Nope

di Saverio Felici
Nope recensione PointBlank

È una maturazione impressionante quanto improvvisa, quella che Nope certifica oggi per il cinema di Jordan Peele.
Al suo miglior film, il regista newyorkese pare volersi finalmente disfare della sua corona da Genio dell'horror "intelligente", frettolosamente consegnatagli (con tanto di Oscar) a seguito di due lavori tanto ambiziosi quanto imperfetti. Get Out era in fondo poco più che un riuscito film-sketch, di evidente matrice televisiva, costruito come un simpatico episodio di Atlanta allungato quattro volte la durata prevista; il seguente US rivelava già una carica immaginifica importante, pur annacquata in un pasticcio di allegorie sociali vetero-romeriane (se Romero avesse maturato la propria visione del mondo leggendo Vox o Buzzfeed). Ciò che sembrava mancare in queste prime opere era proprio la millantata "profondità", come se lo stesso wonder kid non fosse del tutto convinto del ruolo messianico assegnatogli dalla critica mainstream. Peele presenta oggi il suo terzo film come un summer blockbuster, e a dargli retta sembra non aspettasse altro che abbracciare l'anima più rumorosa e popolare del cinema.
Una sconfitta (l'ennesima) per la vecchia compartimentazione tra film d'autore e film commerciali: Nope fa sicuramente parte della seconda categoria - ma è allo stesso tempo più complesso, e dunque più meritevole, di quanto non fossero i due precedenti lavori del regista.

Peele si vede oggi come nuovo Spielberg (o al massimo nuovo Carpenter, suo autore preferito), restauratore di un approccio serio e creativo all'intrattenimento di massa che pareva estintosi nel 1993 – quando tale produzione rappresentava ancora l'apoteosi della visionarietà cinematografica, anziché la sua tomba. Si riprende da dove ci si era interrotti, reclamando un proprio spazio nella continuità della tradizione pop: e così fanno anche i fratelli Haywood (Daniel Kaluuya e Keke Palmer), auto-proclamandosi discendenti del celebre fantino del Sallie Gardner at a Gallop di Muybridge, "prima action star del cinema". I due protagonisti allevano cavalli per i set, e sognano come ogni buon americano la "svolta" della notorietà hollywoodiana. In Nope, questa si palesa nella forma circolare di una misteriosa entità comparsa sopra il ranch - un bad miracle, dannazione e benedizione, ultima possibilità di (ri)entrare nel mondo dello show business dalla porta principale. Un sogno condiviso dai tanti grotteschi personaggi di contorno: il complottista Angel (Perea), l'ex bimbo-attore divenuto imprenditore Jupe Park (Yeun), il DOP superstar Holst (Wincott). Tutti alla ricerca del grande Spettacolo, pronti a gettarvisi dentro le fauci.

Solo poche settimane fa, Robert Eggers scoprì a sue spese la pericolosità della transizione al mainstream, andandosi a schiantare con il blando The Northman. La virata del collega Peele, dall'ormai saturo indie horror contemporaneo verso la sci-fi d'azione, avviene invece con naturalezza abbagliante – come se i precedenti lavori non fossero che un pegno da pagare in vista di questa reincarnazione formato IMAX.
In Nope rivive un'amore d'altri tempi per l'artigianato del blockbuster, espresso in una ricerca quasi scientifica del dettaglio memorabile: dagli effetti sonori usati come personaggi parlanti, al charachter design di un "mostro finale" tra i più originali e inquietanti visti di recente (viene da piangere pensando a come la Marvel, in quindici anni di dominio sul genere, non sia riuscita a crearne uno che si ricordi). E se i riferimenti sono tutto sommato i soliti (con i doverosi omaggi a Evangelion e soprattutto Akira, importante per le nuove generazioni quanto Godzilla lo fu per le precedenti), quasi non ci si accorge della scelta più radicale di tutte: la rinuncia agli anni '80, consegnati infine al passato in favore di una storia pienamente contemporanea.

Nope non nasconde il suo rapporto conflittuale con la storia dell'audiovisivo che lo precede. Si manifesti negli amati eighties della Amblin, o nei dementi nineties delle sitcom, la recrudescenza del passato è un marciume da fare a pezzi, divorare, e togliere finalmente di mezzo. È qui che torna, più forte che mai, il tema chiave della filmografia di Peele: restituire agli Haywood d'America lo status di cinematic royalty sempre sognato, forse inventato, infine conquistato in un personale gran finale di cavalli al galoppo. Riappropriarsi della tradizione cinematografica statunitense, ma nell'unica maniera che conti: non parlando al posto suo, non lanciandosi in didascaliche omelie su questo e quello (lo showbiz vorace, i dannati del sottosuolo, i liberali stronzi) - ma sovvertendo le implicazioni della sua iconografia mitica.

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Jordan Peele Daniel Kaluuya Keke Palmer Michael Winnicot Steven Yeun 135 minuti
USA 2022
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The Gray Man

di Alessio Baronci
The Gray Man - recensione film russo

Quella della nascita dell’House Of Cards di Netflix è, ancora, una delle storie più istruttive per comprendere il contesto del cinema delle piattaforme ed il suo rapporto con noi spettatori. 

A metà tra storia vera ed exploit leggendario, la vulgata afferma infatti che la serie curata, tra gli altri, da David Fincher, e, in prospettiva, ultima grande interpretazione di Kevin Spacey, sia nata come un prodotto in provetta, sintetizzato a partire da quell’algoritmo che gestisce, invisibile, la selezione dei contenuti da proporre ai singoli utenti. Il reparto creativo di Netflix si era in sostanza accorto che il pubblico, in un certo lasso di tempo, aveva valutato positivamente i contenuti legati al genere del thriller politico, aveva guardato migliaia di ore dei film di David Fincher e, soprattutto, nutriva particolare preferenza per tutti quei progetti che avevano per protagonista Kevin Spacey. Con questi dati in mano, il prossimo passaggio non poteva che essere offrire al pubblico un progetto in cui sarebbero finite coinvolte quelle personalità, ma anche quegli immaginari “segnalati” dall’algoritmo.

