Vice - L'uomo nell'ombra
Adam McKay racconta Dick Cheney attraverso una satira spiazzante e dissacratoria, in cui i codici del biopic non solo si trovano irrimediabilmente scardinati ma diventano oggetto stesso di discussione.
«Ho cominciato con il desiderio di raccontare una storia seria. Lavoravo alla sceneggiatura e dopo alcune settimane finii per rendermi conto che tutte le buone idee, tutte le cose verosimili erano ridicole» disse Kubrick a proposito di Il dottor Stranamore. Spesso la realtà è così tragicamente demenziale che diventa difficile restituirla in modo convincente restando seri. Lo sa bene anche Adam McKay, che con il suo ultimo Vice - L’uomo nell’ombra decide di raccontarci ascesa e apogeo dell’ex vicepresidente americano Dick Cheney (Christian Bale) attraverso una satira spiazzante e dissacratoria, in cui i codici del biopic non solo si trovano irrimediabilmente scardinati ma diventano oggetto stesso di discussione. Del resto, la storia di un ubriacone buono a nulla diventato vice presidente di un perfetto idiota (George W. Bush, alias Sam Rockwell) a capo di una nazione molto potente (gli USA), insieme al quale è riuscito a giustificare agli occhi dell’opinione pubblica una guerra in un Paese innocente (l’Iraq), sembra già di per sé il soggetto di una farsa imbecille.
McKay (Anchorman - La leggenda di Ron Burgundy, Anchorman 2, Fratellastri a 40 anni) attinge a piene mani dal suo repertorio comico, con una varietà di invenzioni al limite dello stordente, mescola i registri e talvolta lascia che la tragedia irrompa improvvisa. C’è certa ironia alla Michael Moore, senz’altro, e il rimando a Fahrenheit 9/11 è fin troppo scontato. Ma c’è soprattutto Sorrentino. Con il regista partenopeo McKay condivide il gusto per la metafora di grana grossa (Bush preso all’amo dal pescatore Cheney in Vice, la pecora che muore di fronte ai programmi Mediaset in Loro 1), la rappresentazione dai toni forti e sovente grotteschi del potere, l’immediatezza di certe associazioni (il giuramento al Quirinale di Berlusconi accompagnato dagli scossoni del terremoto dell’Aquila; gli echi delle devastazioni in Iraq mentre Bush annuncia l’invasione alla tv). Ma soprattutto i due registi condividono la consapevolezza che un film su un uomo di potere non può che vivere di immense zone d’ombra, lacune, fatti indimostrabili. Ecco perché entrambi scartano e sovvertono l’idea del biopic, allontanandosene vertiginosamente fino a denudarne quell’arbitrarietà di fondo da riutilizzare intelligentemente. Se dunque non sapremo mai che cosa si sono detti Cheney e la moglie Lynne (Amy Adams) nella loro intimità domestica in un momento di importanza cruciale, e dal momento che ogni biografia non è che un’invenzione, perché non far parlare i due coniugi in versi shakespeariani di macbethiana memoria?
Vice finisce così con l’essere non solo e non tanto un film su un politico bensì un’opera sul potere stesso, sulla sua opacità, sulla sua distanza da chi – noi spettatori compresi – non vi ha accesso (Il divo, Loro). Certo, se con i due titoli sorrentiniani abbiamo a che fare con due icone del potere, due divi appunto, e dunque con due film sull’immagine, qui al contrario siamo di fronte a un uomo che agisce esclusivamente nell’ombra, che si mostra pochissimo in pubblico, e di certo non ha né il carisma, né l’arguzia di un Andreotti o di un Berlusconi. Vice resta comunque un’allegoria in cui conta più l’immagine dell’opportunismo dilagante nelle maglie repubblicane dopo il Watergate che la storia di Cheney stesso. Ma è anche una spietata e nerissima attuazione del concetto di self-made man americano – e in questo risulta davvero convincente – per cui il sogno americano si trasforma in incubo nel suo stesso farsi.
Purtroppo, una riflessività più attenta avrebbe senz’altro donato maggior spessore a un’opera che rischia di avvilupparsi in un unico e deliberato – per quanto motivato – attacco su posizioni di per sé condivisibili. Le numerose gag, le diverse trovate comiche rischiano di perdere di efficacia proprio perché non supportate da una vera e profonda voglia di approfondimento. Peccato, perché, limiti a parte, Vice si dimostra un’ottima proposta capace potenzialmente di spiccare il balzo sulla maggior parte dei racconti pseudo politici del suo tempo.