Il sacrificio del cervo sacro
Lanthimos si avvicina a Kubrick con un approccio quasi duplicante, ma per il regista greco personaggi e modelli sono solo pedine, (s)oggetti da osservare clinicamente attraverso la macchina da presa.
It’s not an act (?)
In una celebre sequenza di Shining Jack Torrance osserva dall’alto il modellino del labirinto dell’Overlook Hotel. Qui la soggettiva del protagonista, improvvisamente, si trasforma in un insolito plongèe che ci catapulta all’esterno, dove Wendy e Danny passeggiano ancora inconsapevoli delle future minacce. Appare chiaro come in questo frangente Kubrick, con la sua consueta e ghignante ironia, volesse creare un cortocircuito, un gioco di scatole cinesi, dare forma a un occhio demiurgico (quindi registico) che si colloca sempre al di sopra dell’umanità rappresentata, controllata con lucido distacco. Lo stesso sguardo dall’alto domina Il sacrificio del cervo sacro, una verticalità riproposta da Yorgos Lanthimos sin dall’operazione a cuore aperto che fa da prologo al racconto.
Non è la prima volta che Lanthimos omaggia il regista newyorkese. Già in The Lobster l’utilizzo della voice over di Rachel Weisz richiamava con mirati accompagnamenti musicali certe scelte presenti in Arancia meccanica (il commento di Alex) e Barry Lindon (il narratore onnisciente). Ma non solo. Molte sequenze avevano un ché di déjà-vu piuttosto esibito. In quest’ultimo film la modalità si fa ancora più sfacciata, l’approccio è a dir poco duplicante: la colonna sonora che sembra provenire dai corridoi di Shining (Ligeti, guarda caso), la fotografia con gli studiati punti luce intradiegetici, l’uso calcolato della prospettiva, la steady che segue i personaggi con continui scavalcamenti di campo, e molto altro.
E c’è tantissimo Eyes Wide Shut, a partire dalla protagonista Anna, interpretata da Nicole Kidman. E Alice? Cosa rimane di quel femminino che nel capolavoro kubrickiano era un elemento capace di mettere in crisi la luccicante finzione borghese? Cosa rimane di quel corpo tanto animale quanto onirico, che accompagnava l’iniziazione del marito Bill? Per avvicinarci alla rilettura che Lanthimos fa del (suo) maestro, la figura della moglie in questo gelido ritratto famigliare è illuminante. Anna, di mestiere oftalmologa, è l’ennesima maschera della distopia emotiva del regista greco, un automa in cui il cuore potrebbe anche non battere, una meccanica fisiologica che anestetizza qualsiasi suggestione erotica (si pensi alla scena dei preliminari con il marito). Lanthimos porta all’estremo la poetica di Kubrick, aumentando ulteriormente il distaccamento nei confronti della materia osservata, anche nell’uso dei piani dell’inquadratura.
Guardando al complesso di questo rapporto c’è sicuramente della coerenza nella rivisitazione del modello, e qui ci è di aiuto proprio l’esordio del greco, Kinetta, dove l’orrore del reale (lo stupro) poteva farsi narrazione solo attraverso una sua messa in scena (i corti da contact improvvisation) volta a una chirurgica azione di stilizzazione e svuotamento. Con Il sacrificio del cervo sacro il passo è ulteriore e più vicino all’immaginario filmico di riferimento, chiamato a sua volta a partecipare al gioco di meta-rappresentazione. Kubrick è qui davanti a noi ma è una replica, una fredda e consapevole riproposizione, puramente tecnica, vuota come l’umanità rappresentata, una galleria di personaggi privi di un mondo interiore o di qualunque abbozzo di psicologia.
Ogni accenno emotivo è azzerato nella meccanica corporea («Don't cry, crying will only make your eyes hurt more» si diceva in The Lobster) e la stessa cosa capita all’omaggio, al dialogo intratestuale. Personaggi e modelli per Lanthimos sono entrambi pedine, (s)oggetti da osservare clinicamente attraverso la macchina da presa: fate caso a quante volte i protagonisti vengano inquadrati dietro a un vetro, con il riflesso dell’esterno che si sovrappone alla loro immagine. E qui, in un cinema che si avviluppa su se stesso, discontinuo e sigillato, torna lo spaesamento sull’impossibilità di vivere la dialettica tra interno ed esterno. Come per The Lobster, la prigione di queste esistenze, in cui si lotta vanamente per cercare la propria individualità, la propria natura di soggetto, è totale, è ontologicamente legata alla natura stessa delle immagini.
Il sacrificio del cervo sacro è l’ulteriore tassello di una filmografia che genera fantascienze contemporanee. Parlo di fantascienza per le regole autosufficienti e mai spiegate, che vanno oltre la verosimiglianza e delineano i mondi di volta in volta rappresentati. È attraverso di esse che Lanthimos affronta il tema della colpa, seguendo le inspiegabili tracce che danno forma al tramandarsi della stessa alle generazioni successive.
C’è ovviamente una causalità: Steven (Colin Farrell) ha ucciso un paziente e su di lui piomba una maledizione che solo accettando la propria responsabilità come individuo (si torna a uno dei temi fondamentali di Lanthimos) e sacrificando un membro della famiglia può debellare. Non vi sono però spiegazioni, quel presente, governato da un caos cristallizzato, non può essere realmente compreso, nemmeno se un’invasione narrativa alla Haneke (incarnata dal personaggio di Martin) legittima il concatenarsi degli eventi.
Martin irrompe in una posizione discorsiva critica, che frantuma le logiche statiche della famiglia. Ed è la parte più fisica, vitale (?), che riemerge e sembra far ritornare a battere un cuore che nel prologo si allacciava a un cestino della spazzatura al cui interno cadevano le ultime tracce di sangue. Martin divora, si nutre di questo freddo allestimento, fino a esplicare la propria natura di interpretazione: «E’ una metafora», sentenzia dopo aver morso Steven e, per analogia, essersi staccato un lembo di pelle. Il ragazzo, con crudeltà, pone di fronte al protagonista ciò che può renderlo un uomo: la scelta. E non c’è Dio che tenga, che possa venire dall’alto a salvare la povera Ifigenia, anche perché, nuovamente, in Lanthimos l’occasione è sprecata ed è la cecità dell’esistenza a creare una nuova prigione. È il movimento circolare prima di sparare, in un atto conclusivo che richiama l’orologio iniziale, l’ennesimo atto di spersonalizzazione. Forse, a pensarci un po’, aveva ragione Martin: meglio un cinturino in pelle che in metallo.