Margini

di Matteo Berardini
margini recensione film

Nel 2017 usciva in Italia un libro importante per gli amanti del gioco di ruolo, scritto da Vanni Santoni e ambientato nei meandri della provincia toscana. Il titolo, La stanza profonda, evoca quello spazio, tra il fisico e il mentale, in cui rifugiarsi in gruppo e creare collettivamente, condividendo cartografie e coordinate di mondi immaginari grazie ai quali sia possibile rifuggire l’astenia e l’immobilità della vita di provincia. È il racconto di quando si preferisce vivere ai margini, in quelle strette zone liminari che si riesce a strappare alla quotidianità più ingessata, pigramente tradizionalista, asettica. Margini, italiano in concorso alla SIC di Venezia79, è anche il titolo del primo film di Niccolò Falsetti, regista di seconda unità per i Manetti Bros., tra Coliandro e Diabolik, che con questa commedia punk scalcagnata e accorata ci ricorda come esistano non uno ma mille tipi di stanze profonde, mille luoghi in cui la vita, specie quella adolescenziale e della prima adultità, viene vissuta nei termini di assedio e resistenza, in un rapporto tensivo con il luogo in cui si nasce e si impara ad amare. Che sia uno scantinato dove condurre campagne di Dungeons & Dragons o una saletta prove in cui suonare e vivere il punk, in attesa della grande occasione.

Siamo nell’estate del 2008, quando chi ha iniziato gli studi superiori tra immagini del G8 e delle Torri Gemelle inizia ad affacciarsi al mondo adulto; si avvicinano i momenti delle scelte e degli addii, specie per Edoardo e Jacopo, che assieme al più grande Michele condividono il punk come band, stile di vita e sogno di riscatto. Si tratta di chiudere col botto, si cerca di coinvolgere un grande gruppo americano, l’obiettivo è organizzare un evento memorabile per impennare una volta tanto l’encefalogramma piatto di Grosseto e provincia, dove per troppo tempo si è vissuto sempre «a due ore da tutto», da Roma, Firenze, Bologna, dove le cose, viste da lontano, sembrano accadere con tutt’altra energia e facilità. Si tratta di aprire la stanza profonda, spalancare le porte e strappare ai margini qualche metro in più, per non abbandonare inermi armi e campo di battaglia.

Animato dall’etica punk del do-it-yourself, Margini è una fiaba di provincia che nel raccontare la missione musicale dei suoi protagonisti mette in scena sé stessa, Il processo di progettazione di questo e tanti film simili, la sua ideazione, promozione, creazione, e la generale difficoltà a realizzare dal basso azioni culturali di vario genere. Chiunque nella propria vita abbia tentato di lavorare sul territorio, organizzare iniziative e dare forma a idee, non può che ritrovarsi nelle difficoltà esperite dal trio di protagonisti, respinto da amministrazioni e investitori locali per cui esistono soltanto sagre alimentari e ricostruzioni storiche, feste dell’unità e circoli ricreativi. Nel racconto di questi tentativi il film costruisce quindi il ritratto di una profonda amicizia, un legame giovanile che aiuta a tenere alte le difese contro una quotidianità industriale che incombe, sovrapponendosi, giorno dopo giorno, al significato imposto dal diventare adulti. Margini è un esordio che funziona e coinvolge, grazie alla genuinità dei protagonisti e dei rapporti rappresentati, e al fatto che la provincia che racconta esula dall'ennesima dimensione criminale si pone come un qualcosa di più semplice e sincero, spontaneo, vicino ai toni più intimi del Virzì anni 90 e vissuto attraverso le lenti di una subcultura evocata con precisione e affetto (e coinvolta in prima persona attraverso le collaborazioni e gli omaggi offerti al film dai suoi protagonisti, a partire dall'autore della locandina e comparsa vocale Zerocalcare).

Etichette
Categoria
Niccolò Falsetti Francesco Turbanti Emanuele Linfatti Matteo Creatini Silvia d'Amico 91 minuti
Italia 2022
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Athena