Stacco. Oggi. Da almeno tre anni Netflix sta lavorando ad una sua personale idea di franchise attraverso cui contrastare lo strapotere di realtà consolidate come Disney e Universal. Ha bisogno di film talmente d’impatto da diventare saghe, esorbitare in spin-off e progetti satellite. Gliene basterebbe anche solo uno ma, da mesi, brancola nel buio, coinvolge decine di registi quotati, spende miliardi di dollari, ma il meglio che gli riesce di ottenere sono deboli “copie di copie”, di immaginari già visti, come accade, tra i molti, con Red Notice, rip-off neanche troppo nascosto dei meccanismi e della sintassi della saga di Fast And Furious. Poi, però, sembra scattare qualcosa.

The Gray Man, lo spy thriller diretto dai fuoriusciti dell’MCU Anthony e Joe Russo pare riuscire dove decine di altri prodotti hanno fallito. La caccia all’uomo globethrotter tra il killer della CIA Sierra Six (Ryan Gosling) e l’assassino prezzolato Lloyd Hansen (Chris Evans), ingaggiato dall’agenzia per impedire al protagonista di divulgare segreti sconvenienti spopola tra gli spettatori e appena una manciata di giorni dopo essere stato distribuito i vertici Netflix annunciano già un sequel e almeno uno spin off legato all’universo narrativo del film.

Eppure si tratta di un risultato su cui è necessario discutere, interrogarsi, perché legato ad un film dal passo indubbiamente incerto. The Gray Man è infatti sicuro nelle parentesi più inattese, quelle in cui la spy story è fuori campo e Gosling/Six pare un eroe quasi da melò, intento a proteggere la figlia del suo mentore mentre in tutti quei momenti in cui dovrebbe mostrare i denti, affondare il colpo, non fa altro che girare in tondo, sviluppare situazioni, scene che non riescono a non appoggiarsi a qualcos’altro, prelevando materiali da spazi coevi, dall’action a livello strada della saga Greengrassiana di Jason Bourne, dagli stunt Tom Cruise in Mission: Impossible, dall’ovvio James Bond ma anche da contesti inusuali, come il mondo gamificato di Call Of Duty o quello classico dello Shining di Kubrick (a cui il film guarda, evidentemente, nell’ultimo scontro tra i due personaggi).

E allora ecco che The Gray Man appare come l’apice più inquietante della guerra di Netflix per il predominio dei nostri sguardi, un film in cui l’algoritmo è sempre, costantemente, in scena e diventa il centro di un processo di assemblaggio che tira in causa spunti, linguaggi, scelte stilistiche e di cast necessari a modellare un prodotto che, semplicemente, deve funzionare a tutti i costi. Quello dei Russo (due che, tra l’altro, sono specialisti nel far dialogare idee di cinema diverse come dimostrano i loro Avengers, punto d’arrivo di dieci anni di sguardi e narrazioni diverse e spesso contraddittorie) è, in buona sostanza un film pensato per non fallire ma a cui in realtà basta appena un passaggio in controtempo, una crepa nello stato delle cose, per andare in mille pezzi.

gray-man-recensione

È un film velocissimo, The Gray Man, ma irrimediabilmente fermo, vittima della sua stessa progettazione al millimetro, talmente timoroso di uscire dal seminato, dal conosciuto da cadere in un’inesorabile prevedibilità o, peggio, di infilarsi da solo in certi pericolosi cul de sac pur di mostrare la sua potenza di fuoco, tra le caotiche riprese con i droni in interni e certe vertiginose, inerti autocitazioni degli stessi Russo, che costruiscono alcune delle sequenze centrali del film a partire da calchi quasi shot by shot di momenti analoghi dei loro lavori in Marvel.

Eppure, malgrado la sua intrinseca debolezza, è indubbio che The Gray Man ponga domande fondamentali (per quanto, certo, scomode, ambigue) che incrociano tanto la nostra identità di spettatori quanto il nostro rapporto con il concetto di gusto.

Riconoscendo, ad esempio, che certe sequenze del film risultino senz’altro d’impatto (primo tra tutti il ritmatissimo inseguimento a Praga che chiude il secondo atto), ci sarebbe ad esempio da discutere sul motivo per cui tali momenti “funzionino” nell’economia del racconto: perché sono effettivamente ben girati, perché i Russo si attengono scrupolosamente ai loro riferimenti, quelli sì, davvero efficaci e ben realizzati oppure perché riconosciamo in esse un modello che ci affascina, che magari in passato ci ha attratto e, come il cane di Pavlov reagiamo positivamente alla sequenza senza preoccuparci della sua scarsa originalità di fondo della stessa?

È una debacle di segni, The Gray Man, talmente irreversibile da portare con sé anche l’orizzonte tematico in cui prende piede, tra la rilettura grottesca di certo action reazionario (ma Tony Scott, tra i molti, ci era già arrivato anni fa) ed una gamificazione degli spazi che pare fare il verso ai maggiori hub digitali del presente (da Warzone a Fortnite) salvo fermarsi un attimo prima del baratro e riconoscere, giocoforza la centralità del loro sistema linguistico.

Nello scrivere, proprio su queste pagine, di Spiderman: No Way Home, si era annotato quanto, proprio in quel finale che, improvvisamente, infilava una sequenza straordinariamente classica in un cinecomic, c’era il presagio di un cinema figlio dell’algoritmo, capace di unire in un solo flusso di immagini linee diversissime e raccogliere in sé tutto i possibili immaginari. Con The Gray Man sembra che siamo già arrivati alla fine apocalittica questa forma mentis quasi Orwelliana, quasi che lo stesso sistema la rigettasse percependone l’aggressività.

Ora, ammesso che si trovi la forza per farlo, non rimane che raccogliere i detriti e ripartire.

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Anthony e Joe Russo Ryan Gosling Chris Evans Ana de Armas Billy Bob Thornton 129 minuti
USA 2022
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Mad God

di Matteo Mazza
Mad God - recensione film Tippett

Trionfa la morte in Mad God, dal primo all’ultimo impulso, dalle parole del testo del Levitico all’ultimo corpo perforato, maciullato, imploso, scartato e, oltre ancora, fino all’ultima scheggia impazzita che attraversa l’occhio di chi guarda. Una danza macabra in tre atti che fagocita ogni speranza e che travolge il tutto svuotandolo di certezze e significati, come si vede nel dipinto di Pieter Bruegel il Vecchio in cui i toni caldi evocano un’atmosfera arida e infernale. Qui invece, nel primo e atteso lungometraggio di Phil Tippett (il progetto nel corso degli ultimi trent’anni ha subito interruzioni e ripartenze), i toni sono freddi, riflesso di elementi ferrosi che convocano la presenza di macchine devastatrici, automi in putrefazione, protesi mutanti che dominano un mondo giunto al collasso, inquinato dalla miseria e dalla disperazione, sfiancato dalla crisi del tempo e dal crollo di ogni ideologia o paradigma di senso. Un mondo di mostri e scienziati pazzi che Tippett compone seguendo uno spartito notturno cupo, privo di consolazione, corrotto e allucinato che irrompe anzitutto nelle convinzioni dello sguardo trafiggendone il suo impianto emotivo e sovvertendone le dinamiche più angoscianti della narrazione dell’immaginario distopico.

