Have you ideas on how this life ends?
Checked your hands and studied the lines.
Have you the belief that the road
ahead ascends off into the light?
[…]
You can spend your time alone redigesting past regrets, ohh,
or you can come to terms and realize
you’re the only one who cannot forgive yourself. Oh, ohh.
Makes more sense to live in the present tense
Pearl Jam – Present Tense
Mina non guarda le mani interrogando le linee su futuri incerti, lei lo chiede ai fondi di caffè. Non per lei, per gli altri. La protagonista di Present Tense passa il tempo così, tentando di ingannare la vita, con i suoi incessanti dazi: il lavoro, la solitudine, la noia, la delusione. Su tutto, aleggia la speranza di una fuga, ma avvizzisce dentro a tazzine sporche, dove il nero si coagula a formare prospettive troncate. La regista turca Belmin Söylemez concorre con questo lungometraggio al Festival torinese, portando sullo schermo una storia intensa che perde costantemente forza, per farsi ripetizione lenta di eventi che non portano da nessuna parte. Mina è una ventottenne senza soldi, ostinata a dare una svolta ad una vita piatta che non le offre troppe prospettive, ma sono necessarie certezze, regole e realismi per non limitarsi solo a sognarla, quell’America.
Un divorzio doloroso e uno sfratto imminente spingono la ragazza a bussare alla porta del Galaxy Bar, dove si richiede la consulenza di un’indovina per incoraggiare la clientela e donare uno spiraglio di solidarietà a chi non ha più molto da desiderare. Continuando a coltivare l’aspirazione segreta di ricalcare le orme della zia emigrata, si lascia esaminare da Fazi, una veterana nel campo della caffeomanzia. Giorno dopo giorno, la fila di donne in cerca di conforto aumenta, dando a Mina la possibilità di tirare sospiri di sollievo a quell’ansia che le alita sulla testa. I soldi si accumulano, ma mancano i documenti. E Mina rimanda la partenza. Nell’arco di tempo necessario ad accumulare tutto quello che viene richiesto dall’immancabile trafila burocratica, la regista sembra profilare una nuova frontiera agli occhi della protagonista, tracciando percorsi che restano però sconosciuti, alternative mozzate sul nascere come le aspettative disseminate nella struttura narrativa. Restano dei puntini sospesi che non si ha il coraggio di unire. Tutto questo senza prospettare una solida motivazione che ne spieghi la linea tronca e confusa.
Le direzioni lanciate da un costrutto traballante vagano senza logica fino alla deriva in immagini statiche, rallentate, al limite della paralisi del movimento ovattato di tazzine che affogano. I responsi sono elargiti con una distrazione tale da annoiare anche il pubblico, battuti su concetti tanto generali da poter essere applicabili ai più. Semmai, è il vissuto di Mina, a emergere a sprazzi tra i filtri di letture altrui. A fare da contraltare alle tante donne borghesi, insicure, insoddisfatte e maltrattate, ci sono altre due tipologie femminili: Fazi, annichilita da una realtà che ne ha modellato anche le aspirazioni e Mina, coraggiosa amazzone in corsa per sconfiggere un sistema che fatica a modernizzarsi. L’intensità alimentata dalle prime immagini, volte a scrutare i personaggi fino al midollo, si smorza lungo un’opera che lascia l’eco del disincanto. Pochi i momenti sorprendenti in cui l’azione non si arena. Molti, invece, i fallimentari tentativi di condensare epifanie negli scambi emotivi, mentre si ha la sensazione che il tessuto di un mondo femminile, incorniciato in una Turchia che vuole emanciparsi dalla tradizione, scada in una piccola delusione festivaliera.