di Matteo Berardini
Athena - recensione film netflix

Con un cinema americano che sempre più appare polarizzato, oggi, tra le categorie di alto e basso, grande e piccolo – una forbice che si allarga e vede da un lato cinecomics colossali e dispiegamenti seriali ad alto budget, e dall’altro immaginario indie alternato a horror e affini in versione arthouse – il genere, inteso nel senso più puro di meccanismo narrativo capace di generare immaginario connettendo spettacolo e discorso sul reale, latita in quel di Hollywood, mentre invece torna a fare la sua comparsa all’interno di certe cinematografie europee, specie se ipertrofizzate dalle intenzioni produttive di colossi streaming come Netflix.
Si pensi alla forza espressiva, stilistica e concettuale, di Rodrigo Sorogoyen, manifestata in film come Il regno o nella serie Antidisturbios; all’efficacia del danese Shorta, odissea noir attraverso le maglie del ghetto; alla capacità ciclica del cinema francese di tornare con le griglie del poliziesco ai territori delle banlieues, epitomi della questione sociale nel suo intrecciarsi di piani etnici, economici, culturali. I tempi de L’odio sono lontani, ma film come Polisse e I miserabili portano avanti il discorso, alzano il tasso di spettacolarizzazione e intensità del conflitto. Athena, in questo, è un punto limite, di stile e forza grafica, un film che satura lo schermo e crea nuove immagini-mito, affinché rappresentino la lotta in tempi di social-estetica globalizzata. Scritto dal regista de I miserabili, Ladj Ly, il film infatti gode di una regia muscolare di primo livello, una stilizzazione virtuosistica spesso vertiginosa a opera di Romain Gavras che, estendendo le coordinate estetiche del suo videoclip No Church in the Wild (Jay-Z e Kanye West), realizza un war movie militante di stampo sociale in cui la militarizzazione dello spazio urbano rende le banlieues un campo di battaglia tra polizia e insorti.

Atena, nella sua accezione più popolare, è la dea di arti e conoscenza, ma Atena Promachos è la conduttrice di eserciti in battaglia, colei che combatte in prima linea e dal cui favore dipende la bontà della strategia con cui si scende in campo. Ogni scontro, anzitutto se sociale, necessità di strategia, altrimenti il rischio non è solo di essere sconfitti ma di perdere il peso delle proprie azioni, la pertinenza di sé, subendo la manipolazione di forze terze che si tengono ben lontane dal conflitto. Athena, nel racconto, è il quartiere di cui i rivoltosi prendono il controllo, i bastioni, ma è anche un monito, un invito a combattere con criterio ed evitare interferenze, posto da un film il cui impianto retorico non potrebbe essere più dichiarato e cristallino. Tutto infatti è costruito guardando alla tragedia greca, tanto nella gestione mitica dei personaggi, dei loro corpi mediterranei e dorati, quanto nei rapporti di forze e simbiosi tra individuo e collettività, identità e territorio. Athena torna alle origini del racconto e della società stessa, all’agorà e l’esser parte di qualcosa, organi di un tessuto sociale iniquo e disfunzionale, spesso asfittico, necessitante cambiamento, rabbia, riscrittura delle sue coordinate (politiche certo ma anche estetiche). Di qui un film che lavora lungo linee geometriche esatte, con personaggi attivati e disattivati da pulsioni assolute perché primigenie, ontologiche nell’essere uno e contemporaneamente parte di un tutto, corpo collettivo; ecco quindi le tattiche di guerra mutate dalla testuggine, le musiche sussurrate e gridate in urla corali, le soluzioni grafiche chiaroscurali.

rece athena film

Per quanto manichea, non si può negare l’efficacia di quest’impostazione discorsiva, la sua pertinenza retorica, nella quale i tre fratelli protagonisti, Abdel, Karim e Moktar, non sono solo figure esemplari in conflitto tra loro ma incarnazioni sfaccettate della questione sociale. Abbiamo a che fare con un personaggio uno e trino, che non solo rappresenta i tre stadi della vita (giovinezza, adultità, maturità) ma anche tre esiti del processo d’integrazione, dalla disillusione criminale del più grande Moktar alla rabbia cieca e bisognosa di speranza del giovane Karim, capo del popolo in rivolta, passando per il fratello di mezzo, Abdel, che in quanto soldato  e mediatore incarna il bisogno di credere al sistema, la fede che un’integrazione sia possibile. Attorno a questa triade si muovono quindi gli spettri della radicalizzazione terroristica e della manipolazione subita da forze esterne, i rischi cui è esposta la rabbia quando resta inascoltata.

Girato interamente nella periferia di Parigi, a Evry, in un complesso abitativo popolare destinato alla demolizione (Parc aux lièvres), Athena declina il suo impianto tragico con uno stile visivo a dir poco spettacolare, un susseguirsi di piani sequenza che – fin dalla clamorosa apertura – adotta il linguaggio del film bellico portandone le istanze visive alle estreme conseguenze, alla massima efficacia grafica. Di rado si è assistito a un film europeo dotato di tale intensità adrenalinica, una capacità simile di gestire il caos di comparse, fuochi, corpi, movimenti e conflitti, orchestrando coreografie belliche prive di ogni traccia di onanismo o blanda derivazione videoludica. Perché se il territorio è la casa del corpo sociale, seguirne le cellule e gli organi significa pedinare i corpi attraverso tutto il contesto urbano a disposizione, dietro ogni angolo e porta, lungo i corridori, su fino ai tetti e sotto negli scantinati, sempre addosso con la massima fluidità, senza incertezze e sporcature perché non è questione di effetto-del-reale, ma di percepire con la massima spettacolarizzazione possibile come quegli angoli e porte, corridoi, tetti e scantinati siano già sede di forme belliche permanenti, e di lì rendere tale tensione questione estetica, auto-rappresentativa. Il rapporto tra corpi e spazio offerto da Athena ha dell’incredibile, è una mappatura del campo di battaglia di rara potenza, ma soprattutto la traduzione del discorso politico in forma grafica ultrapopolare. Perché anche la lotta di classe, di etnia e dignità sociale, ha bisogno di opere che aggiornino e stilizzino il suo immaginario, serbatoi di immagini-mito che diventano nuove icone e simboli, cristallizzazioni di un bisogno di massa che viaggia attraverso le forme contemporanee dell'immagine social e globale.