La discesa verticale e irrefrenabile nelle viscere di questo mondo oscuro è nient’altro che la proiezione delle inquietudini del terzo millennio, un moto verso il basso ottenuto mescolando visionarietà organica, meccanica cyberpunk, decadentismo e irrazionalità ma è anche un maestoso affresco delle attrazioni capace di coniugare forze contraddittorie e respingenti, genesiache e devastatrici, che violano qualsiasi garanzia di protezione. Un’estetica del brutto, per dirla con Rosenkranz, in cui il brutto si presenta come manifestazione che nega o limita la libertà attraverso l’asimmetria, la difformità o l’assenza di forma, lo sfiguramento ma che non si nasconde dal celebrare modelli e costanti come il cinema di Cronenberg o le macchine di Giger, come Lynch e Bacon, esaltando con amara ironia la fragilità della condizione umana.

Mad God è tutto improntato sugli effetti che genera nello sguardo, sul ricordo del dolore che resta, più che sugli effetti di come lo mostra: attrae e respinge, racconta e interrompe, penetra e espande. Un film spezzato nella sua struttura ma forte dell’energia che accumula per spingere lo spettatore dentro ad un trip allucinato, un viaggio lisergico e sadico, una perfida ossessione splatter con il preciso intento di saturare l’occhio e rendere traumatica la visione e l’esperienza spettatoriale, oggi sempre più impoverita e data per scontata, sempre più contaminata da una forma di atarassia dello sguardo che pare cancellare ogni forma di resistenza al turbamento della separazione dal senso. Realizzato prevalentemente in stop-motion, tecnica integrata con effetti speciali e digitale, il film animato di Tippett (affiancabile al suo cortometraggio Mutant Land, soprattutto nell’epilogo della prima parte quando l’esploratore viene inghiottito inaspettatamente da un mostro) è un’opera abnorme che guarda al dissolvimento di ogni forma di fiducia umana interrogandosi sulla presenza di qualcosa o qualcuno che regola l’universo con indifferenza ma orientando il tutto verso il suo dissolvimento. Mentre gode del suo essere ripugnante Mad God elabora una fenomenologia del putrido che apre un inquietante sguardo verso ambigui e multiformi aspetti del reale. Assuefatti da tanta bruttezza ci ritroviamo sedotti e abbandonati in un incubo senza fine.

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Phil Tippett Alex Cox Niketa Roman Satish Ratakonda 83 minuti
USA, 2021
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Barbara

di Andrea Giangaspero
Barbara - Recensione film Mathieu Amalric

Nel vasto panorama del biopic legato ai grandi personaggi della musica, assistiamo troppo spesso alla pratica avulsa e logora che tenta di stare in piedi sull’accostamento di spettacolarizzazione, di drammatizzazione, e il tentativo di costruzione di calchi, di riproduzione fedele dei tratti dei personaggi che animano quelle biografie. Si tratta ovviamente di una riduzione: il gesto della semplice rappresentazione è una delle configurazioni del cinema (per usare la terminologia di Bertetto), ma alle volte il biopic può proprio servirsi della rimessa in scena per giocare in profondità, scardinare la forma, sostanziare i livelli di realtà. Ed è proprio il caso della Barbara di Mathieu Amalric, modellato sì sulla figura della popolare cantautrice francese omonima, ma che guarda anche e soprattutto altrove, verso altri piani. Del resto, Barbara non è propriamente un film biografico su Barbara (pseudonimo di Monique Andrée Serf), ma un film sulla costruzione di un film biografico su Barbara. C’è una stella del cinema che vestirà i panni della cantante, Brigitte (Jeanne Balibar), e c’è un regista che tenterà di dirigerla, Yves, lo stesso Amalric. Il gesto del reenactment come centro del film porta sempre con sé l’esposizione di una realtà pluridiscorsiva, dove il dato effettuale, ciò che è accaduto, il preordinato, non può ripetersi mai come fedele a sé stesso. C’è un contingente nel presente, nell’atto della riproposizione di un passato, con cui bisogna scendere a patti. Ed è affascinante Barbara proprio per l’evidenza di questo slittamento di livelli.

Non solo Brigitte prende in mano il copione e impara le battute, ma finisce per modificarle, trasforma il tempo dei verbi: lei è Barbara, Barbara dunque vive al presente; non “amava”, bensì “ama”. Non analizza Barbara, la espone – ecco, di nuovo, l’espressione forse più giusta – proiettandone filmati di repertorio che la riproducono su tutte le pareti dell’appartamento, così da carpirne la prossemica, i gesti in forma macroscopica. E in questa appropriazione del corpo (la cui quasi perfetta sovrapposizione di lineamenti a tratti rende irriconoscibile la finzione dai filmati di repertorio), la contingenza della realtà su cui Brigitte tenta il passaggio a Barbara la mette in scacco. Brigitte diventa figura avvolta dell’aura misticheggiante della cantante, pronunciandosi in fulgide e isolate espressioni di genio, ma pure e soprattutto delle sue idiosincrasie. Lo slittamento tra le soglie del ruolo e di sé la conduce a un’erosione interna, fino a interrogare il regista Yves, quasi stigmatizzandolo, sulla natura dell’opera: “E’ un film su Barbara? O su di te?”. Per Yves non fa differenza alcuna, ma fa invece tutta la differenza del mondo per la ricezione delle immagini di Amalric, che torna sempre, da auteur, cinéphile, al potere auratico del dispositivo di dire più della realtà, più di una storia, più di un’immagine.

barbara - mathieu amalric

Già la scelta della cantautrice dice della centralità dell’autoriflessione; i suoi album più importanti prendono il nome, del resto, di Barbara chante Barbara (1964) e Barbara (1996), l’ultimo prima della scomparsa. Amalric-Yves assume come centro di gravità Balibar-Brigitte-Barbara perché della cantante ama il ricordo. Uno in particolare: “una volta mi ha baciato”. Yves lo dice in un sussurro, con timore. Piange di nascosto, vive di quella memoria di gioventù, ascolta incantato Jacques Tournier a proposito del lungo incontro-intervista avuto da questi con l'artista . Al di sopra di Brigitte, c’è quindi la rimessa in scena dettata dal ricordo di Yves, demiurgo, “clown nero” (così si autobattezza l’autore in un post-it); un corpo esterno che tenta di farsi propaggine e infine organo interno di quella storia. Ma il ricordo, un evento, sono irriproducibili, per fortuna di Amalric, che può allora esplorare le conseguenze di questo gesto fallace. “Una volta mi ha baciato”, continua a dire. È l’esposizione del suo sguardo, delle sue remote fantasie, la sua storia, il suo film.

