldati il sicuro attraversamento dei tunnel sotterranei. Ad esse Villeneuve e un magistrale Roger Deakins riservano immagini dominanti, direttamente connesse ai costanti plongée aerei che squadrano il terreno e il confine come controllori affamati di corpi. Sicario come Zero Dark Thirty coltiva l’ossessione dello sguardo nel conflitto bellico, ma se nel film della Bigelow è ancora possibile rompere il velo di Maya e uccidere l’uomo nero (salvo poi ritrovarsi in lacrime e privi di senso in un aereo deserto), dentro Sicario il governo stesso diventa l’uomo nero, assorbe al suo interno il caos che non riesce a controllare mettendo un lupo a proteggere il gregge. Benicio Del Toro, il killer del titolo, è l’emanazione di una sconfitta, il cuore di tenebra che scambia con nonchalance abiti firmati e tute tattiche, attraversando ogni ambiente come un fantasma assassino che ognuno dà per scontato e sa che è bene ignorare. Il caos al servizio di un potere che accetta di nutrire quello che crede essere il male minore.

Assieme a Prisoners, prima collaborazione tra Villeneuve e Roger Deakins, Sicario completa un dittico di rara potenza, cinema di genere che vive la sua dimensione politica come una spinta a universalizzare gli orrori e le ossessioni di un paese in costante stato di guerra, inabile a svolgere quel ruolo di moderatore internazionale che per tanta parte del Novecento ha preteso di poter vestire. Ma di Prisoners Sicario è il gemello opposto, tanto oscuro ed esploso il primo quanto contratto e sovra-esposto il secondo.

Come nel miglior western, in Sicario la luce e il cielo diventano protagonisti attivi, tagliano le sagome dei personaggi fino quasi ad assorbirle in un lucore informe e pervasivo. Mangiati dalla luce, questi caratteri si stagliano in campi lunghi e lunghissimi, evadono dalle prigioni fisiche di Prisoners per trovarsi comunque in nuovi labirinti, anche se le pareti sono azzurre di cielo e gialle di sabbia. Il rigore registico di Villeneuve non dà respiro, si vive un continuo senso di contrazione suscitato dall’arsenale bellico esposto, dalla professionalità manniana dei protagonisti, l’azione si carica costantemente, trova vie di uscita rapide e brutali, misurate con il contagocce. Sicario veste i panni del genere, li rispetta ed esalta con un mestiere profondissimo, ma l’obiettivo ultimo è l’astrazione, il dissolvimento di codici e barriere e confini. Blackhat è quasi dietro l’angolo.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 25/09/2015

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