A River Runs, Turns, Erases, Replaces

di Andrea Giangaspero
A river runs turns erases replaces - recensione film Shengze Zhu

Tutte le immagini del film di Shengze Zhu si pongono in sostanziale equilibrio tra loro, per fissità, per immoto rigore e insieme semplicità della messa in quadro, per quello che mostrano al loro interno. Ma ce n’è una che forse sta più avanti delle altre, dice più delle altre. Come in altri momenti sparsi di A River Runs, Turns, Erases, Replaces, le parole di una testimonianza diaristica (o di una lettera) appaiono sovrimpresse al centro dell’inquadratura, rivolgendosi alle persone care scomparse a causa della pandemia. Soltanto che qui, ancor più semplicemente, un figlio sta ricordando al padre defunto della sua passione per le architetture e le strutture dei ponti. Siamo a Wuhan, nel 2019, e c’è un abisso tra la città che ha conosciuto il padre in gioventù e quella che ha visto la maturazione del figlio nel ventunesimo secolo.

“Quando tornerai ci sarà un nuovo ponte sul fiume Yangtze”, avrebbe detto il padre estatico al figlio in partenza per gli Stati Uniti. Ma, come tutti, i due non hanno tenuto conto della pandemia imminente. “Papà, ho visto il nuovo ponte. È giallo, bellissimo. Ma tu dove sei?” Dicevamo che il punto è proprio qui. Il film di Shengze Zhu non è il primo e non sarà di certo l’ultimo a raccontare per immagini il processo trasformativo accelerato della Cina di oggi. Naturalmente, c’è la Sesta Generazione di autori cinesi alle spalle, specie Jia Zhangke; mentre in forma simile ma meno documentaristica sta lavorando Gu Xiaogang, con la trilogia di Dwelling in the Fuchun Mountains. E se è vero che non si tratta di un risvolto nuovo, originale, perlomeno la prospettiva di Shengze di incrociare il biennio pandemico col tema topico del cinema cinese acuisce di molto lo scarto con le sue immagini del passato.

a river runs - recensione film shengze zhu

Wuhan non è soltanto la megalopoli iper-evoluta, dove i ponti si moltiplicano e le escavatrici fanno spazio a nuovi edifici monolitici in ferro e cemento. È anche un luogo svuotato della sua componente umana, o meglio della sua visibilità. Le telecamere di sorveglianza sulla pubblica piazza mostrano uno spazio che si ripopola di mese in mese, ma con una sorta di reticenza sospetta nella originaria ricomposizione di sé. Il trattamento dell’emergenza pandemica – lo sappiamo bene – è stato un po’ la chiave di una più ferrea politica di regime in Cina. E Shengze opera in questo senso tenendo il proprio dispositivo fisso su spazi detritici, su quelli oggetti di smottamento e rialzamento, dove la presenza in campo lungo di corpi in solitaria, protesi contro le acque del fiume Yangtze o nascosti sotto i colonnati giganteschi dei ponti, restituisce l’immagine di un paesaggio livido, lunare, ferito, per lunghi tratti fantasmatico, nell’ovatta grigia dello smog che ne nasconde quasi per intero le forme.

A chi appartiene questo spazio che si svuota e trascolora in una luce diafana, se non alla custodia memoriale dello Yangtze? Il movimento costante delle acque del fiume annulla lo sforzo atletico di un nuotatore di risalirlo, spingendolo placidamente nel senso del suo scorrimento; procede con la stessa cadenza di sempre all’osservazione imperturbata della trasformazione apocalittica che gli sta attorno. Come fa il tempo, di cui poi è manifestazione. Orizzontale, monocorde, senza occlusione, è la destinazione naturale verso cui volge lo sguardo affranto dei personaggi invisibili di Shengze. La loro memoria sta lì dentro, nell’evocazione atrabiliare di piccoli rituali di condivisione e amore (anche questi invisibili, solo raccontati). E per quanto il fiume proceda, cancelli e sostituisca (come recita il titolo internazionale) alla sua eradicazione sfugge almeno il nitore del ricordo. Mentre la luce artificiale dei neon che gli sta sopra, decorazione multicolore dell’ultimo ponte gigantesco altrimenti invisibile, mostra la via per un paesaggio disumanato, a suo modo transumano.

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Shengze Zhu 87 minuti
Cina 2021
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L'immensità

di Leonardo Strano
L'immensità recensione film crialese

È curioso che al centro del progetto della propria vita, il progetto inseguito per molti anni e aspettato per la ricerca di una giusta misura, di una giusta distanza con cui raccontare il proprio dramma, Emanuele Crialese abbia messo una figura rubata a piene mani ad altri immaginari espressivi. Senza i giusti paratestiL’immensità potrebbe infatti sembrare una sorta di elogio alla figura almodovariana di Penelope Cruz più che la storia sentitamente autobiografica di Adriana, bambina desiderosa di diventare altro (nello specifico di diventare Andrea), in una Roma anni ’70 spaccata tra la conservazione dello status – di genere e di classe, tra padri padroni e quartieri formati sulle bonifiche delle zone operaie – e l’affacciarsi di un mondo nuovo, segnalato, ad esempio, dal promettente avanguardismo di certa televisione fatta da Raffaela Carrà. Il film si dichiara fin da subito (dal materiale promozionale) come pensato e articolato sul volto dell’attrice, intorno alla sua figura, e non fa sforzi per nascondere l’indebitamento con il suo divismo, anzi, ci investe il proprio mondo, il proprio immaginario e le proprie soluzioni di senso. È il corpo fluido e multiforme di Cruz (e non il punto di vista di Adriana/Andrea, con cui entriamo nel film) a mettere in movimento gli scontri tra dimensioni su cui è costruito il film: quello tra la realtà controllata dal maschilismo tossico dei padri e dal bigottismo delle istituzioni conservatrici (casa patriarcale, chiesa, mondo del lavoro) e il mondo immaginifico e aperto della società televisiva, alternativa utopica di liberazione identitaria; ma anche quello tra il mondo degli adulti, chiusi nelle loro regole e nelle loro posture socialmente accettate, e l’universo dei bambini, abitato dall’immaginazione e dalla possibilità. 

