"Antonio Mastronunzio pittore sannita" e "La salita" - I corti di Mario Martone
Il cinema di Mario Martone è anche una questione di luoghi. Il rapporto tra natura e solitudine (e il fuori campo della città) in due corti.
C’è un fil rouge che collega il cinema di Mario Martone ai luoghi in cui sono immersi i suoi personaggi. Se ascoltiamo il regista ricordare il successo di Morte di un matematico napoletano e de L’amore molesto, ci accorgiamo di come le sue parole definiscano prima di tutto Napoli, che nel primo appare «rarefatta e vuota» e nel secondo, al contrario, piena di «corpi e macchine e di tutti i suoni e i rumori della strada». Antonio Mastronunzio pittore sannita (che insieme a Dov’è Yankel? di Paolo Rosa e D’estate di Silvio Soldini forma Miracoli: storie per corti) e La salita, interpretato da Toni Servillo (ultimo contributo de I vesuviani, altro film a episodi diretto anche da Antonietta De Lillo, Antonio Capuano, Pappi Corsicato e Stefano Incerti) sono ambienti invece lontano dalla città, che però fa continuamente capolino mettendo in crisi i protagonisti che vorrebbero trovare un briciolo di serenità lontano da essa.
Un ricco collezionista rimane impressionato da un quadro di quindici anni prima. Recatosi dal suo autore, gliene commissiona uno identico promettendogli qualsiasi cifra. (Il vero) Mastronunzio è in crisi, ci prova a pennellare gli stessi rami fioriti su quello sfondo rosso, ma l’arte è l’ispirazione di un momento in simbiosi con la natura che proprio non riesce a replicarsi. Il risultato è un’opera che non convince il pittore, che in un raptus di rabbia uniforma di colore l’intera tela per poi gettarla nel fiume. Miracolo: incagliatasi in un’ansa, magicamente si trasformerà proprio nel dipinto desiderato. Ne la Salita, il sindaco di Napoli con tanto di fascia tricolore scala il Vesuvio senza una meta precisa. L’altitudine aumenterà a suon di incontri surreali, onirici, bizzarri e drammatici. Prima un’attrice new age, poi l’attore e cantante di punta della rinnovata offerta culturale partenopea, e poi un corvo voce della coscienza che sembra uscire da Uccellacci e uccellini, un prete, un operaio che trasporta una carriola piena di libri da cui cade un saggio su Lenin, e ancora baby-muratori in un cantiere abusivo, sub-proletari condannati al sottosuolo e due donne (quasi) fatali, finché l’alter-ego di Bassolino (all’epoca il film fece molto discutere) si ritrova da solo, in cima, ormai lontano dalla città alla quale a tutti ha assicurato essere vicinissimo.
Distanti dal centro, dal cuore della comunità, gli uomini di Martone si smarriscono tanto più se incalzati dall’eco insistente della frenesia urbana. Il pittore Sannita, quando il collezionista bussa alla sua porta, dorme beato. Dopo sarà il tempo della frustrazione. Servillo, quando ancora la strada è asfaltata e prima di inerpicarsi sulla sdrucciolevole pietra lavica, sorride, è sicuro di sé. Il ricco che pretende il quadro proviene dalla città e da questa si porta dietro la pretesa capitalistica di ottenere ciò che vuole a patto che paghi il giusto prezzo. I personaggi in cui si imbatte il sindaco lo interrogano sulle proprie responsabilità, sulla sua fede comunista (una delle due donne, sineddoche di un femminismo incompiuto, critica aspramente il ruolo subalterno che la sinistra le attribuisce) e colpiscono nel segno in uno scenario che assomiglia a un purgatorio dantesco. La natura del primo corto è invece placida e rassicurante: tuttavia l’artista vi si muove angosciato, chiedendo aiuto a coloro che incontra.
C’è un prima e un dopo nei corti di Mario Martone, un conflitto tra l’uomo e le sue certezze in frantumi, un senso generale di smarrimento e sconfitta. Seppur con toni diversi (l’umorismo del primo film si contrappone alla tensione del secondo), il regista e drammaturgo affronta ancora una volta il tema della solitudine toccando temi a lui cari quali l’arte, l’ideologia (e il suo inevitabile tramonto) e, affidate al fuoricampo, le contraddizioni della metropoli a partire dal contesto napoletano. Si tratta di opere minori, certamente, ma preziose per aggiungere un tassello significativo allo studio della solitudine e al rapporto con la natura intesa come alterità priva di sovrastrutture: un luogo che probabilmente non sappiamo più abitare.