Wendy and Lucy
Nel viaggio attraverso il niente di Wendy e Lucy, l'"Americana" neorelista di Kelly Reichardt
C'è una spinta tutta statunitense dietro la ricerca dell'epica nelle più insignificanti delle vite, e di elaborare questo precetto Kelly Reichardt sembra aver fatto una sorta di missione. Più amaro che gioioso, è un bisogno che tradisce la contraddittorietà irrisolta alla base del bizzarro umanesimo made in USA – che disprezza i non-ricchi, celebrando al contempo il grigio e miserabile quotidiano cui è condannata la maggioranza della popolazione (e che permette così l'esistenza di quei pochi “vincenti”). Un controsenso fondante della forma mentis yankee, che come tutte le antitesi è anche motore di un'inesauribile spinta drammatica.
E' rispondendo a questo bisogno di epica, di qualunque epica, che dia un senso e inquadri lo squallore umano e sociale in un orizzonte più ampio, che l'autrice ha saputo sviluppare un cinema denso e potente – partendo dall'esoscheletro dei grandi archetipi per arrivare, inevitabilmente, al Western. In quello che per antonomasia è il dispositivo creativo dei miti originari nazionali (e dunque della visione che la Nazione ha di sé), le microstorie individuali raccontate assumono un peso nuovo. E il cinema di Reichardt “western” in senso di mitopoietico lo è sempre – anche nei quasi invisibili primi lavori, quando l'autrice andava a trovare le tracce della sua epopea universale in parabole fuori da ogni coordinata commerciale tradizionale.
Wendy and Lucy è forse il primo film di Kelly Reichardt ad investirne i microscopici apologhi di un senso totale di tragedia. Nel 2008 l'autrice ha lasciato definitivamente da parte le tracce indie drama e quasi-mumblecore dei primi lavori: è il momento in cui le piccole vicende diventano grandi racconti collettivi, addirittura storici, accompagnati come si conviene da quell'armamentario iconografico che da sempre definisce l'identità della working class americana. Il passaggio avviene in quello che resterà il suo film più esplicitamente politico, in cui la meschinità di una classe media spietata, cieca anche di fronte ai più triviali dei problemi (un guasto alla macchina, il furto di una scatoletta di cibo), riuscirà a spezzare persino il legame viscerale tra le due protagoniste - una vagabonda, e il suo cane. La parabola evangelica di emarginazione si accompagna all'intera galassia simbolica della teogonia USA: ecco arrivare le vecchie auto di mille americana springsteeniane, le highway, gli hobos e le traversate del Midwest alla Steinbeck – oltre, ovviamente, agli amatissimi treni e linee ferroviarie. Ecco le piccole città e la loro noia, quell'idea anche filmica di un pellegrinaggio senza punto di arrivo (come nel primo Jarmusch, altro mitologo americano), arrancando tra inquadrature lente, infinite come i suoi totali così vasti e così vuoti.
Il senso del viaggio o assenza dello stesso attraverserà tutti i film successivi (e retrospettivamente anche i precedenti), introducendo in Wendy and Lucy il leitmotiv della ricerca senza fine di un altrove. I lavori dell'autrice non restano isolati, ma si rivelano dunque passaggi di un percorso organico, in cui ogni tappa richiama quella prima, e la successiva. Tanti tasselli di una vasta controstoria anti-spettacolarizzata, vicina a un'idea di slow cinema ancor più straniante se messa in relazione al resto della produzione hollywoodiana. Su un racconto così emotivamente forte (merito anche della scrittura in punta di piedi di Jon Raymond), è infatti il rigore formale dell'autrice a distinguerla da molti suoi connazionali: in un cinema urlato, prepotente e preponderante nei confronti dello spettatore come è quello americano di oggi, sempre più spesso ansioso di imboccare, istruire e redarguire un pubblico reputato (a ragione, vien da dire) incapace di qualsiasi decodifica, il silenzio di Reichardt è assordante.
Nel continuum del percorso della regista, Wendy and Lucy compie dunque il primo passo importante verso una sintesi ancora in divenire di tante diverse forme di racconto minimalista, impegnato e verista. La sua ricerca è anche quella, sempre aperta, del distacco e dell'oggettività totale delle immagini - grande chimera di tutti i realisti fin dall'alba del mezzo. Nel film del 2008 i riferimenti in tal senso sono ancora molto evidenti, da scuola di cinema: grande amore per il neorealismo italiano (ovviamente Umberto D.), ma anche, più in sordina, per il realismo umanista della Golden Age giapponese (Yasujiro Ozu su tutti). Basi di partenza teoriche, progressivamente assimilate in un percorso che abbraccerà il genere (western puro in Meeks Cutoff, noir in Night Moves), trovando infine un'idea tutta personale di commedia dolceamara negli ultimi, incredibili film a partire da Certain Women. Wendy and Lucy è invece intransigente come lo sono i primi lavori, dove la carica sentimentale del racconto si fa quasi totalizzante sulle sfumature. Un'opera disperata e disperante, dove anche l'amicizia, che la più matura regista evocherà in First Cow, è solo l'ultimo legame a essere reciso, nella grettezza di un corpo sociale popolato da mostri.