Cruz funziona come una figura capace di viaggiare tra le dimensioni, un corpo adulto (l'attrice interpreta Clara, la madre di Adriana, picchiata dal marito violento) che abita i territori giocosi dell’infanzia, un’immagine che attraversa le cornici e si ritrova dall’altro lato dello schermo (assorbendo addirittura l’immagine in bianco e nero della Carrà); una figura quindi in grado di tematizzare il possibile rovesciamento dell’educazione costrittiva dei padri padroni in un mondo libero da costrizioni repressive e imposizioni generazionali. La scelta di imperniare sull’attrice l’idea di una contro storia dell’immaginario collettivo italiano anni 70 - in cui le immagini disinibite della televisione emergono come un contropotere al conservatorismo asfittico, responsabile della bonifica delle imperfezioni e delle eccentricità -  funziona però fino a un certo punto, genera squilibri narrativi (fatali, per questo cinema bisognoso di narrazione lucida) e non permette al film di raggiungere né lo stato di affresco sociale con cui dare immagine sintetica di un’epoca, né la sottigliezza psicologica necessaria per raccontare la complessità emotiva e sensoriale provata dal personaggio principale, Adri. Il suo dramma, dichiarato a priori come il punto di ingresso teorico nel film ma rappresentato quasi solo per accenni, rimane per tutto il film un’occasione non approfondita, una storia possibile tra le tante raccontate, quasi dimenticata in un angolo in attesa di ricevere priorità in sede drammaturgica. 

A nulla servono metafore approssimative (come quella della natura aliena del personaggio di Adri) o gli innesti narrativi (l’incontro con una bambina di un quartiere operaio): la complessità della storia della bambina non è mai resa attraverso un lavoro sull'interprete (non c'è lavoro sul volto e sul corpo ancora androgino di Luana Giuliani), sulle sfumature di senso, sulle distanze tra rappresentazione e personaggi (si pensi a un film come Tomboy, strutturato in maniera diversa ma simile nei punti di ingresso narrativi); piuttosto, viene evasa con l’accostamento continuo di monolitiche scene madri, che tutto riescono a fare – magari anche esaltare emotivamente con sottolineature concettuali in grana grossa - tranne che costruire il respiro orizzontale di un’unità-film, necessaria per sviluppare la profondità delle psicologie. Scene costruite ad hoc tagliano continuamente il piano narrativo cercando di produrre verticalità spettacolari (sono molte quelle che cercano “il momento”, su tutte la messa che si trasforma in concerto pop), ma mancano completamente di annodare le linee narrative che Crialese vorrebbe costruire in parallelo - le pulsioni individuali di Adri e le forme di repressione sociale collettiva – lasciando quindi sospese le questioni principali  in un descrittivismo di costume che spesso si accontenta di soluzioni approssimative. Tutta la passione che può certo provenire e proviene dall’urgenza autobiografica si appanna così sotto scelte di comodo, che fanno molto rumore e non trovano nessun accordo intonato. 

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Emanuele Crialese Penélope Cruz Luana Giuliani Vincenzo Amato Elena Arvigo 97 minuti
Italia 2022
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Watcher

di Gaia Fontanella
Watcher recensione film

La regista statunitense Chloe Okuno, che si era già fatta superficialmente conoscere con un episodio della raccolta horror V/H/S/94, si presenta al grande pubblico con il suo primo lungometraggio, presentato quest’anno al Sundance. Il titolo, Watcher, è una dichiarazione d’intenti: si tratta di un nuovo esponente di quel prolifico filone del genere thriller psicologico in cui l’atto del guardare è al centro della narrazione, e che vede ne La finestra sul cortile il suo rappresentante più celebre. Così come nella pellicola di Hitchcock, anche qui il confine tra l’atto (apparentemente) innocente del guardare e l’atto invasivo dello spiare si fa sempre più labile.

Protagonista della vicenda è Julia, appena trasferitasi da New York a Bucarest a causa del nuovo lavoro del marito Francis, di origini rumene. La donna si ritrova isolata in una città sconosciuta, nella quale non conosce nessuno e con una barriera linguistica che le impedisce di comunicare. La sensazione di straniamento viene acuita dal ritrovamento nel quartiere del cadavere di una donna, vittima di un serial killer che da tempo affligge la città, ma soprattutto dallo scoprire che un uomo la fissa con insistenza da una finestra del palazzo di fronte. Da qui inizia una spirale discendente nella paranoia, che porta Julia alla convinzione di essere seguita e perseguitata; se all’inizio il marito le dà credito, con il passare dei giorni diventa sempre più scettico, così come la polizia, che si accontenta di un controllo sbrigativo che non porta a nulla.
Okuno costruisce bene i meccanismi che fanno crescere la tensione, portando anche noi spettatori a dubitare della veridicità delle convinzioni della protagonista, conducendoci al paradosso estremo: e se fosse invece Julia a spiare inconsapevolmente il vicino?

La tematica centrale è quella della credibilità di una donna che si sente oppressa da un uomo, una questione cardinale della contemporaneità, in cui spesso l’affidabilità della vittima viene messa in discussione. Lo stalking e il gaslighting ben si prestano alla fabbricazione narrativa di un thriller, che, nelle pieghe della subdola manipolazione psicologica, permette di immedesimarsi nella crescente paura ansiogena provata dalla protagonista. Okuno focalizza l’attenzione sulla dimensione scopica, l’attrazione fatale generata dal voyeurismo e spesso accompagnata da un’ossessione mortifera, come nel caposaldo del genere L’occhio che uccide di Michael Powell; scopofilia e inquietudine si intersecano, facendosi trama e ordito di un tessuto filmico se non originale, sicuramente intrigante e avvincente, che rende la visione scorrevole. La regista ha dichiarato di essersi ispirata a Roman Polanski, ma se in Rosemary’s Baby è l’appartamento stesso a divenire minaccioso, portando il terrore dentro la dimensione domestica, in Watcher la casa è, invece, il luogo protetto dal pericolo esterno. E se nel film del 1968 il marito è assente, lo è a causa del suo coinvolgimento, qui diversamente lo è per una pecca di sceneggiatura, che lo porta a lavorare convenientemente fino a orari improbabili.

