CINEMA E TEMPO - L'esercito delle 12 scimmie
Rivisto in questi giorni, in piena pandemia e sull'orlo di un secondo lockdown, il gioiello sci-fi di Terry Gilliam sembra rivolgersi a una società, la nostra, chiusa in una temporalità immobile, in un falso movimento destinato a ripiegare l’orizzonte degli eventi su se stesso.
[Questo articolo fa parte di uno speciale dedicato al rapporto tra cinema e tempo, un approfondimento nato sulla coda lunga di Tenet, il film di Christopher Nolan che in questo difficile 2020 aveva riaperto una stagione cinematografica e riportato il grande pubblico in sala, seppur tra le tante difficoltà. Oggi, al momento in cui si scrive, quel tentativo è di nuovo interrotto, ma la suggestione del viaggio nel tempo rimane, la conserviamo come uno dei tanti, sottili fili che ci legano e riportano alle immagini. Perché il cinema, che fosse attraverso le griglie rodate del genere o l’interpretazione personale dello sguardo autoriale, si è sempre interrogato sulla quarta dimensione, ne è emanazione e macchina del tempo esso stesso, per come ci permette di viaggiare per ere prossime o lontane].
Così conosco una musica dolce nel mio ricordo senza ricordamene neppure una nota:
so che si chiama la partenza o il ritorno
Dino Campana, La Verna
Yesterday was a million years ago
In all my past lives I played an asshole
Marilyn Manson, The Last Day on Earth
Rivisto in questi giorni, con il serrarsi delle misure emergenziali anti-Covid e il timore per un secondo Lockdown, L’esercito delle 12 scimmie non può che ricondurci alla nostra attualità. Non tanto, come si potrebbe banalmente pensare, perché nel film si parla di un virus che ha falcidiato il 99% dell’umanità (del resto di opere su contagi e apocalissi batteriologiche ne abbiamo sentite menzionare a profusione nei mesi scorsi), quanto per il fatto che l’opera di Terry Gilliam gioca la carta del più classico dei paradossi dei viaggi nel tempo per imperniarsi sul concetto di una temporalità immobile, un falso movimento destinato a ripiegare l’orizzonte degli eventi su se stesso. L’immagine di un futuro distopico che torna ricorsivamente e senza successo, nella persona di James Cole (Bruce Willis), ad ammonire il passato sull’imminenza di una catastrofe rivissuta in un loop da incubo, eppure inevitabile, finisce con il riflettere il fallimento di fronte al quale ci hanno posto la recente crisi e soprattutto i suoi ultimi sviluppi. Nell’evidente mancanza di misure preventive e di una progettualità a lungo termine, nonostante ormai i mesi di forzata convivenza con il virus, la quotidianità di questa crisi sembra delineare il quadro di una società che, come il protagonista del film di Gilliam e quello de La jetée di Chris Marker, non può fare altro che assistere alla propria morte non solo senza poter intervenire ma senza nemmeno comprendere il significato di quella scena madre che costantemente ritorna e di cui è protagonista. È questa situazione di stallo paradossale, di beffardo cul-de-sac, a parlare con più evidente efficacia a un presente che sembra condannarsi a una cristallizzazione promossa dalla coazione a ripetere.
«Cos’è un virus che diventa pandemia, se non un ribaltamento del tempo lineare, dove tempo va inteso anche come epoca e presente?» si chiede Emanuele Di Nicola sulle nostre pagine, in un'originale riflessione su Tenet. Film in cui, nota Di Nicola, il villain Sator si interroga non a caso sui motivi per cui il futuro muove guerra al passato, additando come causa la scarsa cura dell’uomo per il proprio ambiente. Il che ovviamente si adatta benissimo alla presente emergenza. Ecco però che se in Tenet la logica da blockbuster impone il lieto fine, ergo l’intervento correttivo del futuro sul passato, ne L’esercito delle 12 scimmie non si può dire lo stesso. La visione di Gilliam si colloca anzi agli antipodi rispetto alle dinamiche nolaniane. Mentre Tenet è un film di pura azione, dove il concetto di viaggio temporale va inteso nel senso più letterale del termine, la distopia sci-fi di Gilliam ci costringe alla claustrofobia di un moto solo apparente. Non c’è scampo, nessuna via di fuga per James Cole, le cui peregrinazioni spaziotemporali in realtà lo conducono per i primi minuti di film da un luogo concentrazionario all’altro (la prigione sotterranea del 2035 prima, il manicomio in cui conosce Goines poi), mesta anticipazione della gabbia temporale a cui sarà (è) condannato il protagonista. Non lo vediamo nemmeno spostarsi da un luogo all’altro – se non in un'unica scena in cui Cole si ritrova per errore nel bel mezzo della Prima Guerra Mondiale – né assistiamo alla sua smaterializzazione, tenuta fuori campo per accrescere il clima di paranoia e instabilità del film. Del resto, l’inquietante interrogativo sulla salute mentale del personaggio ci suggerisce che l’unico viaggio intrapreso potrebbe stare tutto nella testa di Cole. Una prospettiva che si fa letterale ne La jetée, dove appunto è la fissazione intorno a un preciso ricordo, prima ancora che lo sviluppo tecnologico, a permettere il viaggio nel tempo dipanato attraverso i fotogrammi di un «photo-roman», in un’opera che, prima di qualsiasi altro paradosso temporale, illumina lo stesso paradosso alla base del cinema in quanto movimento illusorio, dispositivo capace meglio di tutti tanto di catturare il tempo (il riferimento deleuziano ante-litteram a Vertigo viene ripreso e sviluppato dallo stesso Gilliam) quanto evidentemente a scardinarlo secondo traiettorie molteplici.
Nell’ossessione per un’immagine, l'unica possibile per un futuro da ricostruire e al tempo stesso frammento rivelatore di un destino già segnato, e nella difficoltà di ricollocarla, il film di Gilliam riprende così il modello di riferimento per restituire una riflessione se possibile ancora più disperata, a suo modo struggente, che oggi sembra parlare alla cecità dei tempi in cui viviamo, mentre le nostre vite paventano il ritorno al loop di un eterno presente che rischia di erodere il futuro collettivo. Con puntuale ironia, L’esercito delle 12 scimmie è costellato di riferimenti a profezie e premonizioni. Ma gli stessi avvertimenti di James Cole sull’imminente contagio sono tali solo agli occhi degli uomini del 1996, mentre dal punto di vista del protagonista non corrispondono che all’ovvietà di un dato storico. È in questa incapacità ad agire per modificare quanto già previsto, in questo perenne ritorno ad un tempo fuor di sesto che l’opera di Gilliam affonda inconsapevolmente la lama e riesce a parlare al nostro presente.