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Mathieu Amalric Mathieu Amalric Jeanne Balibar 98 minuti
Francia 2017
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This Much I Know to Be True

di Gaia Fontanella
rhismuchiknowtobetrue-recensione

Seguito ideale del documentario One more time with feeling del 2016, nel quale ci veniva mostrata l’elaborazione del lutto di Nick Cave per la morte del figlio quindicenne Arthur, il nuovo lavoro di Andrew Dominik si concentra sull’accettazione di quel trauma che sembrava prima insuperabile. Ritroviamo ancora una volta il cantautore australiano accompagnato dal fedele collaboratore Warren Ellis, e se nel primo film ci veniva svelata la dimensione processuale e di registrazione che ha portato alla creazione del malinconico album Skeleton Tree, qui il regista sceglie di mettere in scena la dimensione performativa, restituendoci un concerto privato e confidenziale. Due volti della produzione di Cave strettamente inscindibili e che uniti formano un dittico coeso e olistico che si rende testimonianza di come dal caos generativo si possa raggiungere la compiutezza formale dell’esibizione dal vivo.

This much I know to be true sceglie dunque di concentrasi sull’aspetto più prettamente musicale, lasciando parlare gli splendidi testi delle canzoni che compongono Ghosteen di Nick Cave & The Bad Seeds e il successivo Carnage di Cave ed Ellis. Brani intrisi di spiritualità e di fervore mistico, metafora di una necessaria sublimazione della tristezza; spesso vi si ritrova la presenza di un Dio immanente e salvifico, seppur lontano da un’accezione cattolica. È soprattutto attraverso la scrittura poetica che possiamo tracciare la presa di coscienza del trauma e la cognizione del dolore per la perdita del figlio, che rappresentano la materia biografica di cui è intrisa la sua produzione musicale degli ultimi anni. Ricorrenti nei testi sono i termini peace o peace of mind, segnali di come Cave non sia tanto alla ricerca di una effimera felicità, quanto di una serena accettazione del lutto e della vita. Ed ecco che allora Nick Cave sceglie di dedicarsi ai vivi, alle persone amate che costellano la sua vita: la moglie Susie, il figlio Earl, ma anche Warren Ellis, amico e sodale da trent’anni. Da questa unione artistica e spirituale si genera una testimonianza musicale di grande valore, un concerto impreziosito dalla potente presenza di Marianne Faithfull, nonostante un fisico debilitato dalla malattia che la affligge da anni. La cantante appare in un breve frammento in cui ci offre uno spoken word campionato da Ellis, così come i tre hanno fatto per l’album She Walks in Beauty, pubblicato da Faithfull proprio nel periodo in cui veniva girato questo documentario, nella primavera 2021.

Le performance musicali sono inframmezzate da brevissime interviste a Cave ed Ellis, nelle quali affrontano anche la loro collaborazione, non priva di difficoltà di comunicazione, che li porta a lunghe sessioni caotiche di composizione musicale che culminano in dinamiche di perfetto equilibrio tra gli apporti di entrambi all’opera finale. I momenti più riusciti di This much I know to be true sono proprio quelli in cui la connessione tra i due viene esemplificata dalla stessa esibizione live, nella quale l’uno diventa il contrappunto dell’altro, in una sincronia che si fa quasi rituale religioso, enfatizzato dall’uso delle luci e dalla location scelta, quella di una fabbrica dismessa.

In questo secondo documentario Andrew Dominik abbandona il bianco e nero per il colore, scelta quanto mai appropriata per questa nuova fase della vita del musicista, sceglie però di mantenere le riprese circolari che avevano caratterizzato il primo film, girate con una cinepresa montata su binari che circondano i musicisti. Altra particolarità per fortuna mantenuta è quella dello svelamento metacinematografico, che rende i film non solo dei racconti su Nick Cave, ma anche un’autoriflessione sul mezzo tecnico e sulla registrazione, mostrando i meccanismi, anche finzionali, che si nascondono dietro al prodotto filmico.

This much I know to be true, che prende il titolo da un verso della canzone Balcony Man, è un giusto seguito al film antecedente, ma per sua stessa natura si basa su impianto tematico più debole e ne esce un ritratto meno intimo, più concentrato sulla messa in poetica e messa in musica piuttosto che sulla dimensione umana, che, nelle stesse parole di Cave, è quella fondamentale da ritrovare, al di là dell’impatto artistico.

Ci troviamo perciò davanti a due istantanee di due momenti artistici diversi, che narrano di due periodi distinti eppure connessi, il secondo influenzato anche dalla situazione pandemica e dall’impossibilità di eseguire i concerti dal vivo previsti per il 2021, un’estensione fondamentale nel lavoro di Cave ed Ellis.

Lo spettatore non può non trovarsi a pensare, con la consapevolezza del 2022, che Nick Cave quest’anno si è trovato ad affrontare, ancora una volta, l’esperienza dolorosa della perdita di un figlio, questa volta quella del maggiore Jethro, morto dopo le riprese di This much I know to be true. Questo rende più amara la visione e siamo empaticamente coscienti che l’artista dovrà scendere a patti con il proprio dolore paterno, ritrovandosi a fronteggiare lo stesso percorso di rinascita personale ed emotiva che ha dovuto affrontare nel mai troppo lontano 2016.