Il personaggio di Julia è interpretato in modo convincente da Maika Monroe, che già si era fatta apprezzare in It Follows e The Guest, tra i migliori horror degli ultimi anni. Le fa da contraltare un ottimo Burn Gorman, il cui volto da caratterista contribuisce molto a rafforzare le atmosfere perturbanti, come spesso è riuscito a fare nel corso della sua lunga carriera. Altra protagonista imprescindibile è la città di Bucarest, che aiuta largamente nella costruzione della sensazione di alienazione e isolamento che attanaglia Julia, facendosi via via sempre più ostile e minacciosa. La scelta di ambientare la storia nella capitale rumena, anche se derivante da un budget troppo ristretto per poterla girare a New York, come inizialmente voluto, è stata sicuramente vincente, aggiungendo così un piano di complessità inedito. Lo stile scelto per la regia rimanda chiaramente a Fincher, lavorando in modo minimale, asciutto ed essenziale, puntando su un’eleganza asettica che lavora di concerto con la sceneggiatura. Il finale forse pecca di prevedibilità, ma è anche decisamente funzionale al messaggio che Okuno vuole veicolare, preferendo una via più battuta ma al contempo urgentemente reale e attuale.

Watcher si inserisce dunque a pieno titolo in quelle correnti thriller che meglio si prestano a fare da fondamenta a una riflessione sulla vessazione della condizione femminile odierna, nella quale la vittima viene sminuita e tacciata di isteria, portando molte volte alle conseguenze estreme e drammatiche di cui troppo spesso leggiamo nella cronaca nera dei quotidiani.

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Chloe Okuno Maika Monroe Burn Gorman Karl Glusman 96 minuti
USA 2022
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Anhell69

di Andreina Di Sanzo
anhell69-recensione

Sinfonia urbana e, come dice lo stesso autore, film trans, Anhell69 percorre le notti di Medellín, capitale violenta ma anche incendiata da corpi che danzano come fantasmi notturni per opporsi a quel “regime” che vuole schiacciarli. Il primo lungometraggio di Theo Montoya, a metà tra diario intimo e documentario sulla città colombiana, è un urlo di vita ma allo stesso tempo un canto funebre per chi, come il protagonista che aveva scelto per il suo film, non è sopravvissuto a quella ribellione nelle viscere della metropoli madre e matrigna. Anhell69 è infatti il nickname sui social di Camilo Najar, il ragazzo morto di overdose a una settimana dal provino che gli avrebbe dato il ruolo di protagonista nel film di Montoya. Ma non è dedicato solo a lui; insieme a Camilo, il regista ha perso diversi amici e conoscenti, sintomi di un momento in cui disperazione e ribellione per un ambiente così ostile generano inevitabilmente vittime. I diversi intervistati parlano quasi tutti di una città e una nazione che ha vissuto senza figure paterne, una cultura portata avanti dalle madri che hanno dovuto crescere questa generazione senza uomini che, fuggiti o morti, hanno abbandonato tutto sulle loro spalle. Sullo sfondo invece i ricordi di una figura maschile ingombrante come quella di Pablo Escobar che ha modificato le sorti del paese.

I corpi che si muovono e si avvinghiano nei party illegali sono il motore di una sorta di movimento libero che non si piega a chi non li accetta, la notte con i suoi fantasmi diventa arma espressiva e luogo dove i vivi e i morti coesistono. Perché in origine il film doveva essere un proprio B-movie sui fantasmi che vagano nella notte di Medellín accoppiandosi con i vivi. I neon, le luci stroboscopiche e l’atmosfera promiscua, contrastano i momenti in cui vengono intervistati i ragazzi che prenderanno parte al film, illuminati e malinconici nei racconti della loro infanzia.

Difficilmente classificabile, quello di Montoya è un lavoro sul fare cinema, l’arte della spectrophilia per eccellenza, e su come questo rappresenti per il regista/autore un’ancora salvifica e un atto di ribellione. Presentato alla Settimana Internazionale della Critica di Venezia 2022.

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Theo Montoya Camilo Najar Sergio Pérez Juan Pérez Alejandro Hincapié 75 minuti
Colombia, Romania, Francia, Germania 2022
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Bardo, falsa crónica de unas cuantas verdades

di Matteo Berardini
Bardo - recensione film inarritu

C’è un momento di Rumore bianco – presentato come questo Iñárritu in concorso a Venezia 79 in cui alcuni professori universitari, ritratti con sarcastica cattiveria nei loro avviluppi narcisistici, confessano di soffermarsi spesso a immaginare il proprio funerale, pur sapendo che di tali fantasie si alimentano i tratti più vanesi del loro egocentrismo. È un piacere innegabile e perverso chiedersi quali coreografie e rituali innescherà la propria assenza tra amici, estimatori, colleghi e avversari. Uno dei tanti modi di fare della propria mente un mondo, e sé stessi il centro. Bardo, falsa crónica de unas cuantas verdades, , non è altro che tale fantasia ipertrofizzata a dimensioni gargantuesche, incontenibilmente autoindulgenti, onnicomprensive, sviluppata nel tentativo, clamorosamente fallito, di far dialogare la rappresentazione immaginifica delle idiosincrasie personali con il trauma collettivo della nazione, il Messico, nel suo rapporto dolente con Europa e Stati Uniti in termini di immigrazione, povertà, conquista militare e genocidio. Ma quello di Alejandro González Iñárritu è un cinema troppo abituato a pensarsi in termini di performance, di applauso, troppo innamorato di sé e dei propri difetti per riuscire a rivoltare l’autoanalisi in discorso pubblico. Solo immaginare che in queste immagini vi sia peso politico, che da questa finta e ombelicale epica del privato sia possibile trarre pensiero complesso riguardo il pubblico, è pura fantascienza, una chimera di aspirazioni mal riposte, confusamente fuori traiettoria e masturbatoria.

