Arrivederci professore
Requiem per l’attore Johnny Depp, che continua a replicare se stesso in automatico, ormai una fotocopia sbiadita.
L’overacting di Johnny Depp è ormai perfino imbarazzante. L’attore del Kentucky, un tempo corpo e volto di alcuni cineasti imprescindibili (Waters, Jarmusch, Polanski...) e già protagonista di almeno un capodopera (Nemico Pubblico - Public Enemies di Michael Mann), è in scena dall’inizio alla fine in The Professor di Wayne Roberts, da noi giunto come Arrivederci professore e subito in testa al botteghino. La sua figura viene messa in quadro nella prima immagine: coincide esattamente con il film. Si chiama Richard, docente di letteratura al college, a cui viene diagnosticato un cancro ai polmoni: rifiuta le cure e accetta sei mesi di vita. All’improvviso tutto cambia: non c’è più tempo, così fa uscire dall’aula gli studenti che non sono veramente interessati alla narrativa americana («Se ne vanno le puttane delle aziende di domani», dice) e insegna solo per quelli che restano. Non limitandosi alla materia, naturalmente, ma impartendo una più alta lezione di autonomia e libero pensiero. Nel frattempo si squarcia il velo domestico: Richard rivela che sta morendo solo all’amico Peter (Danny Huston) ma in compenso riceve la confessione dalla moglie Veronica (Rosemarie DeWitt) sul suo tradimento con il rettore dell’università, e apprende l’omosessualità della figlia Claire (Zoey Deutch). È l’occasione per riscrivere la propria forma mentale, da una parte accettando con apertura l’adulterio, dall’altra sostenendo pienamente la ragazza.
Nel racconto anche sceneggiato da Roberts, subito Depp ripropone il suo personaggio crepuscolare e maledetto, seppure qui in abiti professorali: in giacca e cravatta resta dark nel senso più ampio del termine, in aperto dialogo con la morte, estremo e sboccato perché immancabilmente alla deriva. Lo attesta l’incipit, con Richard-Depp che ripete meccanicamente Fuck! alla notizia della fine imminente e già coltiva la tentazione del suicidio, finendo in uno specchio d’acqua in cui trova solo l’antitesi di un cigno bianco. Depp, da sempre cigno nero, indossa la sua eterna maschera: dopo la diagnosi si fa provocatorio e beffardo, afferma spiazzanti verità (alla moglie: «Ho ricoperto un ruolo modesto nella tragedia del nostro matrimonio»), sfoga gli istinti, diviene alcolizzato e sessuomane, senza peraltro differenze di genere perché davanti alla morte si sciolgono anche i pregiudizi. E, soprattutto, tiene il suo corso nella forma di una classe esistenziale in cui dispensa massime come: «Galleggiamo in questa strana cosa chiamata vita, ma senza viverla». La battuta è sempre retorica, la sentenza altisonante: «La vita è un canto d’uccello», «Non arrendetevi mai alla mediocrità», sono alcune pillole distribuite agli studenti.
Intanto le tappe dell’intreccio si succedono previste: dalla finzione della normalità all’arrivo dei malori, dal segreto alla scoperta collettiva della malattia, dall’ostilità alla riconciliazione con la moglie. L’obiettivo, al solito, è prepararsi alla dissolvenza: Richard ci riuscirà dopo una cena accademica in cui dice frontalmente quello che pensa e - più di tutti - dopo il confronto con la figlia, l’unica persona che non vuole lasciare. E così, gradualmente, nella seconda parte anche il ribellismo piratesco di Depp si converte in riconciliazione lacrimevole: sfocia nella scena finale (la migliore del film), con la ripresa della corsa notturna in macchina che metaforizza la morte e in cui Richard, letteralmente, si seppellisce con una risata.
C’erano tante strade percorribili nel soggetto di The Professor: a partire dal teorico suggerimento del titolo, sull’essenza del ruolo di docente, il significato di insegnare e di apprendere, l’archetipo del “maestro illuminato” nella tradizione de L’attimo fuggente. L’uscita dalle convenzioni, l’opportunità di ipotizzare una nuova istruzione che tocchi davvero chi la frequenta, lasciando simbolicamente fuori gli altri; la necessità universale di affrontare la fine quando si presenta, anche all’improvviso; la tendenza a “galleggiare nella vita” e la forza per sconfiggerla. Invece il film preferisce ripiegare totalmente sul Johnny Depp show, precipitato di un attore che non è mai diventato attore-autore. Un Depp che oggi si propone come possibile negativo di Tom Cruise. Il Cruise più riuscito, soprattutto nella serie Mission: Impossible, intavola una riflessione certamente egotica, ma anche metalinguistica e sostanziale su se stesso, sull’essere divo e sulla materia della sua icona (quindi del sogno-cinema che la genera), perfino sul tempo che passa; al contrario Depp esegue una perenne ripetizione di sé, automatica e robotica, schiavo delle sue smorfie che reitera nel copia-incolla potenzialmente infinito. Non c’è un’elaborazione, ma solo esposizione. Se il meccanismo non è ben scritto e diretto, quindi, l’unica sensazione che lascia è quella della fotocopia sbiadita.