 

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Andrew Dominik Nick Cave Warren Ellis Marianne Faithfull 105 minuti
Gran Bretagna, 2022
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One Day, You Will Reach the Sea

di Andrea Vassalle
One-Day-You-Will-Reach-the-Sea-recensione

«Non guardarti indietro». È una delle prime frasi che compaiono fluttuanti nell'onirico incipit di One Day, You Will Reach the Sea, diretto da Ryutaro Nakagawa e presentato al Far East Film Festival 2022, ma è anche uno dei moniti più ricorrenti e nefasti nella nostra cultura. Sono le parole che, nella Genesi, gli angeli rivolgono a Lot dopo la distruzione di Sodoma e Gomorra e soprattutto è la condizione imposta da Persefone a Orfeo per poter condurre l'amata Euridice fuori dagli inferi. Ma esistono anche delle contronarrazioni, o meglio, diverse accezioni, sfumature, punti di vista sensibilmente differenti sulla concezione del passato, come nella cultura giapponese. Un cambio di percezione che emerge iconograficamente e socialmente, attraverso uno dei soggetti più ripresi nelle pitture e nelle stampe nipponiche del diciassettesimo secolo, quello di una donna raffigurata mentre si volta (le Beltà di Hishikawa Moronobu), e con lo Shōwa Day, la festa nazionale (nel giorno della nascita dell'imperatore Hirohito) che più che celebrare il passato invita a guardarsi indietro e riflettere, per proiettarsi poi verso il futuro. È il percorso che segue Mana, la protagonista di One Day, You Will Reach the Sea, che nella prima scena appare proprio di spalle, voltandosi lentamente e svelando il volto rigato dalle lacrime, in un'immagine che si mostra subito eloquente. Il passato verso cui guarda la ragazza è quello che la vedeva in compagnia di Sumire, una compagna di studi, coinquilina ma soprattutto una persona a cui era legata da una forte amicizia, scomparsa nel 2011 in occasione del terremoto e del conseguente maremoto del Tōhoku. Se con il tempo la madre e l'ex fidanzato di Sumire sembrano aver elaborato il lutto, il peso dell'assenza è ancora insostenibile per Mana e opprime il suo presente tra pareti di dolore. Nakagawa sottolinea questa condizione attraverso l'uso quasi totale di scene in interni (fino al momento della svolta) e con inquadrature che comprimono i personaggi, Mana in particolare, sovrastata ad esempio dalla porta della camera dell'amica, che rievoca tutta la sua angoscia. Non può quindi trattenersi dal voltarsi verso il passato, non come via di fuga o per rifugiarvisi, ma per esplorare la mancanza, per rivivere l'intimità di un rapporto che si stava sbiadendo anche prima della morte di Sumire, per rinsaldare ricordi che rischiano di scivolare via. Ma soprattutto perché quel passato fa parte inevitabilmente del suo presente.

Il racconto si dipana attraverso flashback che ripercorrono le tappe della loro amicizia, momenti che si pongono in netto contrasto con le sequenze del presente, caratterizzati da spazi aperti e dalla radiosità di immagini e paesaggi come espressione dello splendore del loro rapporto. Un legame definito non dalle parole, che fluiscono lasciando dietro di sé non detti e velate suggestioni, ma dagli sguardi, dai silenzi, dalle pause, dal loro sfiorarsi casuale e istintivo. Ciò che si crea oltrepassa l'amicizia sino a diventare quasi un amore latente che vive esclusivamente nell'immagine, senza essere pronunciato. Mana sembra prenderne coscienza proprio tramite la rievocazione e l'osservazione del passato ed è anche per questo che il dolore risulta lacerante e apparentemente impossibile da mitigare, a causa di sensazioni irrisolte, arginate prima da una sorta di pudore e da una progressiva lontananza e poi in modo definitivo dallo tsunami. Il percorso di elaborazione passa attraverso una ritrovata consapevolezza e dalla rilettura dei ricordi; un viaggio sia fisico che spirituale che riconduce Mana nel luogo in cui Sumire è scomparsa. È proprio lì, oltrepassando un'imponente barriera bianca, che richiama la grande onda e al tempo stesso simboleggia il suo senso di oppressione, che i fantasmi di Mana trovano pace, di fronte agli spazi illimitati del mare. Nonostante il dramma sia innescato dal mare stesso, esso non viene visto secondo la logica della violenza della natura, quanto piuttosto, seguendo la tradizione giapponese, come l'elemento di forte legame tra la natura e gli esseri viventi. L'acqua e il mare ricorrono spesso in One Day, You Will Reach the Sea, con carrellate a sorvolarlo, ad accompagnare alcuni momenti del rapporto tra le due ragazze e soprattutto nelle due commoventi e oniriche sequenze d'animazione, che esprimono perfettamente il senso di trasformazione e di connessione che è alla base del film e che riguarda anche i vivi e i morti, oltre che il passato e il futuro e la natura e gli esseri viventi. Mana e Sumire sembrano infatti continuare a comunicare anche dopo la morte di quest'ultima, attraverso tempi e spazi differenti, e il loro percorso appare confluente.

One Day, You Will Reach the Sea affronta quindi, dando luce all'anima del Giappone e con una cura dell'immagine, una sensibilità e un'armonia affini a certi anime, il delicato tema dell'elaborazione del lutto, riflesso dalla fase di crescita post-adolescenziale, dalla perdita dell'amicizia, dall'amore inespresso ma legato anche ai ricordi e al lutto nazionale, relativo alla tragedia del Tōhoku. Storia pubblica e privata si intrecciano, a partire dall'ispirazione del regista, che cercava un'occasione per poter riflettere e ripensare (guardarsi indietro, appunto) al dramma che ha colpito il Giappone e a un episodio della sua vita personale. Il film pone anche una riflessione sulla natura dell'immagine, e di conseguenza sul cinema, con la videocamera appartenuta a Sumire e ritrovata dal suo ex fidanzato. Era un oggetto imprescindibile per la ragazza, da cui difficilmente si separava e che utilizzava per riprendere scene quotidiane. Una sorta di secondo punto di vista e di filtro, che la appassionava perché era consapevole che di ciò che ci circonda vediamo solo un lato. Viene osservato dunque il ruolo delle immagini, nel rapporto tra campo e fuori campo, visibile e non visibile; singole finestre sul mondo a cui attribuiamo un significato e che lasciano un segno, come le interviste ai parenti di alcune vittime del maremoto nel finale. È proprio grazie alle immagini ritrovate nella videocamera che vengono colmate le lacune della percezione legata a un unico punto di vista e che il passato di Mana assume una nuova luce. E di conseguenza il suo presente.