Giunto al culmine del suo potere produttivo e commerciale, dopo una carriera insensatamente omaggiata e con pochi, davvero troppo pochi, momenti di verità, dolore, efficacia di un’espressione per immagini che non sia sforzo tecnico esibito, Iñárritu cerca di fare il suo Otto e mezzo, il suo film-mondo, ma quello che solo gli riesce è fraintendere Fellini e scambiare l’autoanalisi con l’autocompiacimento, l’intelligenza poetica con l’esibizione virtuosistica, facendo un film-mente a immagine di sé e sé solo, che non prevede alcun rapporto con lo spettatore che non sia nei termini di indulgenza, ammirazione, riconoscimento filiale del genio.
Bardo è la storia di un giornalista messicano che, avendo avuto successo negli Stati Uniti come documentarista politico e di denuncia, si trasferisce negli USA per vivere e lavorare, fino a che la principale associazione di categoria del paese non decide di dedicargli un Premio alla carriera, giustificato in realtà da motivazioni politiche (Amazon è sul punto di privatizzare la parte settentrionale del Messico, la premiazione del protagonista alter ego di Iñárritu serve quindi a preparare il necessario terreno culturale a quest’acquisizione). Da questa circostanza si avvia il film, un viaggio onirico lungo tre ore, al confine tra ricordo e metafisica, allucinazione e sogno, in cui il desiderio di Iñárritu, indubbiamente sincero, di mettersi a nudo, svelando insicurezze e paranoie, ossessioni e limiti – come già faceva Birdman, assai vicino a questo per il ruolo svolto dalla sindrome dell’impostore – non si libera mai dal bisogno impellente di imporre allo spettatore una sola direzione di sguardo, rivolta su di sé e sé solo.

C’è una scena esemplificativa di tale contraddizione, e riguarda un dialogo tra il protagonista e un suo opponente, nella quale, meta-cinematograficamente, si rinfaccia all’alter ego del regista una serie di soluzioni formali fin lì applicate da Iñárritu stesso e parte quindi del film visto sino a quel momento sullo schermo. Sembrerebbe autocritica ma è solo autoindulgenza, perché Iñárritu si rimprovera solamente aspetti superficiali, didascalici, che sembrano esser stati inseriti apposta per sorreggere questo momento auto-confessionale, mentre le basi del suo cinema restano non solo intoccate ma rilanciate esponenzialmente dalle due ore successive di visione. Il film cerca così di affrontare il rapporto tra realtà e finzione, ego e dato di realtà, dramma personale e stato psichico della nazione, ma il tutto è dispiegato con superficialità sconfortante e reiterata inconsistenza. Oltre che l’eccesso onanistico di tecnica, struttura, presenza autoriale, il problema qui è la portata della riflessione messa in campo, che non regge il colpo di nessun eccesso stilistico perché è anima spenta di un film nato vecchio, inerte. Restano brevi momenti di confronto familiare attorno al protagonista, attimi di verità nel guardare e nel sentire i personaggi, ma c’è tutto un film da perdonare, dimenticare, subire, per riuscire a costruire su di essi una qualunque relazione empatica, qualunque legame spettatoriale. La verità è che siamo intrusi, Iñárritu non prevede la presenza del pubblico e forse neanche la desidera; è un cinema che non costruisce spazi da abitare ma palchi su cui esibirsi, a misura per un unico inquilino, demiurgo e architetto di sé stesso e del suo sguardo.

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Alejandro González Iñárritu Daniel Giménez Cacho Griselda Siciliani 174 minuti
Messico 2022
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Blonde

di Matteo Berardini
Blonde - recensine film pb

«Body is reality», ricorda Crimes of the future nel tornare all’immanenza della carne, presenza essenziale nei processi umani di realtà, adattamento, sopravvivenza. Tuttavia, replica Blonde, «human body is meant to be seen»: essere visti o non essere, tertium non datur. Carne/sguardo, corpo/immagine. Aporia liminare.
Il primo a parlare con Norma Jeane Mortenson, nome di battesimo di Marylin Monroe, del potere certificante dello sguardo è Charles Chaplin Jr., mentre assieme a un altro junior e figlio negletto, erede di Edward G. Robinson, definiscono il campo del loro erotismo gemellare. Nel sesso i corpi si specchiano e guardano, deviano in forme visive distorte, curvature della carne tra Francis Bacon e David Lynch. Carne/sguardo, corpo/immagine.

Essere visti però significa anche accettare di esporsi all’altro, offrirsi, perché guardare è una forma di controllo e il soggetto guardato è sempre, in qualche forma, detenuto. Occorre una barriera che ci aiuti a sopravvivere all’erosione provocata dallo sguardo, dobbiamo erigere forme di difesa. Un doppio, magari. È qui che da Norma Jeane nasce Marylin, mitosi inseparabile, cronenberghiana di ritorno, in un film che gestisce il corpo come tessuto poroso, membrana fragile osservabile fin nei segni tracciati dai torrenti venosi, nell’intimità lunare.
L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford era già un film sul doppio, un pendolo oscillante tra due poli in cui ogni passaggio segnava il lento avverarsi di un desiderio di morte. Blonde, ritorno di Andrew Dominik al biopic trasfigurato, al racconto del mito nella sua corrispondenza e trascendenza mediale, riprende il tema e lo interiorizza: non più entità separate, Jesse e Robert, ma uno sdoppiamento interno al soggetto, una trasfigurazione quotidiana. Marylin Monroe non è altro che il tentativo di Norma Jeane di creare il suo ritratto di Dorian Grey, un’icona alter ego che possa filtrare gli effetti tossici e pervasivi dell’esposizione mediale, a partire da quello sguardo maschile esercitato in forme adoranti, penetranti, onnicomprensive, bocche deformate e occhi famelici. Norma Jeane si illude, ha bisogno di crederlo, che la membrana possa essere sufficiente; lo sguardo, però, è un filo a piombo incurante.

