Under the Silver Lake
Un noir losangelino che indaga lo strano e l’assurdo che si agita sotto la collina di Hollywood, dove il mistero, che permea il genere classico, entra in cortocircuito con il surreale e le superfici patinate del grande vuoto su cui si erge la cultura pop contemporanea.
David Robert Mitchell, al suo terzo lavoro, firma una versione lisergica e scompaginata di una La La Land dell’immaginario, dove il sogno cede il passo alla paranoia (come nel precedente It Follows) e al grottesco, dove non brillano astri nascenti ma accadono le cose più strane: le persone spariscono come inghiottite dal nulla della città, tra killer di cani, codici da decifrare, fumettisti ossessionati da teorie del complotto, gruppi rock messianici, omicidi e misteriose leggende di donne gufo, il tutto ammantato dalla mondanità scintillante della città degli angeli. È un cinema che saccheggia e rimastica il proprio immaginario e lo sovverte andando alla deriva dentro se stesso, nel fitto intrico di rimandi e giochi cinefili, trappole e scappatoie narrative, minando le basi del genere. L’orizzonte è quello del (neo) noir contemporaneo, da Lynch a Vizio di forma passando per Il grande Lebowski, ma la traiettoria è discontinua e allucinata, senza approdo certo.
Sam (Andrew Garfield) è uno spiantato trentenne, squattrinato e senza lavoro; un disilluso – come in ogni noir che si rispetti – che vive alla giornata in un residence con vista su piscina, dove passa il tempo a osservare con un binocolo ciò che gli accade intorno. La finestra sul cortile è il punto di partenza che apre ad altri mondi e incontra un classico topos noir quando la bionda e fatale vicina di casa, di cui è invaghito, svanisce nel nulla all’indomani del loro incontro, disseminando indizi e innescando una girandola folle di eventi insieme al viaggio di Sam dentro L.A. e i suoi misteri.
Questa detection in realtà è un détournement, una deriva senza capo né coda in un universo di segni e citazioni, tra simulacri e vestigia della vecchia Hollywood, e i riferimenti di una cultura pop che non rimanda ad altro che a se stessa. Il film insomma è una mappa da decriptare, un pedinamento urbano senza bussola, sulle tracce del desiderio e del piacere del racconto, debordante e potenzialmente infinito dentro la Storia del cinema e le storie di una Hollywood di stravaganze e bizzarrie al limite dell’assurdo, dove Mitchell centrifuga candidamente ogni cosa che gli passi per le mani in un continuum di rimediazione dei prodotti culturali: il cinema, la musica, i videogiochi, le graphic novel e tutto l’armamentario culturale di un regista quarantenne cresciuto a cavallo dei 90’s. Da Hitchcock a Super Mario, da Amazing-Spiderman a dive/i del passato… in un frullato pop che ha lo strano sapore del perturbante: familiare e spaventoso, come forgiato nella stessa materia e sullo stesso meccanismo dei sogni. E proprio come nei sogni si gira a vuoto, tra spunti brillanti e scivolate. Mitchell lo sa e come Sam sa di perdersi tra citazioni, omaggi, ossessioni, simboli e codici dentro la città del cinema senza arrivare a cogliere mai il senso ultimo delle cose, come in un divagare febbricitante dentro un immaginario strabordante. Nel ricomporre questo puzzle impazzito si prende non poche libertà e rischi, svelando in ultimo tutta l’inconsistenza di fondo di questo mondo, mostrandone il volto oscuro incarnato dal songwriter, figura senza tempo e senza età, autore occulto di tutte le hits del presente e del passato. Da La Bamba a Smell Like Teen Spirit. Non c’è ribellione, non c’è purezza solo l’evanescenza della cultura pop contemporanea che ingloba ogni cosa. Anche l'ossessione per i messaggi subliminali contenuti nella comunicazione mediatica (pubblicitaria, cinematografica e soprattutto musicale) si rivelano inconsistenti e vuoti, spunti e pretesti ulteriori per il narrare nel tentativo di sviscerare il mistero che avvolge la città dei sogni.
Mitchell nella sua poetica di ridefinizione e riscrittura dei generi, destrutturandoli e decostruendoli a partire da stereotipi e cliché già dati, si lascia qui sicuramente prendere la mano in una storia frammentata e sconclusionata; affastella un mosaico di rimandi alla cultura pop che finisce con il fagocitare ogni cosa, ogni senso ultimo, anche lo slancio romantico come motore dell’azione. Ma seguirlo in questo delirio stupefacente non lascia inappagati, è la rotta per andare sotto la superficie; permette di spostare ulteriormente lo sguardo per riconfigurare una mappa emotiva delle proprie magnifiche ossessioni in una rimediazione potenzialmente infinita del nostro immaginario.