Malcolm & Marie
Ritratto di coppia in tempesta, che mettendo in crisi comunicazione ed empatia ci parla con grande intelligenza di autenticità e finzione, attraverso l'influenza preponderante e gargantuesca dell'ego.
Durerà pochi giorni – giusto il tempo che ci vuole prima che la prossima uscita streaming catalizzi la sua quota settimanale di attenzione mediatica, dentro quel ciclo ipertrofico e surriscaldato che in tempi di on demand ed emergenza sanitaria sta diventando la visione e il dibattito collettivo riguardo film/serie tv – ma intanto è tutto un Malcolm & Marie. Un susseguirsi di plausi, rigetti, nervosismi e innamoramenti per un film che ci ricorda come il cinema possa ancora fare rumore, alimentando letture divergenti, schieramenti, controversie, nonostante la visione a confinamento salottiero da smart tv oled 55 pollici e divano.
Del resto nel suo piccolo Malcolm & Marie fa già la storia, in quanto primo film hollywoodiano ad essere ideato, scritto e girato in piena pandemia. Interrotte giocoforza le riprese della seconda stagione di Euphoria, Sam Levinson lavora solo con due attori e una location, set in quarantena e isolamento della crew, tra controlli quotidiani della temperatura e costumi e trucco affidati direttamente ai due protagonisti, John David Washington e Zendaya, anche produttori. Sembrerebbero le condizioni ideali per un film cassavetesiano, analisi della vita di coppia in andamento teatrale nata da un ambiente di lavoro condiviso e isolato, ma le scorciatoie critiche hanno le gambe corte perché Malcolm & Marie è un film che rispetto a quel magistero umanista e realista va da tutt’altra parte, saturando l’immagine e lo sguardo di costruzione autoriale, estetizzante, per riflettere anzitutto sull’ego e sulla sua forza centripeta, magnetica, che sempre si infiltra nelle relazioni e negli affetti, nel vedere e fare cinema, e lo scrivere. Critica compresa.
Malcolm & Marie lavora sull’interpolazione reciproca di più livelli – relazione/lavoro, affetto/dipendenza, amore/tossicità, io/l’altro – ma soprattutto intreccia la crisi di coppia al dibattito culturale inerente l’industria cinematografica e la sua interpretazione critica. In entrambi i casi l’ispirazione è autobiografica – Levinson parte dal ricordo in cui, alla premiere del suo Assassination Nation, si scordò di ringraziare la moglie, profondamente coinvolta nel processo creativo, e lo stesso film suscitò su L.A. Times le stroncature che, reinterpretate, sono alla base delle sfuriate di Malcolm – e l’intrecciarsi delle due dimensioni è certamente cerebrale, artefatto, come se tutto il film divenisse un grande laboratorio d’analisi in cui il l’autore si diverte a mettere in scena sé stesso, esasperando difetti e attitudini sul crinale tra autocritica e indulgenza. Ma limitare il film a questo sarebbe accontentarsi di interagire con il cosa viene mostrato piuttosto che con il come, perché Levinson è parecchio chiaro riguardo il modo in cui intende il rapporto tra autenticità e finzione, e Malcolm & Marie è tutto giocato sull’inspessimento del filtro, della costruzione estetica, sul peso specifico dello sguardo che nel prosieguo del racconto si decostruisce, si posa, allentando la presa barocca sull’immagine affinché traspaia via via un maggior grado di verità. Levinson, convinto che proprio attraverso un processo di costruzione stilizzata dell’immagine e suo progressivo svelamento si possa arrivare, oggi, all’autenticità, a quei rapidi momenti mercuriali in cui qualcosa di universale viene creato e messo in scena, affinché possa riverberare, familiare, nell’occhio di chi guarda, si muove certo su un terreno rischioso – e tra discorsi critici e relazionali si getta anche felice, e provocatoriamente, nelle faglie più instabili del contemporaneo – ma non si può negare che nel corso del processo riesca magnificamente a catturare l’oscillamento ondulatorio del conflitto amoroso, il fatto che due persone scisse tra contrasto e attrazione, costrette nel lockdown psichico e fisico di una casa che è prigione di vetro dispersa nel nulla, creino un campo magnetico di intensità emotiva così spessa da diventare pressoché visibile, percepibile, come elettricità nell’aria che innesca pelle d’oca e respiro pesante.
Quella tra Malcom e Marie è una relazione in cui convergono molti temi che oggi seguiamo con particolare e rinverdita attenzione, dallo squilibrio generazionale tra i partner al ricatto affettivo, dalla tossicità egomaniaca al narcisismo insicuro e solipsistico, ed è evidente che il personaggio di Malcolm in particolare è l’elemento critico della situazione, ma al netto di una certa ingerenza autoriale quel che ne esce è un film di rara potenza sentimentale in cui l’ego viene messo al muro e svelato in tutti i suoi bisogni infantili, insicurezze ataviche e rivendicazioni mai pronunciate. Malcolm & Marie è la crisi della comunicazione, il dolore e la rabbia di due amanti che falliscono nell’ascoltare ed esprimersi all’altro, ma attraverso il personaggio di Malcolm – che sì, è avatar di Levinson e riflesso esacerbato che si sfoga in modo ridicolo ma intanto quel che vuole dire, praticamente con nomi e cognomi, lo dice lo stesso, e sarebbe stato meglio essere più sottili, meno egomaniaci a propria volta – è anche attacco a tutto un apparato di pensiero e di critica che cavalca l’impegnata istanza intellettuale del momento piegando a quell’interpretazione ogni gesto artistico. Un punto di vista limite, per di più espresso da un regista bianco tramite il corpo sovraeccitato di un attore nero, ma, appunto, è questione di cosa e di come, e le accuse risibili di whitesplaining possono sorgere solo là dove si considerano i due attori-produttori utili idioti e la costruzione filmica un accessorio irrisorio; perché il senso del film è tutto nello sguardo sbeffeggiante di Zendaya – magnifica e prossima diva, che via via smonta la sua allure da star andando alla carne e al sangue del proprio dolore, come se il corso della serata, e del film, altro non sia che il dismaking di un spot Gucci. È lì che troviamo tutta la consapevolezza e la genuinità che ci serve per ricevere un film del genere, che rischia diverse volte di sbandare nell’autoreferenzialità e nel ricorso tattico e vendicativo del reale, ma che proprio su questi eccessi costruisce il suo discorso sull’ego, sui disequilibri affettivi, sulle scorciatoie intellettuali, in un rapporto spesso, intelligente e mai facile con le asperità del vivere sé stessi, gli altri e il loro giudizio, nel ginepraio mobile e labirintico delle affezioni e dei desideri, dove l’incombere della nostra fragile e gargantuesca personalità si scontra con la vastità dell’altro e l’importanza e il rispetto che a quell’alterità riusciamo ad attribuire. Fino a chiedere scusa, affinché, la prossima volta, sia più facile dire grazie.