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Potremmo definire Blonde un film di archeologia mediale, un lavoro di scavo tecnologico che resuscita reperti-immagine per offrirsi come film-mondo, opera mediale totale.
A un primo livello, Blonde è un film archeologico perché crea un ipertesto di immagini operanti storicamente, un fiume che si muove avanti e indietro nel tempo mescolando tracce eterogenee: cartoline, fotogrammi cinematografici, locandine, foto storiche e calendari, tutto collima nel flusso offerto dal film, gestito come un incubo ad alto tasso mediale. Ma questa successione ellittica, che balza da una ricostruzione filologica all’altra, non ha nulla del calco serigrafico. Blonde non nasce per rimuovere i depositi e gli strati iconografici e riportare alla luce l’umano. La gestione archeologica dei materiali serve piuttosto a lavorare dentro l’immagine, non oltre, perché per Dominik la dimensione umana del corpo più visto del ‘900, immortalato, voluto, stilizzato, è in sé una chimera, una mise en abyme di rappresentazioni cucite tra loro in un prontuario di cultura pop. Marylin è la sagoma liminare di processi di riproduzione meccanica e mercificazione del corpo che riguardano l’intero novecento: "Andy Warhol, Marilyn Monroe, 1967, serigrafia a colori". Prima e dopo la morte, come si fa a sopravvivere a ciò? a tornare umani?
Di qui il secondo spunto archeologico, il come dopo il cosa se volete: la volontà di rendersi film-mondo. Scartata l’opzione narrativa della ricostruzione psicologica, Dominik decide di concentrarsi sul sistema mediale in quanto tale, rete di dispositivi onnicomprensivi e demiurgici, aprendo il film alla collisione interna di formati, soluzioni cromatiche, stili di regia, punti macchina possibili e impossibili, un’emulsione continua delle più diverse frequenze appartenenti allo spettro cinematografico.

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Combinando assieme questi due livelli di archeologia mediale – la raccolta eterogenea dei materiali e dei linguaggi, nel tentativo di rendere il film un riflesso dell’intera mediasfera – Dominik sembra trasformare il romanzo di Joyce Carol Oates in un meccanismo clinico, freddamente strumentale, ed è indubbio che il film rischi di operare addosso e contro Marylin in modo simile a quanto fatto dalle precedenti forme di spettacolarizzazione. Si pensi ai diversi eccessi che punteggiano il film, dalla scena presidenziale alla malagestione morale e visiva del tema della gravidanza, scelte con cui Dominik sembra dirci che il solo esito possibile per un film simile sia fagocitare sé stesso, sabotarsi internamente, come se il peccato originale della partecipazione alla sfera mediale vada scontato con un’espansione senza controllo. Ma il dato reale offerto dalla visione, questa restituzione di una vita che viene musealizzata nel momento stesso del suo farsi, offre altre prospettive, genera, nonostante l’impianto di partenza del film, dolore.

Uno dei grandi meriti di Blonde è il riuscire, in piena contraddizione alla sua natura cerebrale, ad offrire allo spettatore forme autentiche e profonde di disperazione, umanità, grazie al fatto di mostrare come per Norma Jeane non ci sia possibilità di fuga da Marylin, come oggi ancora non si possa pensare Norma Jeane se non nei termini di Marylin. Per questo Ana de Armas, che è bravissima, è sempre e comunque immagine, mai persona, perché l’obiettivo è produrre empatia mostrando non un dietro le quinte ma uno specchio che riflette l’icona stilizzata e nel processo si incrina, con uno stridio tra soggetto e immagine che genera dolore elettrico, inquieto, in un corpo che vuole scomparire mentre tutto il mondo osserva. Di qui l’intuizione che sorregge il film, e che fa sì che si possa ricevere e accettare Blonde pur nei suoi intenti incontrollati e autodistruttivi, ovvero l’identificazione tra saturazione di sguardo mediale e presenza maschile, una sovrapposizione di istanze per cui il corpo di Norma Jeane - Marylin è, e deve, risultare sempre e totalmente accessibile. In questi termini va letta l’ossessione scopica cui è soggetto il personaggio, un abuso patriarcale che deriva dal monopolio maschile dell’atto del guardare – con tutto il controllo che ne deriva. Per questo tutti gli uomini che Norma Jeane incontra nella sua vita agiscono con l’intenzione di ricoprire ogni ruolo disponibile: amanti, mariti, padri, tutto contemporaneamente, saturando lo spettro emozionale della donna al pari di quanto fanno i media, onnipresenti nell’ambiente che la, e ci, circonda.

Blonde è in tal senso un lungo resistere all’assedio, un film che sfida e provoca, opera grandi intuizioni e comunque perde il controllo, cedendo anche a soluzioni inaccettabili – il peso politico del feto parlante è estremo, soprattutto oggi alla luce della sentenza della Corte Costituzionale. Tuttavia proprio il suo carattere irrisolto, deforme, chiama al confronto e scomoda lo spettatore, nell’ambizione sfrenata di contenere, risolvere e contemporaneamente incarnare l’inferno mediale. Viene in mente la battuta finale di un altro film Netflix, pronunciata da un attore-regista che diede a Marylin il suo momento di rivalsa e ruolo migliore: «shoot 'em, shoot ‘em dead!».

 

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Andrew Dominik Ana de Armas Adrien Brody Bobby Cannavale Julianne Nicholson 166 minuti
USA 2022
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Dogborn

di Andreina Di Sanzo
dogborn-recensione

Due gemelli siriani senzatetto (la rapper svedese Silvana Imam e Philip Oros) cercano un posto dove dormire e un’occasione per venire fuori da un’esistenza da invisibili. Quando si presenta l’opportunità di un lavoro e un posto per vivere, i due ragazzi dovranno decidere fin dove saranno disposti a spingersi per avere una vita migliore.

In concorso alla Settimana Internazionale della Critica di Venezia 2022, Dogborn è un dramma freddo che affronta un tema doloroso e a tratti difficile da guardare. Isabella Carbonell realizza, dopo una serie di corti, il suo primo lungometraggio che si muove tra il viaggio di formazione e il thriller, i toni sono raggelati dall’utilizzo del neon e la violenza cresce pari passo con l’emancipazione dei due da quel mondo oscuro e deviato. Quando i fratelli realizzano di dover trasportare ragazze costrette a prostituirsi, il loro rapporto così simbiotico inizia ad avere delle fratture. Due anime così diverse eppure così legate, mentre lei è una furia e manifesta la sua rabbia contro tutti, suo fratello è chiuso in sé stesso, in un mondo di silenzi e danza. Se all’inizio si dimostrano collaborativi, appena realizzano che la discesa agli inferi è più profonda di quanto sembra, cambiano rotta. La ragazza fraternizza con una giovanissima prostituta e il loro piano di vendetta diventa sempre più furioso: si ribellano ai soprusi con le loro forze.

