Wong Kar-wai, elettricità e dispersione
Il cuore elettrico di un cinema affamato di tempo, amore e vita, dentro una città bastarda e straordinaria in cui la modernità si brucia e si rigenera.
L’idea di sovraffollamento scompigliato delle Chungking Mansions è data anche dal crogiolo di prese e cavi elettrici esposto alle stagioni e all’umidità che ne determina il loro funzionamento e che si rivela in tutto il suo maestoso intrico anche allo sguardo miope del turista più distratto: qui, in questa pensione mall da quattro soldi, arruffato sciame stretto fra un Holiday Inn e un Imperial Hotel, all’incrocio di Nathan Road con Peking Road quasi agli sgoccioli di Tsim Sha Tsui e prima che Kowloon dia spazio alla baia e, più in là ma non in eccessiva lontananza, allo skyline più bello del mondo, qui, sulla Tsuen Wan Line che poi si butta sott’acqua per riaffiorare a Admiralty e Central, la vita illeggibile di Hong Kong, non interpretabile, senza identità perché polidentitaria, dove alto e basso, mansions e imperial, si avvinghiano per perdersi nel caos ipereterogeneo di una città di anime perdute e non si sa quanto presenti a sé, questa vita così indecifrabile è, ancora oggi che il tempo è passato e di tempo per correre sembra non essercene più, una violenta epifania. Alla quale Wong Kar-wai, inutile negarlo, s’è abbandonato, cedendole il passo e la vittoria. Della vita di Hong Kong i suoi film non sono che l’immaginazione verisimile, il romanzesco accadere; nel cinema di Wong la realtà romanticamente umanista è un sentimento geografico preciso, la storia di una storia, la coordinata di una mappa alla cui intersezione, prima di qualunque altra cosa, prima di un fatto e di un numero civico, prima di un omicidio e di un sogno, avviene un affetto. Quello per una metropoli fuori classe dove l’unica soluzione possibile allo smarrimento è lo smarrirsi tra quelle prese e quei cavi elettrici che sfidano ogni norma di sicurezza perché a conti fatti a Hong Kong la sicurezza è uno stato di trasparenza.
Facile oggi parlare di fantasmi. Tuttavia nel cinema di Wong i fantasmi sono dei creditori d’amore. D’amore vivono e muoiono, anche quando non l’hanno. Difficile però trovare l’amore a Hong Kong, almeno nella sua forma più esibita. È più semplice incontrarne la sua ipotesi, un’eventualità che il caso intralcia; alle Chungking Mansions, poi, nei cui recessi si aggirano indiani e spacciatori, donne in parrucca bionda, occhiali da sole e impermeabile (giusto per essere pronti ad ogni evenienza: a Hong Kong il sole e la pioggia si danno il cambio senza soluzione di continuità), giovani poliziotti ingenui e adolescenti muti, è più probabile che l’amore sia conservato per l’eternità nelle registrazioni di una videocamera, in una vhs che ha trattenuto per sempre la complicità fra un figlio già maggiorenne ma non ancora indipendente e un padre vedovo che lo lascia troppo presto. L’amore nei film di Wong Kar-wai è un affare privato: talmente privato che finisce quando ancora non è iniziato, e riguarda inconsapevolmente anche la profonda appartenenza a un mondo al quale si fa di tutto per non appartenere. L’isolamento subisce la sua moltiplicazione esponenziale nella contiguità aggrovigliata, gomito contro gomito, spalla contro spalla: non è una novità (pensate a certi immaginari di fuga della New Hollywood), benché nel cinema di Wong l’incandescente stile non domato rappresenti paradossalmente l’inamovibilità di un luogo che si muove per eccesso e in circolo. E allora lo step printing e il ralenti, la musica e il fermo immagine sono segni d’interpunzione nel racconto di un posto dello spirito, il giusto posto che allo spirito spetta per natura e per destino, ma anche il suo posto meno felice, perché inevitabilmente impassibile.
Se i film di Wong Kar-wai ci hanno insegnato qualcosa, è l’insopportabile aderenza dell’individuo a un concetto sentimentale. Che riguarda anche Hong Kong stessa, la città che non può espandersi che in verticale, alla rincorsa irrecuperabile di una modernità che si brucia e si rigenera, e si brucia e si rigenera di nuovo. Come l’amore. Un cinema prepotentemente, irresolubilmente in rapporto passionale con le sue vie, le sue bancarelle puzzolenti, le infinite ceste di “cose” disidratate di Yau Ma Tei, le serrande chiuse, i dim sum, le ciotole di riso e di noodles in brodo, i juke-box e il fumo che esce dalle bocche e dalle fogne, il centro abitato che non ha centro e gli appartamenti con le inferriate alle porte. Perché come tutti i suoi personaggi, che si avvicinano e non si conoscono, si interrogano e sperano, che si voltano a guardare e non vedono, che cercano di ricordare e non accettano chi o cosa ricordano, come tutti i personaggi dei film di Wong che inseguono un ideale e più ancora i contorni di un ideale dimenticato, e che rubano l’intimità dell’altro per stargli più vicino e ove possibile – quale sublime, commovente illusione! – sentirlo, odorarlo, toccarlo, innamorarsi, anche Hong Kong è un’entità astratta e paradigmatica, che si sottrae quando conti di dominarla, e scivola via quando pensi di averne colto l’anima. Nei film di Wong ci sono tanti orologi, lancette e date di scadenza, ricorrenze e memorie legate al tempo che passa e che spesso ha lasciato soltanto cenere: abbuffarsi di tempo equivale a credere di interromperlo e di agguantarne il momento, la scena, e magari pure il significato, sottovalutandone però l’algida imperturbabilità. Nei capolavori di Wong Kar-wai il tempo è come Hong Kong, indifferente alla vita. Ma proprio per questo motivo la vita è più viva degli anni che la condizionano e della città che la vincola a una carta di strade. E al pari della vita stessa quella bastarda di Hong Kong, rifugio impraticabile e casa claustrofobica, fervido covo e magnifica presenza, è uguale al ricettacolo elettrico delle Chungking Mansions: folgorante.