Cattive acque
Todd Haynes al servizio di Mark Ruffalo e del cinema di denuncia: la vera storia dell'avvocato Robert Bilott, e la sua infinita indagine sugli orrori sepolti nel suolo avvelenato dell'America industriale.
L'uscita timida, a testa china di Cattive acque (Dark Waters) di Todd Haynes è l'ultima riprova di come il dramma di denuncia civile, per decenni pane quotidiano della stagione dei premi, miniera di riconoscimenti per attori e sceneggiatori, non trovi più posto all'interno dell'auto-narrazione del cinema americano. Sembra passata una vita da quando Spotlight vinse il Best Picture agli Oscar 2016; solamente quest'anno, prima White Boy Rick, poi Richard Jewell (entrambi più belli), ora la storia di Robert Bilott e della sua battaglia decennale contro la multinazionale dei prodotti chimici DuPont Inc., hanno dovuto mettere da parte le proprie non nascoste aspirazioni. Tre prodotti che una volta sarebbero stati portati in trionfo come specchio della Hollywood impegnata e idealista, in polemica contrapposizione con le manovre oscure del governo federale, ora raccolgono distribuzioni limitate e recensioni fredde. Sic transit gloria: le battaglie oggi sono altre, e altre sono le maniere con cui il mainstream vi si approccia.
Il film di Todd Haynes è un bel, robusto e imperioso film su commissione, come da diversi anni è ormai prassi per il regista. Il più melodrammatico e commerciabile degli ex-ragazzi del New Queer Cinema ha messo da parte l'autorialità ai tempi di Carol, e dopo La Stanza delle Meraviglie ha definitivamente imparato l'arte del compromesso. Come e più di Gus Van Sant, Haynes è ora capace di scomparire dietro gli script delle major, e adeguarsi camaleontico al genere di riferimento tenendo a freno le idiosincrasie più ingovernabili che ci si aspetterebbe dall'autore di Safe e Velvet Goldmine. Un film per sé, due per gli studios: non tutti devono essere Bruce LaBruce, e gli ex enfant prodige di quella fondamentale corrente artistica statunitense sono oggi per lo più professionisti inquadrati. In Dark Waters la poetica del regista subentra tra le righe, nelle ricorrenti immagini di benessere casalingo sixties, e nel veleno sommerso delle sue posticce icone (echi di Lontano dal paradiso); poco più che autocitazioni, ma coerenti, e soprattutto funzionali.
La storia di Cattive acque racconta le vere vicende dell'avvocato Robert Bilott (Mark Ruffalo), placido e ossequioso impiegato presso uno studio legale di Cincinnati. Dalla cittadina di famiglia arriverà l'inaspettato invito alla presa di posizione; lui, che viene da Parkersburg, West Virginia, e se ne vergogna pure, nel 1996 viene richiamato a casa dal fattore Wilbur Tennant (Bill Camp). L'uomo è convinto che il terreno e i corsi d'acqua delle campagne siano stati avvelenati dai rifiuti della centrale DuPont locale. Secondo i dettami del dramma di denuncia hollywoodiano, l'ingiustizia del forte sul popolo impotente saprà risvegliare la coscienza individuale del protagonista; avviando l'indagine quasi per pietà, Billott vedrà i suoi dati sprofondare in un abisso infernale di cinismo e segreti, arrivando nel corso di quasi vent'anni di battaglie a rivelare le responsabilità della corporation in un avvelenamento totale, assoluto, del suolo come di tutta la popolazione USA.
Coincidenze, contingenze: torna in sala Memories of murder di Boong Joon-Ho, madre di tutte le moderne indagini giuridico-poliziesche di respiro storico; parallelamente, due decenni dopo, Cattive acque è qui, a mostrare ancora tutto il (forse inconsapevole) debito del cinema contemporaneo con quel classico. La grande indagine decennale, sfida individuale intrecciata a traumi collettivi, solitamente retaggio del noir, trova qui una coniugazione nuova con il cinema civile: l'ottimo script di Mario Correa e Matthew Carnahan, tratto da un'inchiesta del Times, non si orienta tanto sul legal thriller, e non tende a una risoluzione (che non c'è); racconta invece il trascorrere degli anni, la frustrazione e i dubbi esistenziali nell'inseguire una chimera di giustizia via via più evanescente. Più che documentare le conclamate malefatte del potere (che in un film è sempre fine a se stesso: le conclusioni sono note, i colpevoli hanno nomi e volti), è un cinema che vede al suo centro i personaggi, e gli effetti a lungo termine che la loro guerra contro i mulini a vento ha nel condizionarne le vite.
Si fa un torto a liquidare Cattive acque come “divulgativo”, come si trattasse una docufction di Real Time. Non è scoprire qualcosa che importa ad Haynes, ma l'imparare a relazionarsi con questo senso del dovere. Come nel The Post di Spielberg, scegliere cosa fare, e se fare, e perché. Ne varrà la pena? Se lo chiede spesso Bilott, un Ruffalo mostruoso, in sottrazione, capelli col riporto e vocetta tremante, imbarcatosi in una battaglia legale che lo porterà sull'orlo del fallimento professionale e privato; nel mentre, attorno a lui, i peccati originali della società dei consumi sfigurano facce, denti e corpi di un Midwest ridotto a scenario da Resident Evil. Il film è un veicolo per lui, e i grandi volti di contorno fanno da spalla (ci sono Tim Robbins, Bill Pullman e Bill Camp con accenti hillbilly, una Anne Hathaway castigata nel ruolo ingrato di moglie-supporto). Lo script li riunisce attorno alla crociata del protagonista, e va come un treno verso il non-climax finale, tra vita vissuta e sana indignazione. Come un piccolo Chernobyl ad ampio raggio (moltissimo in comune), ancora un americanissimo racconto sulle resistenze morali e personali contro un sistema negazionista; stavolta senza premi, ma sempre formalmente ineccepibile.