Dogborn è un film che sa essere tanto toccante quanto spietato e buio. La tenerezza che si instaura tra i deboli (i gemelli, le ragazze costrette a vendere il loro corpo) è tanto profonda e opposta al modo in cui vengono presentati e “puniti” i malfattori. I colori forti, l’uso del neon e le ambientazioni notturne creano un’atmosfera oscura che porta lo spettatore all’interno di un mondo che nessuno vorrebbe conoscere mai. Un film commovente che sa raccontare come anche la disperazione possa metterci di fronte a noi stessi e rappresentare un’occasione di rinascita.

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Isabella Carbonell Silvana Imam Philip Oros 84 minuti
Svezia 2022
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The Eternal Daughter

di Matteo Berardini
The Eternal Daughter - recensione film

Tra i processi che accomunano il cinema e la memoria vi è la capacità di entrambi di risemantizzare lo spazio. Quando un’immagine o un ricordo abitano un luogo lo infestano, trasfigurano, ridisegnandone significati precedenti e donandone di nuovi. Il cinema si impossessa degli spazi in cui si manifesta, li fa propri; la memoria modifica la percezione del luogo esperito, lo soggettivizza. Chi ha vissuto o guardato uno spazio nel suo tornare a quel luogo non sarà più lo stesso, e forse neanche al sicuro: «l’eerie è costituito da un fallimento di assenza o un fallimento di presenza. La sensazione di eerie si verifica quando c’è qualcosa dove non dovrebbe esserci niente, o quando non c’è niente dove invece dovrebbe esserci qualcosa» [Mark Fisher].
Possiamo chiamare cinema eerie, quindi, quello in cui immagine-memoria-spazio prendono parte allo stesso grumo, falliscono assieme nei rapporti di presenza e assenza: sono luoghi su schermo che richiamano le memorie fisiche del singolo e quelle immaginarie del gruppo, affinché si possa subirle come fantasmi o magari custodirle come verità rivelate. La Dead Valley. Via Veneto. Times Square. Overlook Hotel: redrum, redrum, MURDER.

Che poco conti la distinzione, nel cinema eerie, tra luoghi generati dalla fisica o dal cinema, lo dimostra The Eternal Daughter, ennesimo film in cui il catalizzatore memoriale di un evento traumatico viene individuato in un luogo abitato dal fantasma cinematografico dell’Overlook Hotel. Non siamo mai usciti da Shining: che si tratti del reenactment di Doctor Sleep, della riscrittura digitale di Ready Player One, il video-saggio Room 237 o i primi video di deepfake, con Jack Nicholson trasfigurato in Jim Carrey, quello di Kubrick è ancora oggi lo spazio per eccellenza in cui l’immagine dimostra di riscrivere il reale, farlo proprio propagando significato.

Ambientato in un resort d’epoca sepolto nella campagna scozzese, tra alberi scheletrici, fitta bruma e perenni gocciolii d’umidità sui prati e le finestre, il film di Joanna Hogg prende spunto da un racconto di fantasmi scritto da Kipling, Loro, nel quale lo scrittore elabora la morte della figlia immaginando un personaggio smarrirsi in una dimora isolata  e abitata da personaggi serafici incarnanti memorie perdute. Per Hogg invece il viaggio riguarda madre e figlia, e il loro è un ritorno alla vecchia casa di famiglia, divenuta appunto resort, con l’obiettivo di liberare i ricordi incastonati in quello spazio.
Data l’impostazione da cinema di genere, Hogg gira un racconto di fantasmi all’inglese dalla fattura impeccabile, rigoroso ed estremamente efficace nelle sue soluzioni espressive, figlio del miglior gotico cinematografico e letterario, dalle immagini di Jack Clayton ai racconti di Robert Aickman. Ma se è di cinema eerie che si tratta, e di spazi cinematografici che ritornano come fantasmi carichi di senso, è perché Hogg ambienta il film in un Overlook Hotel virato al gotico, evidente nelle architetture e atmosfere, con tanto di custode di colore dalla saggezza preziosa. E la riconfigurazione non finisce qui: la camera in cui alloggiano madre e figlia non ha un numero ma un nome proprio, e quel nome è Rosebud, il meno casuale nella storia del cinema. Rosebud è il ricordo, la scheggia di memoria sepolta nel castello di Xanadu infestato dal passato, l’unico elemento in grado di sciogliere l’enigma e avvicinare la verità. E ancora, Psyco, il doppio, perché madre e figlia sono entrambe interpretate da Tilda Swinton, e la regia di Hogg intrappola i due personaggi, versione invecchiata e al naturale dell’attrice, in un regime di campo-controcampo dai confini ben delineati, per il quale non vi è mai contatto tra i due personaggi, nessun avvicinamento, nessuna condivisione dell’inquadratura, solo raccordi di sguardo che non presuppongono nessuna continuità di spazio-tempo e anzi insinuano il sospetto di una costante frattura. Un passo a due in cui il fallimento di presenze e assenze si manifesta in tanti piccoli “errori” di montaggio e continuità, tra azioni ripetute, personaggi dalle posizioni invertite, dislocazioni spaziali di piccoli oggetti, manifestazioni eerie attraverso le quali il film esplora il rapporto tra immagine-memoria-spazio, le mille infiltrazioni e sovrapposizioni, il progressivo avvicinarsi nell’elaborazione del trauma, verso il momento in cui il cinema permette la sintesi tra i due opposti, l’avvenire del contatto impossibile.

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Poteva essere un’opera rigidamente cerebrale, The Eternal Daughter, un meccanismo arido e formalmente imbalsamato, congelato nell’ambra della cinefilia più intellettuale, ma questo non accade, il film si dispiega di fronte allo spettatore, lo attira al suo interno in termini di spazio e poi lo ingaggia sul piano del significato, offrendo terreni di interpretazione senza schemi esatti, lontani dalle griglie di senso conclusa in sé stesse. Inoltre, ad animare il cortocircuito spaziale tra immaginario e memoria vi è un rapporto famigliare esplorato con estrema sincerità ed efficacia; come nel dittico The Souvenir, Hogg mescola scrittura e impulso autobiografico, crea una sua alter ego e rilancia in abisso i livelli di rappresentazione, traendone un’emulsione con la quale affondare nel profondo della relazione messa in scena, dentro le intercapedini più dolorose e le piccole ossessioni.