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Ryutaro Nakagawa Yukino Kishii Minami Hamabe Ken Mitsuishi Tomoko Nakajima Haya Nakazaki 126 minuti
Giappone, 2022
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Stringimi Forte

di Saverio Felici
Stringimi Forte recensione film Amalric

Con Stringimi Forte (Serre Moi Fort), la dissezione del melodramma avviata negli ultimi lavori da Mathieu Amalric assume la dimensione del manifesto poetico. È ancora un cinema difficile da digerire, che si appoggia al melò solo per metterne in discussione gli assunti; da un lato seduce evocandone le grandi passioni esasperate - dall'altro invita, attraverso una messa in scena sempre più destrutturata, a considerarne l'intrinseca fallacia. Scomponendo e ricomponendo il giocattolo del sentimento, la Tragedia si subordina alla propria rappresentazione: il sogno, la reverie, e il racconto (anche cinematografico) ne sono la materia prima, ancor più che la realtà.
Stringimi Forte porta questo decostruzionismo emozionale fino ai suoi inevitabili confini meta-narrativi. È qui che l'autore affronta infine il gesto creativo in sé, nel suo film paradossalmente più "normale", distante da quell'humus truffautiano a base di scrittori, registi e teatranti che da Lo Stadio di Wimbledon in poi aveva sempre portato in scena. Non più arte o professione, la finzione diventa necessità esistenziale, struttura invisibile anche della sofferenza più pura: il lutto familiare.

Stringimi Forte è allora a suo modo ancor più estremo di quanto già lo fosse la stordente raffinatezza al neon di Barbara, il precedente meta-biopic del 2017. Lì, la messa in scena confondeva i piani, suggerendo una sostanziale coesistenza tra oggetto reale (la cantante protagonista) e sognato (la stessa cantante come immaginata dalla troupe al lavoro sulla biografia). In Serre Moi Fort la vittoria dell'atto creativo sulla realtà è espressa, al contrario, dal suo allontanarvisi: le illusioni dalla protagonista Clarisse (Vicky Krieps), che fugge di casa immaginando la vita dei familiari rimasti indietro, reclamano ora una propria esistenza materiale, indipendente da quella della sua autrice.
Su queste strade perdute del dolore, l'allucinazione o la fantasticheria formano allora un secondo film parallelo e complementare a quello "vero". Spargendo sul letto le polaroid della propria vita passata, come il regista Yves-Amalric di Barbara scombinava costantemente i post-it con le scene del suo film in lavorazione, Clarisse esplicita la propria natura demiurgica: è regista del proprio film, madre-matrice di un'altra realtà con cui pure interagisce, dando istruzioni, e guidandola a vita propria. All'oblio auto-annullante del kieslowskiano Film Blu (modello abbastanza evidente), contrappone l'esercizio attivo del re-immaginare, per mettere ordine nel delirio del dolore.

Stringimi Forte è allora il film più estremo e al contempo accessibile della filmografia recente di Amalric. La frantumazione del reale nelle sue componenti psicanalitiche (presente-sogno-ricordo) supera qui l'ambizione surrealista di sorprendere, verso una rinnovata linearità armonica; non più libero di perdersi, il frammento è ora ordinato in una partitura. Come nelle sinfonie che dettano i tempi del film, scale e accordi si ripresentano in una struttura al contempo logica e umorale, che non improvvisa, ma insiste e rielabora metodica i suoi stessi elementi  (come la mente della protagonista espande, migliora, arricchisce la realtà sognata). 
È allora un cinema il cui impatto emotivo non è drogato dal virtuosismo, ma vive anzi del suo continuo mettersi in gioco, restituendo il sangue all'arte stantia del melodramma. Lezioso? Forse: è un limite, o forse una caratteristica, di molti film dell'autore, piccoli bijou onirici poco interessati a sviluppare le proprie fantasiose intuizioni. Tale compito è assegnato allo spettatore, chiamato a confrontarsi con una filmografia sempre più consapevole, tesa ad espandere le possibilità espressive del cinema come poche oggi.

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Mathieu Amalric Vicky Krieps Arieh Worthalter Anne-Sophie Bowen-Chatet Sacha Ardilly 97 minuti
Francia 2021
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Non sarai sola

di Gaia Fontanella
nonsaraisola-recensione

Fin dalla sua nascita il genere horror si è nutrito delle leggende e dei miti, rielaborando e riattualizzando le storie del folklore delle più disparate tradizioni, ma è dagli anni ’60 che assistiamo alla genesi di un vero e proprio sottogenere decodificato, quello del folk horror, la cui storiografia è ben descritta nel documentario del 2021 Woodlands Dark and Days Bewitched: A History of Folk Horror di Kier-La Janisse. Molti registi hanno tratto linfa vitale e creativa rivolgendosi a un passato mitico, ricco di misticismo e folklore, da usare come specchio e metafora per la contemporaneità. Il genere è caratterizzato da elementi ricorrenti: prima di tutto un’ambientazione rurale all’interno della quale si scatena il potere magico e oscuro della natura, osteggiato da un fanatismo religioso che spinge le piccole comunità a rinchiudersi in loro stesse e a continuare a perpetrare riti ancestrali che trasfigurano la superstizione in follia.
In Occidente questo genere è stato sfruttato inizialmente soprattutto in Europa, basti pensare a due iconici esempi: nel Regno Unito The Wicker Man di Robin Hardy del 1973 e in Repubblica Ceca Valerie and Her Week of Wonders di Jaromil Jireš del 1970. Dal Vecchio Continente il genere in voga giunge presto negli Stati Uniti, dove si sviluppa attingendo largamente ai capitoli più oscuri della storia locale, quella caccia alle streghe che ha caratterizzato il nord-est del paese a partire dal 1647, raggiungendo il suo apice con il processo di Salem, Massachusetts.
L’archetipo della strega come creatura notturna dedita a pratiche di magia nera nasce e si diffonde nel solco di comunità contadine arretrate culturalmente, la cui ossessione religiosa le porta a identificare come streghe tutte le donne non conformi ai dettami patriarcali che le relegavano a un ruolo subalterno e domestico. Questa attinenza con la condizione femminile odierna rende dunque la strega un personaggio ideale attorno al quale costruire storie attuali dal substrato politico e sociale, capaci di rendersi interpreti di dibattiti pubblici tanto cogenti in questo periodo storico.

