The Stag - Se sopravvivo mi sposo
Sulla scia de "Una notte da leoni", una gradevole ma modesta commedia irlandese su un altro addio al celibato
Campione d’incassi in Irlanda nella passata stagione, The Stag - Se sopravvivo mi sposo si concentra su un addio al celibato, occasione che permette al regista John Butler di congegnare una piccola commedia dai toni lievi ma che non disdegna risvolti intimisti. Al contrario della fortunata trilogia di Todd Phillips, Una notte da leoni, l’evento qui non ha niente di eccessivo o liberatorio: il viaggio compiuto dal variegato gruppo assume piuttosto le forme di un ritiro spirituale sui generis dove ciascun componente approfitta della temporanea fuga dal caos della città per imparare qualcosa in più di sé e degli altri.
Il set principale nel quale si sviluppa il film è la campagna irlandese. E’ qui che Fionnan, insieme con i suoi amici più stretti, sceglie di passare le ultime ore che lo separano dal matrimonio. Ovviamente un evento imprevisto, l’arrivo del bizzarro fratello della sposa, detto “The machine”, cambierà i piani stravolgendo il programma iniziale, che prevedeva soltanto relax e lunghe passeggiate. Come da manuale il regista affida proprio a lui, corpo estraneo al contesto, tutte le situazioni comiche, calate nella dialettica tra uomo e natura e che si innescano quasi sempre a partire da suoi gesti imprevedibili o scatti d’ira. A dispetto del soprannome, “The Machine” ha una forza quasi bestiale che trascina via con sé tutto ciò che gli capita a tiro, cose o persone poco importa. In lui c’è costantemente una tensione verso la distruzione di qualsivoglia prassi sociale. Non risparmia critiche a nessuno, ricerca costantemente lo scontro dialettico e fisico, ama mettere e mettersi alla prova. Sarà proprio lui a far emergere contraddizioni e debolezze degli altri spingendoli ad una serie di confronti aspri e dolorosi. Naturalmente, come in ogni commedia commerciale che si rispetti, ogni cosa tornerà al suo posto, e i protagonisti, finalmente cresciuti e liberati dalle catene del passato, potranno intonare liberamente il loro “canto d’amore” (One Love degli U2..).
Per comprendere tutti i limiti di questa operazione basterebbe focalizzarsi proprio sul suo personaggio più carismatico, “The Machine”, sorta di deus ex machina che non ha niente della carica eversiva di tanti grandi corpi comici del passato. Le sue azioni sono piuttosto figlie di un determinismo narrativo ingenuo e naif che prevede una schematica spiegazione dietro ogni comportamento e una morale alla fine della storia. Non c’è niente di vivo, pulsante, autentico o paradossalmente automatico nell’uomo. Fin dalla sua prima apparizione comprendiamo la sua funzione narrativa e poi il disagio umano e privato che denunciano le sue azioni. Non distrugge per il puro piacere di farlo né come riflesso involontario, ma più semplicemente perché è in crisi con la moglie. Il medesimo schema lo si può applicare anche agli altri personaggi, ciascuno con il suo riconoscibile registro recitativo e il suo problema da risolvere. E alla fine, complici questi plateali limiti di scrittura, a prevalere più che il divertimento è un senso di garbata indifferenza.