Slovacchia-Repubblica Ceca solo andata. La giovane rom Dorota viene spedita dalla famiglia da Ash a Praga, emigrata come tante alla ricerca di un’occupazione onesta, o almeno ci prova. Coltivando in segreto il sogno di condividere un futuro con il fidanzato rimasto a casa, la ragazza trova lavoro in una fabbrica tessile, ma basta una distrazione per farla fuori. Al centro di discriminazioni vissute in privato e in pubblico, vittima di un ambiente di cui non conosce la lingua e di persone manipolatrici, rigidamente strette nella morsa della selezione naturale dove vige la legge del più forte, Dorota si abbandona agli eventi, in bilico in un presente incerto. Ancora una storia di prostituzione, quella che viene delineata da Iveta Grófová nel suo Made in Ash, in concorso al 30° Torino Film Festival.
Nessun romanticismo, nessuna redenzione. L’unica nota sacra è il significato che aleggia intorno al nome della protagonista. Il tema dell’occupazione torna a riversarsi sugli schermi, con una storia di outfits in un’odissea di devastazione e disillusioni. La precarietà dell’esistenza spinge Dorota da un marciapiede a un club a stanze logore, rimbalzando tra le braccia di un facoltoso uomo tedesco che le promette una vita da signora. Ma lei non è una signora, è una ragazza che a malapena riesce a ordinare la camera, mentre guarda la sua esistenza andare a rotoli. L’amica di stanza, sicuramente più smaliziata ma altrettanto disperata, la promette a più di un uomo, ricavando soldi dalla sua vendita, tacitamente permessa. Il grigiore della povertà si condensa negli angoli delle strade, agli incroci bui, in locali fumosi, a lasciare scivolare lentamente la giovinezza spensierata in una tetra smorfia d’angoscia. Il trucco pesante cola rigando un volto che ha ormai violato ogni innocenza, dove il sorriso lascia tracce nere. Libera da virtuosismi e grazia estetica, la macchina da presa aggancia i personaggi intercettandoli al bivio capitale dove si contratta l’anima. La discesa agli inferi è quasi immediata, giusto il tempo di un tiro di canna e un sorso d’alcol.
La regia asciutta si pone al servizio di una realtà declinata in tragedia, trattata con la naturalezza che illumina le esistenze più marginali, strappate caravaggescamente alle tenebre cui irrimediabilmente fanno ritorno. I buonismi non sbucano a salvare miracolosamente Dorota, perché non possono ingentilire un dramma già compiuto, neanche nello sprazzo di sole dell’ultima immagine, un sole comunque morente. La straziante storia di Dorota si riversa in un lungometraggio ravvivato solo visivamente da inserti di immagini dalla natura diversificata, un espediente non troppo originale che rischia di ridursi a mero esercizio stilistico, troppo meccanico per farsi cifra autoriale. Le immagini cinematografiche si mescolano alle riprese video del cellulare, mosse e imprecise, cui si sommano anche quelle sgranate e satellitari della piazza dove la ragazza si reca per parlare con il fidanzato, solo una voce fuoricampo. Nel mosaico visivo emergono anche le animazioni fumettistiche che traducono quasi istantaneamente i sogni e le aspirazioni di Dorota, un bianco e nero che raramente acquista toni colorati. Cade ogni speranza nell’inferno raccontato dalla regista, un inferno quotidiano per tante vite che passano spesso inosservate. Sta qui il merito della Grófová, che a differenza di altre pellicole, non pretende di declinare in capolavoro quello che vuole presentarsi solo nella sua essenza brutale.