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In questo alveo si inserisce Non sarai sola (You Won’t Be Alone), primo lungometraggio del regista australiano di origine macedone Goran Stolevski, presentato con successo al Sundance Film Festival nei gennaio del 2022.
Protagonista è Nevena (Sara Klimoska), le cui vicende ci vengono mostrate fin dalla nascita, quando viene marchiata dalla strega Maria che la vuole per sé, spingendo la madre della bambina a nasconderla per quindici anni in una grotta, riducendola a uno stato ferale che ne impedisce persino lo sviluppo delle facoltà linguistiche, tratto peculiare della dimensione umana. La strega riesce a ritrovare Nevena e da qui si dipana la narrazione di un apprendistato esoterico che avvicina la protagonista a pratiche sovrannaturali quali la trasformazione  in animali o in altre persone, citando così uno dei poteri maggiormente attribuiti alla figura prototipica della strega. Cornice imprescindibile è quella agreste di un villaggio rurale della campagna macedone del XIX secolo, nel quale la donna è isolata nella dimensione casalinga e familiare, vittima di un cattolicesimo costringente e obbligante, reso ancora più evidente dalla natura libera e anarchica delle streghe, capaci di vivere la propria condizione femminile e la propria sessualità con sfrontatezza e orgoglio. You won’t be alone è infatti costruito interamente intorno alla forza delle molteplici donne che costellano il racconto filmico, in una sfida continua ai ruoli di genere imposti, completamente ribaltati da Nevena, che si fa via via sempre più consapevole e orgogliosa della propria energia sovversiva. In questo senso il film di Stolevski sembra un coming of age, un classico racconto di formazione che segue la progressiva presa di coscienza da parte della giovanissima Nevena della propria individualità e del proprio ruolo nel mondo, attraverso la sperimentazione magica e l’azione sul campo.

Ai più non sarà sfuggita una certa assonanza con un’altra pellicola che mette al suo centro una giovane strega in cerca di affrancamento, il ben più noto The Witch del 2015, diretto da Robert Eggers. Il paragone non è certamente peregrino, sembra anzi fin troppo evidente che Stolevski abbia preso grande ispirazione dall’opera prima del regista statunitense, cercando di ricreare quelle atmosfere sospese tra sogno e realtà che sono una delle cifre stilistiche del cinema di Eggers. Questo macroscopico precedente rende perciò meno originale e più derivativo il discorso di Stolesvki, generando un confronto dal quale non può che uscirne sconfitto: non solo da un punto di vista tematico, ma soprattutto a causa di un allestimento narrativo che lo rende a tratti ripetitivo, mostrando così i limiti di un film che ha voluto imbastire una trattazione troppo ambiziosa.

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Probabilmente alla base di questa dissonanza c’è una ricostruzione poggiata su elementi folkloristici troppo generici, perché  Stolevski stesso ha ammesso di non aver fatto riferimento a precise leggende locali, ma di essersi piuttosto affidato a una messa in scena ispirata alla figura universalmente condivisa della strega, cosa che se da un lato la rende comprensibile ad ogni latitudine, dall’altro la rende astratta e, di conseguenza, vaga e poco circostanziata, togliendo così uno dei parametri basilari del folk horror, quel hic et nunc che dà tutta la profondità e l’irripetibilità di una storia.
You Won’t Be Alone risente dunque di difetti ontologici di scrittura, ma è innegabile che il regista sia comunque riuscito a creare una pellicola che riesce a dialogare con la contemporaneità e che non è eccessivamente influenzata dai pochi mezzi economici a disposizione, con una buona impalcatura tecnica che lo rende appetibile anche a pubblici internazionali; questo grazie anche alla presenza di Noomi Rapace, qui in veste di produttrice e di attrice in un ruolo secondario, che ha aiutato nella risonanza mediatica e nel più ampio respiro globale di cui ha beneficiato.
A margine, viene piuttosto naturale, a partire da questo film macedone, fare una riflessione sulla situazione italiana del cinema di genere, che potrebbe fruttuosamente attingere a una tradizione folkloristica ricca di miti orrorifici per rivitalizzare la propria presenza nelle sale nazionali.

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Goran Stolevski Noomi Rapace Sara Klimoska Anamaria Marinca Alice Englert 108 minuti
Australia, 2022
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Revolution Of Our Times

di Andrea Giangaspero
Revolution of our times - recensione film Kiwi Chow

È un’opera totalmente, integralmente militante, Revolution of our times. Se la sua materia è l’accesa rivoluzione che ha investito oltre due milioni di hongkonghesi contro la politica liberticida del governo – culminata con l’estradizione dei condannati verso la Cina, nel febbraio 2019, e un azzeramento sostanziale degli accordi sino-britannici –, il regista Kiwi Chow decide di non adoperare una lenta immersione dentro di essa, né concede alle immagini e allo spettatore alcun temporeggiamento. Le didascalie sovrimpresse nei primi secondi sono già una descrizione sufficiente per poter poi procedere speditamente verso le oltre due ore e mezza del montato. È già rivoluzione, e bisogna comunicarlo con un’urgenza feroce. “Revolution of our times” era ed è persino il motto di questa rivoluzione; implica che, da subito e sempre, lo sguardo di Kiwi Chow sia schierato, non super partes, o comunque neanche intenzionato a osservare le implicazioni, a offrire congetture a proposito delle mosse del governo. La Cina sta riallungando la sua mano sulla città-stato e su Taiwan, e non ha mantenuto la promessa sul suffragio universale discussa oltre dieci anni prima. Come a dire: “non c’è spazio per le mediazioni e le meditazioni”.