C’è una frase, di David Foster Wallace, che è facile citare ed è facile veder citata. Cediamo alla tentazione: «ogni storia d’amore è una storia di fantasmi». Specie in un cinema eerie, dove il gioco di assenze e presenze ricostruisce in forma complessa e perturbante i legami basilari dell’umano. Filiazioni e genitorialità. Questione di spazi e di spettri.

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Joanna Hogg Tilda Swinton Joseph Mydell Carly-Sophia Davies 96 minuti
UK, USA 2022
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Il maestro giardiniere

di Leonardo Strano
Master Gardener - recensione film schrader

C’è una scena, in Master Gardener, dove Paul Schrader rimette in gioco tutto il suo cinema. In realtà si tratta giusto di una frase, accennata quasi con disinteresse dal personaggio di Joel Edgerton (Narvel Roth, giardiniere in cerca di redenzione dopo un passato di violenza efferata) nei confronti di quello interpretato da Quintessa Swindell (Maya, ragazza in fuga dalle proprie dipendenze e motore di quella possibile redenzione), quando i due si trovano all’interno di un parco e sono sul punto di affrontare i segreti dei rispettivi passati: «E poi di là c’è il giardino giapponese». È in questo breve cenno, apparentemente banale e circostanziale, e invece pietra di inciampo per la disattenzione con cui spesso si interpretano le categorie su cui lavora questo regista (su tutti l’ossessiva ripetizione degli stessi segni e delle stesse soluzioni drammaturgiche) - interessato come ormai quasi nessuno a fare ancora un cinema di idee, di pensiero, contro tutte le pressioni conformiste e omogeneizzanti, contro tutte le tendenze e i compromessi -, ecco è in questo segno che Schrader annuncia il suo film non solo come la chiusura di una trilogia sul cinema trascendentale (composta anche da First Reformed e The Card Counter), a cinquant’anni dalla tesi di laurea sullo stesso tema, e non solo come il possibile bilancio conclusivo di una carriera intera, ma più nello specifico come un inaspettato gesto di smitizzazione (simile per molti versi a quello compiuto con The Irishman da Scorsese rispetto all’epica del racconto mafioso), o meglio, di abbandono dei propri codici di riferimento, che si rivela essere anche commovente rivendicazione identitaria. 

La storia e l’impostazione figurativa di Master Gardener in apparenza non sembrerebbero muovere a favore di questa tesi, anzi: fin dalle prime controllatissime immagini Schrader sembra considerare il personaggio di Narvel Roth come una figura speculare ai personaggi costruiti in precedenza, l’ennesima estrinsecazione narrativa delle teorie sul formalismo trascendentale, l’ennesima occasione di argomentazione per esponenti. A guardare bene però (questo è un cinema da guardare con attenzione, un cinema di abissi mascherati da superfici, pieno di depressioni concettuali nascoste nel dettaglio) sono molti i segni e gli strappi che avvertono di uno slittamento fuori dai moduli con cui il regista ha impostato il cinema della trascendenza – la frase sopra è solo uno di questi, un inside joke che incuriosisce su quale configurazione estetico-botanica sarebbe propria di Schrader, regista da sempre disinteressato sia all’esperienza estetica del teatro, propria del barocco giardino francese tutto quinte e simmetrie, sia al sincretismo pittoresco proprio invece del giardino all’inglese, sintesi tra neoclassicismo e naturalismo. Che dire, ad esempio, della grandiosa inversione a U con cui a un certo punto il regista ribalta i presupposti di teologia dialettica bressoniani - quelli secondo cui non c’è salvezza redentiva se non in una rivelazione che è esterna a questo mondo – operando la riscrittura dell’iconografia della cacciata dall’Eden con cui il film sembrava essere rigidamente impostato fino a un certo punto (con il personaggio di Norma, interpretato da Sigourney Weaver, padrona del giardino che scaccia i due novelli Adamo ed Eva dal giardino di sua proprietà)?

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Ultimo di una serie di momenti di rottura degli schemi derivativi (tra cui spicca l’abbandono, tramite sfogo di Narvel, del modulo narrativo diaristico solitamente usuale nel regista), la riconfigurazione concettuale della cacciata – apparentemente confermata, poi invece annullata e rivista nella sua dimensione di contratto sociale (se per Adamo ed Eva nel racconto biblico la caduta corrisponde all’inizio del lavoro, nel film i personaggi protagonisti si garantiscono la permanenza nel giardino edenico proprio mediante l’assunzione di lavoro contrattualizzato) – genera un’immagine totalmente nuova non solo nel cinema di Schrader (mai pienamente redentivo), ma proprio nel senso lato del termine: un’immagine non ancora vista, un’immagine assoluta, nel senso etimologico di “sciolta dal resto”. È l’immagine di Narvel e Maya nel giardino, l’immagine che territorializza la loro redenzione, segno di un’avvenuta, compiuta, non più solo utopicamente sognata, appropriazione umana di uno spazio di salvezza. Quest’immagine mai vista, quest’immagine redentiva, non è impronta visibile di un’invisibilità trascendentale (come appunto insegna il formalismo) ma è rivoluzione concreta dei programmi del destino e infatti giunge a conclusione come punto apicale della metafora del giardinaggio con cui è costruito il film (“il giardinaggio è possibilità di un futuro”); questa stessa immagine non indica più solo una matrice costitutiva, un’origine di provenienza (“è di là il giardino giapponese”), ma si distanzia dalla propria genetica con una ferma decisione d’identità (“è di là il giardino giapponese, ma non ci andremo, la nostra storia si compie altrove”), che illumina Master Gardener oltre le formule esponenziali della ripetizione, trasportandolo nel territorio delle confessioni private e universali a un tempo, che superano anche la raffinata teoria sul cinema. 

