Strade impolverate, gente costipata, sporcizia e traffico caotico, un accumulo di odori e rumori emergono in tutta la loro genuina indianità. Un marchio di fabbrica, si potrebbe dire, quello che Kamal K. M. vuole mettere a nudo nel suo I. D., presentato in concorso al Torino Film Festival. L’idea si lega ad un prodotto indipendente del regista Resul Pookutty, filmmaker pluripremiato in patria. Charu, una giovane donna in carriera, si ritrova a compiere un viaggio nella sua stessa terra alla ricerca dell’identità da restituire all’imbianchino che le sviene in casa e finisce per morire all’ospedale. La ragazza non può addossarsi la responsabilità di richiedere l’intervento urgente di cui necessita l’uomo. Nel portafogli non ci sono documenti, nel telefono pochissimi i numeri disponibili e, in ogni caso, il credito residuo è insufficiente.
A metà strada tra documentario e detection movie, la pellicola riassume lo stile di vita indiano, spossato, logoro, perennemente al limite della comprensione. La popolazione, basata su un sistema di rigide gerarchie, che conosce uno dei più gravi gap tra la miseria e la ricchezza, registra un insieme di caratteristiche che gli occidentali classificano con il termine di “folclorico”, “strano”, “assurdo”. Assurdo che un uomo possa morire senza sapere chi sia, assurdo che si riesca a morire senza lasciare tracce. Assurdo ancor di più se il desiderio di indagare per districare la matassa desti l’indignazione di chi invece preferirebbe l’anonimato proprio e altrui, sfuggendo a possibili controlli e fastidiosi inconvenienti. In una corsa delirante contro l’ignoto, Charu metterà alla prova se stessa affondando in quella tradizione che pensava di aver lasciato alle spalle e invece le si rivela come parte sua integrante. Il film di Kamal K. M. si addentra nei luoghi reconditi di una terra, rivelandone l’anima. Le riprese mosse restituiscono l’accelerazione frenetica che caratterizza il popolo indiano, abituato a destreggiarsi tra ingorghi e costrizioni, cresciuto nei fanghi, legato ad un senso del sacro impossibile da decifrare. Quando non sanno cosa fare, incerti su cosa dire, colti alla sprovvista o sagaci nel non rivelare troppo, gli indiani, semplicemente, dondolano la testa. E Charu si lascia coinvolgere in tutto questo marasma vitale, trascinata dalle stesse macerie su cui si ergono dimore improvvisate, a lottare con un sentimento che la spinge ad una verità che poi affonda nell’acqua, insieme a quella tecnologia che viene salvaguardata come unica fonte di informazioni. Il percorso a ritroso sulle tracce evanescenti dell’uomo x si svolge parallelo a uno scavo nella cultura indiana. Tuttavia, ogni ricerca è inutile. L’identità dell’uomo non può essergli riconsegnata, finita insieme all’Iphone di Charu nelle acque putride, comunque acque che purificano e annullano.
Nella sua imperfezione voluta, con immagini sporche e veloci, I. D. restituisce quel delirio confusionario di colori e suoni di cui l’India si caratterizza, regalando un prezioso omaggio ad una realtà distante. Piccolo complesso e apprezzabile lavoro di un regista che si fa avanti al di qua della sua linea d’orizzonte.