Noi credevamo
Il primo capitolo della trilogia ideale che Mario Martone dedica alla Storia d’Italia e alle persone che la muovono. Semplicemente, uno dei film italiani più importanti e decisivi del XXI secolo.
«L’albero è stato piantato, con delle radici malate, ma è stato piantato».
Scrive così Cristina di Belgiojoso al deluso repubblicano Domenico, in quel fatidico 1862, l’alba della nazione. Prima, però, c’è stata tutta la “credenza” e la disillusione di un sogno lungo quarant’anni che ha attraversato l’Italia: il Risorgimento visto come rivoluzione mancata e scintilla di libertà ammansita. Noi credevamo è uno dei film italiani più importanti e decisivi del XXI secolo: quattro atti per un’opera-mondo che racchiude istanze e sentimenti, erranze e narrazioni, passioni e riflessioni, documenti e monumenti di un’intera generazione di repubblicani e monarchici, politici e politicanti, ideologi e insurrezionalisti, letterati e teatranti. Liberamente tratto dall’omonimo libro di Anna Banti, il film di Mario Martone si distacca volutamente da qualsiasi agiografia sulle tappe fondamentali del Risorgimento per incunearsi subito nelle pieghe degli eventi, illuminare le zone buie, mettere in ellissi le grandi suture storiche e far luce sulle grandi fratture sociali relegate all’oblio dalla storiografia ufficiale. Un film coraggiosissimo nell’insistere con fiducia sul paradigma della complessità in un tempo (il nostro) così attratto dalla semplificazione perenne del passato.
1828. Si inizia dall’incendio di Bosco, nel Cilento, dove alcuni rivoltosi vengono decapitati dall’esercito borbonico che per vendetta incenerisce il paese. L’episodio spinge tre ragazzi del posto (Salvatore, Angelo e Domenico) ad affiliarsi alla Giovine Italia di Mazzini e contribuire al suo sogno rivoluzionario... da quel momento in poi seguiremo i loro destini nei successivi quattro decenni. Martone immerge i suoi protagonisti nel dibattito politico in atto, li rende automi spirituali intrisi di istanze politiche, sociali, culturali, declamate con impeto intimamente teatrale. Nel contempo però (in una straordinaria contaminazione) supera ogni sovrastruttura con la potenza delle emozioni prime, con il dato reale del set e con l’insistenza dei primi-piani sul paesaggio dei loro volti. Proprio come nella splendida sequenza dell’incontro tra il “figlio del trappitaro” Salvatore e la “leggenda” Giuseppe Mazzini: un incontro decisivo che sottende un attentato al Re Carlo Alberto, risolto però sugli occhi del ragazzo che scrutano il volto di Mazzini in un mix di paura e devozione, tensione e candore, stupore e sospetto.
Il tempo passa. Dal Cilento a Parigi, da Torino al carcere di Montefusco, da Londra a Roma… durante il cammino dei suoi tre personaggi fittizi Martone ci fa incontrare figure storiche come Cristina di Belgiojoso, Carlo Poerio, Sigismondo Castromediano, Felice Orsini, Simon Bernard, Antonio Gallenga, Francesco Crispi, l’ombra di Giuseppe Garibaldi e poi ovviamente Mazzini. Una maschera di cera rosa dai rimpianti e dalla responsabilità che puntella il film come anima fiera e ferita. Le musiche di Giuseppe Verdi, Vincenzo Bellini e Gioachino Rossini innestano umori d’opera in questa paradossale gestione rosselliniana degli spazi del set. Martone, quindi, assorbe e restituisce con straordinaria naturalezza la memoria cinematografica di 1860 di Blasetti (citato nella sequenza iniziale), di Senso e Il Gattopardo di Visconti, de La pattuglia sperduta di Piero Nelli, poi di tutto il Rossellini didattico delle biografie televisive, per concludere con echi del Bertolucci di Strategia del Ragno o Novecento. Un film vertiginoso, sì, che nell’enorme lavoro sul fuori campo trova la sua più alta mediazione estetica: Martone relega alla memoria ufficiale dei “libri di testo” ogni evento saliente della storia patria per concedere al cinema il privilegio di indagare “solo” le contrastanti e ambigue passioni umane. Ossia la credenza primigenia e pura di Salvatore, quella malata e violenta di Angelo (che verrà condannato per il fallito attentato a Napoleone III), infine quella sofferta e riflessiva di Domenico, che diventerà lo sguardo (dis)illuso del nostro film. Liberamente or piangi…
Il sogno di un’Italia libera(ta) e repubblicana si trasforma pian piano, con l’intervento dei Savoia e di Cavour, in Italia unita ma monarchica. Dal 1828 al 1862 la riunificazione del Paese segnerà la progressiva separazione degli ideali originari dalla realtà politica imponendo scelte di compromesso e relegando ogni memoria privata all’oblio della storia. Ma il cinema si ribella: l’uomo col canarino, omaggio a Il cardillo addolorato di Anna Maria Ortense, getta un ponte ai successivi film di Martone in una magnifica trilogia ideale (con Il giovane Favoloso e Capri-Revolution) basata proprio sulle persone e sui sentimenti come motore nascosto della storia. Un film di impressionante lucidità e urgenza, dove le pulsioni vive e contrastanti che hanno generato (e generano ancora) l’Italia si coagulano nell’inesorabile declinazione all’imperfetto di ogni ideale originario. Noi credevamo…