Ashes of Time - Redux
Nell'opera terza di Wong Kar-wai, il tempo interiore del melodramma incontra il tempo del mito e del cinema di cappa e spada.
Sono tante le possibili traiettorie per avvicinarsi al cinema di Wong Kar-wai, ma nessuna di queste punta al cuore della sua visione quanto quella che passa per Ashes of Time. Siamo all’opera terza: il momento della presa di coscienza e dell’acquisita padronanza delle intenzioni e delle estetiche. Per affinare i modi e gli sguardi del proprio cinema, Wong si allontana dal porto profumato così amato e terribile, e dalle verticalità spigolose di Hong Kong si dirige verso le curve sinuose di un deserto allegorico. In questo luogo di silenzio e meditazione appare chiaro che l’intero cinema di Wong è, dopo tutto, una forma di meditazione: una fulminea incursione nel jianghu della mente e degli affetti, dove la cappa e la spada sublimano nei drappi e nei baci mancati del melodramma.
Opera dalle geometrie quanto mai rigorose, Ashes of Time pone al centro la figura di Ouyang Feng, un intermediario tra assassini e possibili clienti. Uomo disilluso ma legato, a suo modo, a un codice di condotta da legale neutrale, Ouyang Feng rivive le memorie di cinque stagioni e altrettante storie, tutte legate tra loro e segnate dal peso insostenibile della memoria e del dolore. L’oblio è impossibile, e ciascuno dei personaggi sopravvive come può: desiderando la morte del proprio doppio o vendendo la propria pelle per un cesto d’uova.
Opera sfuggente e senza compromessi, lontano dalle rassicuranti convenzioni di genere, Ashes of Time è stato poco apprezzato all’uscita in sala e percepito da Wong tesso come un film incompiuto. Quattordici anni dopo l’uscita, dopo avere rimaneggiato la colonna sonora e la fotografia e avere tagliato alcune sequenze, Wong ripropone a Cannes la versione riveduta e corretta di un film che i suoi stessi fan avevano, in buona sostanza, dimenticato o accolto con relativa freddezza. Perché tanta fatica? Oggi, la risposta appare più chiara. Ashes of Time – Redux è l’opera in cui Wong mostra la propria poetica con maggiore trasparenza, spogliandola delle strutture ingombranti e mettendone in scena i debiti artistici e culturali, tra cui quello con la sua città di adozione.
Torniamo al 1994. Prese le distanze, per un momento, dall’ingombrante iconografia di Hong Kong (città-cinema regista di se stessa, la cui cocciutaggine detta i tempi e i modi dello sguardo), Wong Kar-wai trova la purezza del suo cinema nella sottrazione di uno sguardo archetipico, puro stile e segni. Una purezza problematica e irrimediabilmente inaccessibile, eppure ricca di fascino, come una serafica statua greca. I nidi e le camere d’albergo dell’intera opera dell’autore, luoghi di quiete dal caos della metropoli e della relativa vita dello spirito, non sono qui necessari: il deserto di Ashes of Time è luogo di esilio e di osservazione delle passioni dell’uomo. L’autore scava nella sua personalissima idea di melodramma e rivela il cuore della sua educazione sentimentale: l’epica, dunque il mito e il cinema che lo mette in scena. Il wuxia, certamente: ma anche i richiami diretti al western sono numerosi ed evidenti, in particolare nella sezione del film dedicata all’estate.
Il wuxia di Wong Kar-wai, naturalmente, è sui generis. Le storie di sangue e di vendetta ci toccano solo da lontano come voci e ricordi che giungono ovattati alla lontana frontiera dove si svolge la storia. Restano solo gli strappi, le ferite e le passioni divoranti che il cuore in tumulto si trascina alle spalle. L’autore evita di dipingere eroi senza macchia e malvagi signori della guerra con i relativi sostrati moralizzanti, lasciando solo i codici d’onore e gli assoluti che da sempre definiscono gli uomini e le donne del suo cinema.
Lo stile di Wong attinge dalla nuova ondata di autori hongkongesi che, come Tsui Hark, hanno scomposto il cinema marziale in sequenze di coreografia e montaggio debordanti, ma va oltre: Ashes of Time è cinema d’azione senza azione in cui i conflitti si risolvono in fugaci visioni di lame che danzano, luci accecanti, sguardi che si fiondano tra primissimi piani e teleobiettivi. La memoria vacilla e si impasta con l’allucinazione e l’ebbrezza, filtrata dalla fotografia quasi monocromatica di Christopher Doyle e da vertiginosi dutch angles che tolgono la terra da sotto i piedi. Siamo nei territori della performance e della videoinstallazione, dove le inevitabili spade sguainate vanno lette come violenti punti esclamativi di una interpunzione drammatica che scandisce rabbie, epifanie, uscite di scena. La scelta di tagliare buona parte delle sequenze d’azione per la versione redux rende quest’opera ancora più coerente con gli intenti, ormai evidenti, dell’autore, asciugandola di ogni movimento che non sia necessario perché il tumulto continui.
Paradossalmente, l’assenza di Hong Kong rende Ashes of Time il film più direttamente legato alla città di adozione del suo autore: un deserto ignaro della vita che brulica su di esso, una frontiera alla periferia dell’Impero dove gli apolidi cercano, con tutti i loro limiti, di vivere e sentirsi vivi. Ashes of Time sta ad Hong Kong come Il mito di Sisifo di Albert Camus sta alla condizione postmoderna. In fondo, tutti i suoi personaggi ricordano il Sisifo dell’autore francese: consapevole della futilità della propria impresa, eppure felice dell’intensità dell’esistenza che deriva dal viverla fino in fondo, accettandone i tragici limiti. Figure stoiche e tragiche.
Stagione dopo stagione, guerrieri e amanti si disperdono verso i quattro punti cardinali. Luoghi diversi per vite e scelte incompatibili, ideale complemento alle scuole del Nord e del Sud che informano The Grandmaster e il relativo dualismo tra conservazione e oblio, centro e periferia. Impossibile non vedere le due opere come tempi diversi di un’unica partitura il cui leitmotiv è lo stesso, irriducibile, tragico fatalismo. Una visione romantica e struggente della vita da cui non c’è scampo.