
In tutti i festival più importanti vi è sempre un momento in cui il concorso cala i suoi assi migliori. Solitamente questo avviene intorno al giro di boa, come a voler imprimere un’impennata al livello complessivo. In questa edizione Barbera sembra aver fatto lo stesso, con la collocazione uno vicino all’altro di Après mai (Qualcosa nell’aria) di Olivier Assayas e Pieta di Kim Ki-duk, risultati poi tra i migliori – se non i migliori tout court – della competizione internazionale. E’ evidente come scelte di questo tipo appaino molto più chiare in annate dove la qualità tende a scarseggiare: quando molti autori importanti, a cui in ogni caso non si sarebbe potuto rinunciare (Malick su tutti), non portano il film che tutti si aspettavano è normale che poi la selezione ne risenta. Con questo non vogliamo insinuare che Barbera abbia scelto seguendo più i nomi che non i suoi gusti personali, eppure è chiaro come molte decisioni prese da lui e dal suo comitato di selezione siano state palesemente sbagliate. Le ragioni possono essere tante e non ce la sentiamo di condannare il suo operato, anche perché mancano ancora diversi giorni e molti film da vedere, eppure qualcosa è andato oggettivamente storto. Come dicevamo poco sopra però bastano anche solo una manciata di bei titoli posti uno vicino all’altro per far cambiare almeno in parte il proprio giudizio, o quantomeno attenuarlo.
Ieri è successo esattamente questo: critici che si aggiravano depressi per le vie del Lido hanno ricominciato improvvisamente a sorridere, giovani cinefili e non fermavano la gente per strada per condividere con loro le emozioni provate durante le visioni, e persino la pioggia, che si è abbattuta copiosamente in Laguna, è sembrata una bella rinfrescata. Potere del cinema ci viene da pensare, o forse di alcuni grandi autori che, al contrario di molti illustri colleghi, col passare degli anni migliorano anziché peggiorare, e soprattutto diventano ancora più sinceri ed onesti rispetto al passato. Il caso di Assayas è esemplare in questo senso: il grande regista transalpino, tornato al cinema a due anni di distanza dallo straordinario Carlos, prosegue il proprio cinema personale attraverso la storia di Gilles, studente liceale che agli inizi degli anni Settanta si trova diviso tra l’impegno politico, gli amori e la grande passione per il cinema. Come suggerisce il titolo, il film prende avvio qualche anno dopo il 68’, superando qualunque riflessione sull’epoca per concentrarsi su una dimensione personale e intima del periodo storico. Assayas parte dai suoi ricordi adolescenziali e sempre a quelli rimane legato; anche quando allarga il proprio sguardo sulle contraddizioni dei vari movimenti o mette in scena cortei, sommosse o rappresaglie lo fa rimanendo saldamente ancorato alle proprie esperienze, senza condannare né giudicare nessuno. E’ proprio questa la forza del film: la sua straordinaria capacità di riuscire ad immergere lo spettatore nel periodo senza rinunciare alle emozioni. Anzi sono proprio queste ultime ad emerge in modo potente. Dopo un avvio più canonico il film prende progressivamente sempre più forza nel racconto degli amori passati e presenti di Gilles, nelle sue aspirazioni artistiche, nelle tante traiettorie che il film intreccia tra chi parte per l’Afghanistan per diventare pittore, chi va in Olanda per abortire, coloro che si perdono tra i fumi dell’alcool e le droghe, e chi cerca senza riuscirci di superare una delusione amorosa. E alla fine è come sempre il cinema ad imporsi come passione bruciante, come tensione inarrestabile, come (magnifica) ossessione che ingloba tutto. Perché Apres mai è prima di ogni altra cosa una commuovente dichiarazione d’amore nei confronti del cinema e delle sue capacità di far resuscitare un amore, o anche solo di conservare il ricordo di una persona che non c’è più, di tenere viva la fiamma della giovinezza provando a spingere un po’ più in là il momento dell’addio.
Un po’ come fa anche Kim Ki-duk che con Pieta si lascia definitivamente alle spalle i fantasmi di Arirang, imprimendo una svolta decisa nella sua carriera artistica. Siamo ancora in territori familiari al regista, con il tipico rapporto a due pieno di violenza e mistero, ma con uno sguardo diverso, più consapevole ma anche più fisico, dolente, istintivo. La macchina da presa ora è in spalla e lasciata libera di vibrare insieme con i personaggi anche attraverso l’uso ricorrente degli zoom, che rimodulano continuamente l’inquadratura stringendosi o allargandosi a seconda della situazione. Pieta è un film crudele e immediato che sovente assesta colpi al limite del lecito ma lo fa senza inganni e senza furbizie: rispetto alle ultime opere di Kim Ki-duk qui si respira un’aria diversa, finalmente spontanea ma anche dolente, come se il regista, passato attraverso un grave periodo depressivo, fosse risorto nel momento in cui è riuscito a fare i conti con le proprie emozioni senza il pesante filtro intellettuale che alle volte ha zavorrato il suo cinema. Con questa nuova fatica il regista coreano allarga sorprendentemente lo sguardo alla crisi economica contemporanea, riflettendo sul potere del denaro e sul ruolo delle macchine, sempre più dominante nel ciclo produttivo. La splendida sequenza del suicida esplicita questa lettura quando, senza apparente motivo, la macchina da presa passa dalla veduta della periferia di Seoul a brevi inquadrature dei macchinari di lavori utilizzati dalle persone in debito con il protagonista, che di lavoro fa lo strozzino. Non è che un intermezzo ovviamente: con la stessa velocità con la quale si è arrivati a questa scena si ritorna al conflitto principale, e lo si fa con esiti inaspettati. Sulle strazianti immagini finali che forniscono una visione alquanto diversa di pietà si chiude questa applauditissima opera. A nostro modesto parere merita un premio: staremo a vedere.