Mentre danzano nel porticato soleggiato, nella casa che conquistano ribaltando il destino di sofferenza e disfatta a cui sembravano destinati, i personaggi di Narvel e Maya non sono più elementi espressivi del linguaggio formalista, quella lingua morta riabitata da Schrader fuori tempo massimo (culturalmente parlando) per rompere con lo stato di progressiva virtualità delle immagini contemporanee (cercando ripetizioni segniche non smaterializzanti ma capaci di creare segni materici, analogici): sono elementi di una lingua viva, corpi concreti, figure libere da qualsiasi determinismo narrativo e concettuale, segni di una salvezza disponibile anche dentro al tempo e di un perdono che si compie nel mondo pur essendo per definizione fuori da ogni sua logica (l’immagine libera finale è innescata da questo nel film, un perdono impossibile che però si compie). Negli ultimi momenti di Master Gardener, Schrader si concede questa salvezza e questo perdono irreale come conquista personalissima in cui identificarsi, desiderio di pace fuori da ogni forma imposta e momento di intensità privato confessato quasi con timidezza, almeno per una volta, almeno per una piccola storia. Nel cinema non c’è niente di più vicino a una preghiera. 

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Paul Schrader Joel Edgerton Sigourney Weaver Quintessa Swindell 107 minuti
USA 2022
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Bones and All

di Leonardo Strano
Bones and All - recensione film guadagnino

Quando Bones and All si apre con le immagini di alcune pareti pitturate, per poi passare a una serie di interni vuoti rigidamente prospettici e infine alla plastica di un corpo in movimento, è chiaro che per Luca Guadagnino il cinema è ormai questo: uno scarto di dimensione, una messa in profondità degli schemi figurativi codificati, un momento di ripensamento critico degli immaginari attraverso gli strumenti del medium.
Questa volta a essere messo in crisi è il cinema americano nella sua grammatica di base, nelle sue quinte sceniche, nel suo paesaggio (le piane collinari del Midwest anni 80) apparentemente piatto, spoglio e senza corpi, e invece pieno di corpi rimossi, ridotti a virtualità marginali, appesi al bordo di territori inospitali. Da vero e proprio “maestro del sospetto” (non sono forse i suoi film tutti esercizi di sospetto teorico verso gli schemi predefiniti?) Guadagnino non crede alla presunta superficialità del paesaggio rurale statunitense e infatti rintraccia nella sua immagine apparentemente bidimensionale uno scorcio concettuale di profondità inattesa: gli bastano poche inquadrature per rileggere un territorio non molto tradotto in immagine – il cinema americano anni 80 è soprattutto un cinema urbano – in un esemplare spazio concettuale stretto tra il presentimento di morte del road movie anni 70 (La rabbia giovane, Un tranquillo weekend di paura) e la dichiarazione del trauma degli anni 90 (il thriller erotico); uno spazio sintomatico, infestato da ombre impalpabili, spettri mortiferi (quelli che investiranno i sensi e la sessualità nei decenni successivi) ancora allo stato di invisibilità e in attesa di essere assegnati a dei corpi. 

Questi corpi Guadagnino li trova nel romanzo di Camille DeAngelis – dove cercare un pubblico possibile se non nella dimensione teen, l’unico segmento demografico ancora sensibile al divismo? – e subito li istanzia come chiave espressiva, oltre che narrativa (è la storia di Maren e Lee, due giovani diseredati dal mondo, in fuga da un passato di violenza, uniti dall’amore reciproco e dal cannibalismo a cui sono per natura condannati), con cui problematizzare il paesaggio e rivelarlo come un luogo del rimosso. Il lavoro “critofilmico” sull’immagine a questo proposito non consiste più in uno sforzo grafico (come nei passati cortocircuiti tra Fassbinder e Visconti) e neanche nel dissolvimento della scatola scenica operato attraverso continue rotture delle cornici definitorie (come era stato in We are who we are dove era messa a tema la grafia di Pialat), ma nella riduzione di tutte le distrazioni a favore dell’ingresso in scena del corpo e delle sue sensazioni, e quindi nella semplificazione della stessa scatola scenica a pochi elementi espressivi – il colore, inspessito o sfumato per tradurre in visione i volumi luminosi, e il movimento, ridotto al minimo, per massimizzare il tempo e il ritmo interno tra questi volumi -, controllati per fare brillare il corpo in tutta la sua presenza sensoriale.

Se Chiamami col tuo nome individuava nel corpo una matrice di ambiguità di senso e di sentimento, questo film, che è che lo specchio di quello tratto da Aciman (uno specchio che ha aggiunto le rifrazioni di Suspiria), riprende il discorso e lo potenzia, fino a riconoscere nell’oggetto corporeo non solo un catalizzatore di ambiguità sensoriali ma un punto di indistinzione morale in cui l’amore e la morte coincidono, anzi collassano – è il minimo per un film in cui l’orgasmo coincide con il decesso, il sentimento è una condanna, e il massimo atto di amore è l’appropriazione della carne altrui, letteralmente un cannibal love. È intorno al peso di questo oggetto moralmente indistinto che le inquadrature “semplici” di Guadagnino fanno spazio, riducendo i marcatori di stile al punto da diventare quasi leggerissime membrane pronte a spaccarsi alla minima onda d’urto; ed è sempre intorno a questo oggetto estraneo, questo corpo dell’orrore, che il paesaggio americano finalmente si riarticola, staccandosi propria illusoria amenità senza profondo e senza ambiguo, rivelandosi invece sfondo ideologico e ricettacolo di un inconscio culturale, teatro di una violenza complessa, tanto più endemica, sofferta e disperata quanto non elaborata.
Da questo slittamento non si torna indietro, come mostra il controfinale: dopo che la virtualità del rimosso si è accesa in materia fatta di carne e sangue – Guadagnino prova ancora di essere uno dei pochi registi contemporanei interessati all’esperienza percettiva della pelle – , l'innocenza non può che essere un sogno, una pura visione, questa sì, fuori dalla dimensione del tempo e del trauma, un puro sospiro.

Categoria
Luca Guadagnino Timothée Chalamet Taylor Russell Mark Rylance Micheal Stuhlbarg 130 minuti
USA 2022
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