Adattando il romanzo di J. R. Moehringer, George Clooney torna a immergersi in una nuova odissea sentimentale e a deputare alla percezione la capacità di pensare ancora cinema in quei luoghi da sempre estranei a visioni del genere.
Rompere il giocattolo al tempo della nostalgia universale, un gesto filmico auto-distruttivo che sfotte i meccanismi industriali di oggi e ci ricorda che non tutto è fatto per tornare.
Esce ora nelle nostre sale l'esordio al lungometraggio di Gu Xiaogang, primo capitolo di una trilogia che guarda alla tradizione pittorica cinese per addensarne la ricerca del dettaglio e la qualità esplorativa nella sua immagine cinematografica, e dotando quest'ultima della capacità trasformativa del tempo.
Una lucida riflessione sullo stato di salute dell’immagine nell’MCU, ma anche, sottotraccia, il riflesso ambiguo di un panorama opprimente, in cui il cinema appare sempre più laboratoriale e sintetizzato dal lato oscuro dell’algoritmo.
Nell'anti-melò di Ridley Scott le passioni scompaiono, sostituite da manichini di plastica e occhi(ali) senza volto. Cerebrale e coerente: ma vincere l'Oscar così è dura.
Pamphlet apocalittico, satira frontale, ma soprattutto fotografia non troppo deformata di un'umanità indifferente a tutto perché ormai incapace di comprendere sé stessa e affrontare il reale. Adam McKay torna con il suo progetto più ambizioso e disfattista.
Dopo "The Irishman" un altro film sulla morte del cinema come architrave del novecento, ma anche e soprattutto un gesto di vitalità estrema in cui immagini classiche e contemporanee vengono poste a dialogo, ricercando nella storia dell'immaginario una nuova sintesi.
Un'operazione anacronisticamente e orgogliosamente analogica nel bel mezzo dell'era digitale, imperfetta ma totalmente consapevole nel suo rifiuto ostinato delle regole del blockbuster contemporaneo.
L'adolescenza, Napoli, la speranza e il dolore: per la prima volta Paolo Sorrentino rivolge direttamente l’obiettivo verso la propria intimità e il proprio vissuto