Holy Motors
Un'apocalisse della percezione è alle porte, riusciamo ancora a guardare? Leos Carax firma uno dei più grandi film sul cinema e le sue ossessioni, sul futuro incerto e frammentato delle immagini.
Chissà cosa penserebbe Michael Cimino, tra i grandi esiliati della storia del cinema, di Holy Motors, di questo film così sentito e sofferto, angosciato ma comunque resiliente, ostinato per come resta attaccato al sentimento, all’umano, a discapito di tutto. Forse non resterebbe indifferente di fronte una rappresentazione così limpida e al contempo visionaria dell’ossessione per il cinema, quella sequenza iniziale in cui assistiamo al vero risveglio (dopo 13 anni) del vampiro Leos Carax, che disturbato nel sonno da un concetto non sradicabile scava nelle pareti del proprio inconscio, aprendo serrature e bucando muri di carta, per rientrare infine nel proprio alveolo naturale, una sala cinematografica. Forse persa di vista, forse rigettata in un momento di frustrazione e rabbia, ma sempre lì, sempre ineludibilmente presente.
Il cinema è un modo di vivere ed essere al mondo, interiorizzato e corporizzato nei nostri tessuti più intimi, ma come ci mostra la sala annidata nella mente di Carax è anche un luogo condiviso, popolato da altri. Ma cosa succede se la moltitudine che un tempo animava e viveva quel luogo, anche a rischio di precipitare in un alienante anonimato, quella folla chiassosa e agitata mostrata 85 anni fa da King Vidor si rivela oggi una platea in stato di semi-vita, con spettatori addormentati e incoscienti mentre lo spettacolo va avanti? Forse solo l’ingenua meraviglia, nelle vesti di un bambino nudo che corre verso lo schermo, può salvarci da quest’autodistruzione della percezione.
E di meraviglia nel film di Carax ce n’è davvero molta, dato che di opera d’arte si tratta. Holy Motors è una mirabile e concentratissima stratificazione sensoriale-semantica, che sotto le spoglie di mise en abyme della recitazione mette in scena l’ossessione per il (proprio) cinema e un progressivo scandagliamento della sua percezione, del suo senso oggi, interrogandosi su di una natura in movimento senza alcuna autoreferenzialità ma anzi con una passione che non esclude il distacco ironico. Nell’odissea joyciana compiuta da Monsieur Oscar – che per compito della società Holy Motors attraversa Parigi su di una limousine bianca per impersonare un ruolo dopo un altro, un cinema dopo un altro – assistiamo all’infinito farsi e disfarsi del cinema, che corporizzato tutto nello straordinario volto di Denis Lavant vive le sue infinite forme animando un mondo altrimenti più spento. L’unico problema però è sempre quello, il pubblico dormiente dell’inizio, perché se è vero che quando tutto è soggetto a osservazione è lecito chiedersi dove inizi il cinema e finisca la vita, allo stesso tempo se tutto è registrato, monitorato, elettronicamente percepito, è come se in realtà nulla lo sia. Vediamo tutto ma non sappiamo più guardare. E’ da qui che proviene il terrore che Monsieur Oscar nutre per le telecamere sempre più piccole e piccole, paura che va di pari passo al terribile dubbio – sollevato da “l’uomo con la macchia di vino” di Michel Piccoli – su cosa succeda se tutti smettiamo di osservare, dato che la bellezza è nell’occhio di chi guarda. Da questo senso funereo di fine incombente deriva l’altra grande ossessione che domina il film, il tempo e le occasioni perdute, la perdita e il tentativo costante di colmare l’incolmabile, di far vent’anni di venti minuti.
Oltre l’ossessione e la mancanza, Holy Motors è una raccolta di tesseratti, pastiche di frammenti che al loro interno conservano una dimensione maggiore di quanto sia visibile da fuori. Recuperando le forme primigene del postmodernismo più autentico e significante, Carax costruisce una raccolta di frammenti per mettere in scena una crisi d’identità lacerante: Monsieur Oscar non può che passare la propria vita fingendosi qualcun altro, reiterando la reinvenzione e il conseguente annichilimento di sé (fino all’auto-omicidio) giorno dopo giorno, ora dopo ora. E se anche uno spiraglio di autenticità si dovesse aprire nel grigiore delle sue recitazioni (l’incontro con la Jean Seberg di Kylie Minogue), esso non può che esistere nelle forme della citazione, della reinterpretazione del già dato, come quegli stessi magazzini Samaritaine in cui vita, arte e morte si intrecciano in un cortocircuito privo di speranza. Ma, come dimostra la maschera bianca indossata dall’autista di Oscar al momento di staccare dal lavoro, al di fuori del cinema non vi è nessuna identità definita ad attenderci, solo – e qui ritorna la lezione aggiornata di Vidor – l’alienazione e l’anonimato. Allora ben vengano i frammenti, ben venga la vita, per quanto recitata su dieci schermi diversi al giorno e solo per “la bellezza del gesto”. Ben venga il cinema e la sua fiamma, che tutto è fuorché morto, dato che come ci dicono le limousine parlanti della chiusura, siamo noi ad esserci stufati “del motore e dell’azione”, siamo noi i morti, i replicanti dormienti. Il cinema invece è un motore sacro vivissimo in tutti i suoi frammenti.