The Wolf of Wall Street
Un feroce e pantagruelico attacco al sogno americano ma anche un’acuta riflessione sulla spettacolarizzazione dell’eccesso e sul potere seduttivo del capitale
E’ difficile non accogliere The Wolf of Wall Street con un grande sospiro di sollievo, con la distesa gioia di chi rincontra un caro amico smarrito da tempo e per la cui sorte iniziava ormai a disperare. Perché oltre ad essere il suo miglior film da Casinò – escluso lo schraderiano Al di là della vita, un ufo filmico precipitato dagli anni ‘70 in uno spaziotempo che non gli appartiene –, The Wolf of Wall Street è l’opera con cui Martin Scorsese evade finalmente da quel ruolo di padre putativo del cinema hollywoodiano in cui sembrava intrappolato da anni. Perché se sono benvenuti e necessari i restauri dei grandi classici e i documentari sui maestri di un tempo, con loro è cresciuta l’adesione e la vicinanza ad un sistema prima osteggiato e che adesso non ha tardato ad accogliere a braccia aperte il ritorno del suo figliol prodigo (il grottesco e tardivo oscar per The Departed), sempre più invischiato in un dialogo con la tradizione (le X di The Departed, la fedeltà scolastica di Shutter Island, l’omaggio di Hugo Cabret) non molto dissimile da quello intrapreso da Spielberg ma ben lontano dal suo per lucidità e compiutezza. Il cinema di Scorsese del resto non è il luogo dell’omaggio e della salvaguardia cinematografica, non è War Horse e men che meno Lincoln. Questo è un cinema che guarda al cuore nero della sua nazione e vi legge l’ascesa e la caduta di giganti abbattuti dall’ambizione e dal loro stesso talento, degenerato e ormai fuori controllo. E’ un cinema che scruta e disseziona con freddezza senza mai dimenticare la natura tragica dei suoi personaggi e la fascinazione che da essa scaturisce. Ed è per fortuna in questa tradizione che torna a collocarsi Scorsese con The Wolf of Wall Street, un film estremamente coraggioso che sotto il suo umorismo esilarante mal nasconde un senso biblico di furia e disperazione, la spettacolare e nerissima messa in scena dell’apocalisse morale di un paese che ha abbracciato la degenerazione del proprio mito fondativo – l’american way of life, la terra delle opportunità – in nome del sacro dio denaro.
Ragazzo qualunque cresciuto nel Queens, fondatore di una piccola azienda in un garage affittato, Jordan Belfort è davvero il perfetto americano, il self made man che partito dal basso ha saputo raggiungere le vette del successo conquistando uno stile di vita da rockstar a base di sesso, droga e denaro. Chi non vorrebbe essere lui, con la moglie ventiduenne modella e la Ferrari bianca come Don Johnson in Miami Vice, uno yacht da 50 metri e tante droghe e prostitute quante milioni e milioni di dollari possono comprare. Ancora non lo sapeva negli anni ’90 ma Jordan Belfort stava già vivendo un film di Scorsese, tanto si adatta al suo cinema la storia vera di questo moderno Caligola, che dal nulla ha saputo costruire un impero illegale basato sull’eccesso e la degenerazione, cavalcando nel più totale abbandono i vizi e il lusso in ogni modo possibile ed immaginabile. Jordan Belfort non è una distorsione ma solo il punto d’arrivo di un sogno americano all’ultimo stadio, vissuto nell’unico e assoluto imperativo di arricchirsi ad ogni costo. “Tutti vogliono diventare ricchi” diceva Sam Rothstein in Casinò e lo stesso ripete il Lupo, e poco conta se quella che promette è una ricchezza che vive solo sulla carta, se il suo di arricchimento non crea nulla ma sottrae e basta, non genera plus-valore e si gonfia come una bolla di sapone fatta di niente. Poco conta perché il denaro rende persone migliori e risolve problemi, e tutti possono essere ingannati. Per una commissione del 50% tutti venderanno qualunque cosa, compreso il proprio paese. Guardando alle macerie di oggi, ai danni di un’economia che reitera se stessa e i propri cicli distruttivi mentre chi la conduce al tracollo rimane spesso al suo posto, Scorsese parte da una semplice domanda – cosa è successo per farci arrivare a questo punto? – e trova la sua risposta in questa torre di Babele fatta di baccanali e riti animaleschi, tana di un branco in cui ci si accoppia in pubblico, si fa uso di ogni droga possibile e si dedicano lunghe e serie riunioni ai nani da usare come freccette di un enorme tiro al bersaglio. E al centro di tutto lui, Belfort, che incita le sue truppe alla guerra motivandole da un palco dentro l’ufficio, primo indizio di come The Wolf of Wall Street non sia solo un feroce e pantagruelico attacco al sogno americano ma anche un’acuta riflessione sulla spettacolarizzazione dell’eccesso e sul potere seduttivo del capitale.
