Amsterdam
David O. Russell pare sfiorare il suo opus magnum, un thriller corale che ragiona sul caos tra le due guerre attraverso l'ipertrofia del suo cinema. Ma è solo fumo negli occhi ed Amsterdam si dimostra perfetto esempio di un cinema sempre più zombiesco.
Il cinema di David O. Russell è davvero una delle anomalie centrali di un contesto contemporaneo che, tra Blockbuster e sperimentazione indie, si muove su coordinate tutto sommato leggibili e stabili. Perché, salvo rari exploit, il suo è un modo di intendere l'immagine irrimediabilmente vuoto, artefatto, incapace di lasciar filtrare una lettura personale di generi o immaginari codificati, un gesto filmico che vorrebbe suscitare meraviglia nello spettatore ma che invece appare parassitario, zombiesco. E tuttavia, malgrado tutto, il suo cinema riesce ad attrarre spesso gli attori più popolari del momento e a ottenere spesso degli ottimi incassi. Un'anomalia azzardata che si protrae almeno da una decina d’anni, forse un po’ troppo per credere che la sua prassi possa proseguire ancora senza conseguenze. E allora il suo Amsterdam pare davvero il teatro di una particolare resa dei conti. Perché, sebbene l’ultimo film di Russell pare poggiarsi senza troppi scossoni nel solco di quell’American Hustle che l’ha preceduto, tra coralità, avventura e una Storia riletta in chiave grottesca, la sensazione è che la vicenda di questi tre amici, che si ritrovano invischiati in una cospirazione volta a instaurare una dittatura nell’America degli anni ’30, sia lo scheletro di quello che, a tutti gli effetti, sembra il progetto più personale del suo regista. Forse per la prima volta Russell sceglie in effetti di guardarsi da fuori, di lasciare le sue influenze, i suoi numi, in disparte (sebbene, certo Scorsese sia sempre lì a ben vedere) e di usare i suoi trucchi, i suoi eccessi, la sua ipertrofia come strumenti creativi, quasi a volerne soppesare i caratteri, le traiettorie, in un estremo tentativo di autoanalisi. E il suo sforzo viene per certi versi ricompensato, perché dopo anni, David O. Russell pare sia riuscito a trovare il setup narrativo ideale per la sintassi del suo cinema.
Amsterdam sembra in effetti l’unico film possibile per raccontare il limbo tra le due guerre mondiali: quello di Weimar, del biennio rosso, dell’ascesa di Hitler e Mussolini, delle avanguardie artistiche, con tutte le sue contraddizioni, il suo caos, i suoi fantasmi, dalla prospettiva americana. E allora a Russell va riconosciuto senz’altro il merito di spingere sull’acceleratore, di costruire la sua storia quasi con strafottenza. Così il mondo di Amsterdam non può che essere febbricitante, in costante overacting, pronto ad assecondare il cortocircuito socioculturale di quegli anni, tesi tra la morte e la meraviglia. Russell lascia la guerra fuori campo ma infesta comunque il suo film di reduci, di menomati, di cadaveri che non sanno di esserlo, fa attraversare ai suoi personaggi le stanze e i corridoi più signorili dell’America alto borghese ma mette al contempo in risalto la vacuità di quegli spazi, vicinissimi a delle grottesche scenografie di un numero di cabaret. Sembra un grande thriller cospirazionista, ma tra una scrittura che si diverte a girare in tondo e la mole di guest star che impantana il sistema narrativo pare più efficace come parodia di un granguignolesco hard boiled di Dashiell Hammett. Il risultato è un gioco dell’oca sempre più preda dell’entropia che ricorda tanto gli sketch all star del Saturday Night Live quanto Europe Central di William Vollmann, nutrendosi anche delle atmosfere dei fumetti pulp anni ’30 e dei melò.
E allora, se si accetta il caos del sistema, con tutte le sue contraddizioni, sembra quasi di intravedere, tra quelle immagini, uno strano moto di autoconsapevolezza da parte di Russell, come se quegli spazi di cartapesta, ma anche quegli amputati costeggiati dai tre protagonisti, fossero un costante memento del suo cinema morto-vivente, le cui traiettorie e tensioni vengono problematizzate qui per la prima volta. Ma se fosse tutto fumo negli occhi?
Lentamente, in effetti, ci si rende conto che la supposta autoanalisi del regista non è mai rafforzata e precisata da una visione d’insieme, da una vera lettura autoriale del contesto. La scrittura, piuttosto, si limita ad affastellare spunti, suggestioni, elementi creativi aumentando un disordine che tuttavia, se non convogliato nei giusti canali, non può che compromettere l’integrità del sistema. La sensazione è che quello di Russell sia un movimento sempre più agitato, quasi che il suo passo nasconda a fatica il tentativo frettoloso di mettere più spazio possibile tra lui e un abisso inevitabile. In fondo, però, è solo questione di tempo. Le prime crepe nell’affresco compaiono probabilmente già all’apice dell’indagine, quando una promettente sequenza, quella del laboratorio di ricerca, davvero una straordinaria escrescenza da naziexploitation se sfruttata nel giusto modo, viene invece solo accennata in un rapidissimo flashback. È un segnale forte, questo, di quanto il regista stia finendo rapidamente in debito d’ossigeno, l’inquietante spia che, forse, l’affascinante connubio tra il suo stile e l’immaginario di Amsterdam sia nato più da una facile convenienza che dall’effettivo desiderio di mettersi in gioco. Non stupisce allora, se man mano che il racconto si avvicina all’epilogo il passo della scrittura si acquieta sempre di più, come se David O. Russell avesse deciso improvvisamente di tirare i remi in barca e di contenere il più possibile i danni. Così il racconto si assesta sulle linee di un thriller melò evidentemente stanco, rigido, privo della spinta forsennata, della giocosità degli inizi. Ma è tutto inutile, Amsterdam alla fine non può che cadere nell’abisso che ha costeggiato fino a quel momento. E la sua è una fine rovinosa, quasi incomprensibile.
L’ultimo atto vorrebbe replicare l’epica dei grandi showdown delle spy stories tradizionali, quelli che si svolgono durante i grandi ricevimenti dell’alta borghesia, ma in realtà risolve tutto con una sequenza che baratta l’apoteosi dell’action con il dialogo e la staticità dei gialli tradizionali. Ormai è come se tutti i trucchi di Russell siano venuti alla luce e, privi di un vero e proprio sostegno argomentativo, smascherati. E allora tutto si ammanta della fredda atmosfera di un diorama, in cui ogni elemento si tiene più per prassi che per efficacia, ma le cui singole parti rimandano evidentemente ad atmosfere stantie (complice anche una storyline che, nel profondo, pare raccontare l’America di QAnon forse un po’ troppo fuori tempo massimo).
È un progetto nato e nutrito dal paradosso, Amsterdam. Apparente opera summa del linguaggio di David O. Russell e al contempo reset di quelle stesse coordinate, in realtà si è rivelata opera che ha raccontato benissimo la pigrizia del suo regista e lo stato d’eccezione del suo cinema.