La mole di immagini è esorbitante, prodotta non solo dal regista, appunto militante e di quella folla partecipe, ma dalla convergenza di una infinità di altre macchine, videocamere, smartphone, soprattutto action cam disposte sugli elmetti. Da qui, ha pienamente senso che sui titoli di coda si faccia prima di tutto menzione di “A film by hongkonghers”. La pluralità di sguardi partecipativi dà sostanza e fisicità alla pluralità della rivoluzione. Kiwi Chow non può fare uso delle riprese delle videocamere di sorveglianza che catturano la brutalità della polizia, ma ovunque c’è un occhio pronto a offrire il suo sguardo e dare visibilità al non visto, per strada, sul tetto, dietro un parapetto improvvisato. Forse non c’è titolo che sia stato montato su una pluralità di vedute così capillare. Di minuto in minuto si moltiplicano le immagini che riproducono un’azione e una reazione tra loro sempre molto simili: il lancio dei lacrimogeni e la difesa con gli ombrelli; quindi la fuga convulsa, l’arrivo delle auto nel tentativo di mettere in salvo gli animi più riottosi, e lo svuotamento delle strade che mostra sempre uno scenario di distruzione e desolazione. Nella loro somma e nella loro somiglianza, d’altra parte emerge anche l’impressione di un accumulo confuso, rispetto al quale una direzione è offerta solo dalle didascalie e dalle interviste che tentano di raccogliere episodicamente le immagini.

revolution of our times

I corpi e i volti dei protagonisti sono spesso sostituiti con quelli di attori, perché messi in fuga, o finiti in prigione, o persino dispersi. E forse questo è un bene per la resa patetica dell’opera, che ha ovviamente una funzione, una missione da assolvere, cioè tenere assieme, aggregare, dare in fiamme una prateria partendo da una scintilla (come dirà, alla Mao Zedong, uno dei protagonisti), dopo che il grande spirito della rivoluzione pare essersi affievolito, a seguito della disfatta dell’occupazione del Politecnico. È giusto che sia il cinema il luogo deputato a questa riaccensione e moltiplicazione. L’afflato della grande epopea incalza e si diffonde, chiaramente, sul finale, in cui la colonna sonora si fa più presente, più lirica e tragica. Il rastrellamento si capovolge nel commiato, nel pianto disperato, e poi ancora nell’invocazione di un trionfo futuro. Kiwi Chow monta le immagini di un popolo che canta e suona come un’unica grande banda, alzando al cielo il grido di una “rivoluzione dei nostri tempi”, come Petra Costa in Edge of Democracy (2019), quando aveva reso quasi apocalitticamente le invocazioni alla speranza che l’ex presidente del Brasile Lula rivolgeva verso il suo popolo in lacrime.

E se a fungere da baluardo della libertà diventano, in ultimo, le conquiste e la vicinanza geografica ed empatica di Taiwan, il cui rischio di uno scacco da parte della Cina resta dietro l’angolo, non vi è allora dubbio che questo brivido moltiplichi lo spessore delle immagini, le renda più esposte, più impellenti, più partecipate, la loro assimilazione più necessaria.

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Kiwi Chow 152 minuti
Hong Kong
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Alizava

di Matteo Berardini
Alizava - recensione film

Ci sono alcuni uomini, per lo più anziani, mani e volti scolpiti dalla polvere e dal tempo speso nel lavoro, che siedono in circolo su un terreno sabbioso; di quella terra uno di loro prende una manciata, se ne riempie le mani a coppa, la passa al suo vicino affinché faccia altrettanto e così via, circolarmente, in un gesto che si ripete uguale a sé stesso. Ma di mano in mano la terra che viene trasmessa diventa sempre meno, ogni passaggio ne erode la quantità, assottigliandola a pochi ultimi grani di sabbia. Come la memoria.
Alizava, mediometraggio d’esordio dell’artista lituano Andrius Žemaitis, inizia così, attraverso i gesti di un rituale antico in cui il passaggio della terra evoca la necessità di condividere la memoria nonostante ogni passaggio di consegne – dei ricordi, delle storie, della Storia – comporti in quanto tale una disgregazione e venir meno della forma mnestica delle cose. Nutrendosi di questa contraddizione il rituale finisce per generare processi di memoria alternativi, come l’evocazione del padre della protagonista, la piccola e bionda Alizava, il cui genitore, per quanto scomparso, permane come presenza incarnandosi via via, sotto forma di voce narrante, negli oggetti che circondano la quotidianità nuova della figlia: una radio, un orologio, un vecchio cassettone colmo di lavori realizzati in una scuola popolata di fantasmi. Ogni transizione diventa il tentativo di un dialogo, di riattualizzare una presenza, di rientrare a far parte della vita orfana di Alizava, che adesso vive sola con uno dei suoi nonni, un massiccio operaio con il quale condivide il ventre di un’escavatrice divenuto casa e piccolo mondo a due. Attraverso la trasfigurazione delle forme e del tempo offerti dalle griglie del cinema sperimentale, Žemaitis mette per immagini il racconto della piccola Alizava e della sua solitudine, fino al momento in cui il rituale che ha risvegliato lo spirito del padre apre le porte ad altre voci, altri volti, spiriti che colmano un vuoto.

Vincitore del Premio della Giuria SNCCI alla 58° edizione della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di PesaroAlizava si muove lungo due linee che s’intrecciano, e dal cui incontro, come fosse la chiusura di un circuito elettrico, scaturisce il ritorno di questi fantasmi appartenenti a un passato indefinito. Lungo il percorso seguiamo la protagonista nella sua routine scolastica, nel suo abitare lo spazio che la circonda, trasfigurato in sede di giochi e balletti ed esplorazioni. Ma, nella lente posta da Žemaitis, la scuola di Alizava è un edificio vuoto popolato da vestigia del passato, che siano foto, insetti essiccati o carapaci, e degli altri bambini restano solo sedie vuote e cartellini nominali scritti a penna, mentre lo spazio circostante diventa una terra desolata, terrigna e fangosa, sventrata dai lavori di estrazione, e al cui centro domina la figura gargantuesca e meccanica di questa escavatrice-casa, ambiente baleniero il cui ventre è fatto di ingranaggi, ruote dentate e soffi di vapore. Una sorta di luna-park per Alizava e il nonno, che Žemaitis rappresenta con un gusto di decadenza fantascientifica e formalità grottesca che oscilla tra il Brazil di Terry Gilliam e l’animazione di Jan Švankmajer. Mentre l’esterno richiama Tarkovskij e la sua capacità di creare mondi altri partendo dalla natura e dal paesaggio modificato.

All’interno di queste coordinate, tra miniere di argilla che annullano l’identità dell’ambiente e spazi quotidiani che si svuotano e diventano museo delle tracce e delle memorie, Žemaitis incrocia i percorsi di padre e figlia e chiude con l’evocazione concreta del rimosso, del dimenticato, a partire da un balletto intitolato “Reincarnazione”. Il tutto attraverso immagini impresse su un magnifico 16mm, abitato dai contrasti innescati dalla chioma bionda di Alizava e il fango umido del terreno, la morbidezza della luce sospesa sugli oggetti e stanze vuote, e il ruvido senso del tempo stampato sul volto dei personaggi iniziali.

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Andrius Žemaitis 40 minuti
Lituania 2021
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