Chiunque cerchi in The Wolf of Wall Street un pamphlet schierato che giudichi e punti il dito contro i suoi personaggi rimarrà amaramente deluso. Come già fece con i protagonisti di Quei bravi ragazzi e Casinò – con i quali il film va a completare una sorta di trilogia “gangster” dalla quale si deve ormai lasciar fuori Mean Streets, appartenente ad un altro mondo e un altro cinema –, Scorsese schiva ogni retorica o moralismo di sorta, consapevole di come limitarsi a constatare la realtà sia già un’azione morale compiuta in sé stessa. The Wolf of Wall Street infatti segue la degenerazione dei suoi personaggi e ne ricostruisce gli effetti, lasciando allo spettatore l’autonoma possibilità di prendere posizione senza che sia il film a farlo per lui. Ma soprattutto, e qui sta la vera grandezza dell’operazione, Scorsese rende il film una meta-rappresentazione del potere seduttivo del capitale, che trova il suo correlativo oggettivo nella messa in scena di sesso e droga e nella conseguente spettacolarizzazione della materia trattata. Come ci insegna la storia del cinema, nel riprendere determinati soggetti scopici (ultraviolenza, guerra, sesso) si può cadere nella trappola di glorificarne gli aspetti più spettacolari, contribuendo così ad un’apologia di quanto si voleva in prima istanza denunciare. Ben consapevole di ciò Scorsese non evita la trappola ma la cavalca, piegandola ai propri fini per rendere il film stesso oggetto di quella fascinazione esercitata dai lussi rappresentati. In questo modo lo spettatore non può esimersi dall’entrare in contatto con Belfort e il suo mondo perché ne vive e condivide la fascinazione attraverso la spettacolarizzazione dei suoi eccessi: droghe di ogni tipo e splendide donne nude, formose e depilate attraversano il film, e nessuna di esse è gratuita perché tutte contribuiscono a rendere il film oggetto per lo spettatore di quella stessa attrazione che Jordan, i suoi broker e noi stessi nutriamo per il denaro e per ciò che può comprare. In questo senso The Wolf of Wall Street è un’acuta mete-rappresentazione della seduzione, un meccanismo che non si accontenta di mostrare ma genera quanto va a denunciare, limitando la sua critica ad un puro livello di rappresentazione. Non sorprende a questo punto notare come il film sia allora meno frenetico e barocco di quanto fosse lecito aspettarsi. Rispetto ai suoi predecessori, Quei bravi ragazzi e Casinò, i tempi appaiono un poco rallentati e la regia si fa meno virtuosa (lo è comunque, ma meno per gli standard di Scorsese; mancano ad esempio dei piani sequenza e sequenze musicali veramente memorabili). Ai costanti carrelli di Casinò si sostituiscono dei dialoghi in campo/controcampo e campo medio decisamente tradizionali, mentre le soluzioni visive più sfrenate sono riservate agli effetti della droga e alla resa dell’ufficio dei broker, sede di quasi tutti i movimenti di macchina più ricercati. Tutto il caos e il barocco e l’eccesso del mondo di Belfort vivono quindi all’interno dell’inquadratura, sono per lo più concentrati dentro l’immagine e non tanto nel suo movimento, con un effetto che sfiora quasi la tridimensionalità tanto sono densi e carichi questi tableau vivant di corpi nudi e avvinghiati ed esplosi in uno spasmo morfinomane. A ben guardare quindi Scorsese non rispecchia il barocco col barocco ma lo inquadra con gran classe, lo mette in scena, rivelando quell’enorme consapevolezza del mezzo e dell’immagine che gli è propria. E se dopo tutto questo volete comunque la stilettata morale, che basti l’ultima grandiosa inquadratura del film, le facce sognanti e adoranti dei credenti raccolti alla chiesa di Belfort.