BLACKkKLANSMAN
Dopo "Chi-Raq", Lee non sembra essersi allontanato dalla commedia sofisticata della classicità, da quel meccanismo di maschere e inganni nella cui ostentata finzione emerge, lampante, l’urgenza del reale.
Da «Dis joint is based on some fo' real, fo' real sh*t» a «Rest in Power». Così Spike Lee apre e chiude il suo BlacKkKlansman, con la grammatica alterata e i motti storici di una lingua comunitaria, rilanciata costantemente dall’emblematico «all da power to all da people». Queste espressioni sono tra le tracce più potenti di un passato fatto di contestazioni e lotte identitarie, e del resto Lee lo sa bene, l’ha sempre saputo e raccontato, che l’azione politica è anzitutto azione di linguaggio. Che il cinema politico è anzitutto una forma di contro-narrazione che conserva precisi scopi e nemici. Che l’identità politica passa anzitutto per gli strumenti culturali attraverso i quali interagiamo con il mondo. Questo perché linguaggio, immagine, racconto sono gli elementi con i quali costruire un proprio immaginario di riferimento, tasselli di uno stesso percorso identitario, specie in un paese iconografico e massmediale come gli Stati Uniti dove il fronte culturale della lotta politica è incentrato sul confronto tra racconti e punti di vista, spazi di narrazione e affermazione di corpi, volti, sguardi. Come quelli, splendidi, che intessono una delle scene più potenti di BlacKkKlansman, quando i partecipanti della riunione al Sindacato Studenti vengono disposti come apparizioni su uno sfondo nero, un mosaico di primi piani in cui galleggiano gli sguardi ipnotizzati dei ragazzi che seguono il comizio di Kwame Ture, le cui parole sono proprio volte ad una riappropriazione del proprio orizzonte culturale.
Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes, BlacKkKlansman quindi non può che essere un film di immaginari a confronto, e in questo senso si colloca a perfezione tanto nella poetica generale di Spike Lee quanto nel percorso intrapreso da lui in tempi recenti, un impegno costante a ragionare e ripensare le forme del racconto identitario attraverso il cinema. C’è stato il ritorno al cult culturale (Il sangue di Gesù), le possibilità della narrazione seriale (She’s Gotta Have It), la reinvenzione della classicità applicata alla violenza del reale (Chi-Raq). E adesso BlacKkKlansman, che appare come la summa di questo percorso per come riesce a trasportare le varie istanze coinvolte in un film feroce ma assieme leggiadro, apparentemente satirico ma di fatto estremamente doloroso e arrabbiato, talmente vicino al contemporaneo da assorbire, nel finale, le immagini documentaristiche della tragedia di Charlottesville, dove la violenza e l’odio tornano a mostrarsi in tutta la loro pervicacia e infiltrazione politica.
Con una potenza retorica cristallina, degna di quel grande cinema popolare dagli intenti palesi e dichiarati, Lee non si limita a chiudere con l’immagine di un paese in lutto, con la bandiera ribaltata e virata in bianco e nero, ma accosta lungo tutto il film racconti e miti delle forze politiche in gioco, opponendo ad esempio il ricordo black del linciaggio di Jesse Washington del 1916 alla visione rituale di Nascita di una nazione celebrata dagli uomini del Klan. BlacKkKlansman del resto è tutto un film duale, che non si accontenta di accostare i punti di vista coinvolti ma arriva a sdoppiare il suo protagonista in due entità, la voce nera di Ron Stallworth (John David Washington) e il corpo bianco di Flip Zimmerman (Adam Driver), doppelgänger del primo poliziotto nero di Colorado Springs, controfigura il cui compito sarà infiltrarsi fisicamente nel Klan dove il suo collega Ron non può, evidentemente, arrivare.
Queste due entità, simboli di una diversità scomoda, negata, creano un cortocircuito che oggi ci appare preziosissimo, un gioco di maschere e riconoscimenti tra l’identità afroamericana di Ron, mutuata dall'immaginario della blaxploitation anni Settanta ma costantemente negata e ricondizionata dal contesto, e le origini ebraiche di Flip, pressoché ignorate dall’uomo fino a che questi non si troverà a contatto con l’ignoranza negazionista e violenta del Klan. Grazie a quest’accostamento, attraverso le corde istrioniche della commedia, BlacKkKlansman chiama in campo concetti complessi relazionandosi direttamente con la sua contemporaneità, di cui denuncia certe aberrazioni senza però rinunciare a restituire il ritratto di una scena, di una lotta, di una comunità. Per questo Lee dedica tanto spazio al rapporto irrisolto tra il bisogno di accettazione e la necessità di conservare una propria identità, tra memoria, rito e individualità, nei cui punti di equilibrio prende posto un orizzonte di lotta che non rinuncia mai alla propria umanità.