Etichette
Categoria
Romain Gavras Dali Benssalah Sami Slimane Anthony Bajon Alexis Manenti Ouassini Embarek 97 minuti
Francia 2022
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Crimes of the Future

di Gian Giacomo Petrone
Crimes of the future - recensione film cronenberg

È un film che viene dal passato Crimes of the Future, ultima creazione di David Cronenberg, pur abitando, a livello tematico, in una Zona spazio-temporale di un futuro remoto e poco agevole da decifrare attraverso i tratti del presente. È fin dal 1998 che si mette in moto il progetto originario di un titolo che impiegherà ventiquattro anni per vedere la luce, un piano di lavoro sostanzialmente contemporaneo a quello di eXistenZ (che esce nel ‘99) e che avrebbe dovuto essere trasformato in immagini a partire dal 2003, ovvero l’anno successivo all’uscita di Spider. Non a caso, il protagonista prescelto per l’occasione avrebbe dovuto essere nuovamente Ralph Fiennes. I legami col passato, tuttavia, rimandano ancora più indietro nel tempo, visto il nesso, apparentemente solo nominale, che Crimes of the Future intrattiene con l’omonimo titolo del 1970, col quale in realtà presenta svariate comunanze, sia pure ampiamente deformate dalle esperienze filmiche affrontate da Cronenberg in questo ampio arco di tempo.

Al netto delle ovvie differenze stilistiche e di bilancio fra il Cronenberg del ’70 e quello di oggi (il Crimes di quest’anno è comunque il frutto di una produzione travagliata e tutt’altro che ricca), in entrambi i titoli il focus dello sguardo è ben puntato su elementi pulsionali ed emotivi pressoché sempre presenti nell’opera del regista, ed entrambi occhieggiano un futuro senza specifiche marche temporali e in cui un’umanità sempre più larvale, residuale, mostra gli ultimi bagliori del proprio crepuscolo. Il Crimes of the Future del ’70, a metà strada fra azzardi godardiani e suggestioni surrealiste, si distingue dall’omonimo contemporaneo soprattutto per il conflitto fra un décor asettico, indifferente, e l’erompere di pulsioni bizzarre e financo innominabili, di cui costituisce una specie di prontuario. Invece, il “secondo” Crimes of the Future risulta oggi totalmente coerente, sul versante scenografico, con la “corporeizzazione” degli spazi e degli oggetti che contraddistingue buona parte del cinema narrativo di Cronenberg, almeno fino a eXistenZ. Ed è qui, nel delinearsi di una concezione filosoficamente radicale della materia come organismo, come spazio integralmente vivo, sia nelle sue propaggini autenticamente organico-biologiche sia in quelle inorganiche e meccaniche, che probabilmente si inscrive l’ormai antica urgenza del regista di ricorrere all’horror – sovente venato di fantascienza – come grimaldello stilistico. Lo scopo è di aprire la via alla propria concezione dell’uomo e della realtà tutta come due sistemi complessi e interagenti reciprocamente. In tale processo si inseriscono le dinamiche che portano pressoché tutti i personaggi centrali cronenberghiani a interrogarsi sulla propria identità e a cercare di preservarne l’unità, sovente con esiti tragici.

cron rec 3

Dopo la lunga parentesi da A History of Violence fino a Maps to the Stars, che marca un distacco dall’horror/sci-fi ma non dalle vecchie ossessioni, col nuovo film Cronenberg dà l’impressione di voler riprendere un sentiero interrotto per portarlo a compimento, sia come recupero in chiave orrorifico-fantascientifica dei propri temi prediletti, sia come ritorno a un progetto che, oggi, si configura come una sorta di compendio del proprio percorso creativo. La vita e la morte, l’arte e l’umano (il corpo come mappa da decifrare e come abisso, o meglio, come mise en abîme del senso), l’organico e l’inorganico, l’istituzione conservatrice e la ribellione prometeica trovano spazio come assoluti, come macro-concetti filosofici, in un’opera che non fornisce mai coordinate spazio-temporali o chiarimenti narrativi e che si focalizza sull’interazione dello spettacolo filmico con altre forme espressive nonché, soprattutto, sulla condizione dell’uomo nel contesto di un’era trans-umana o post-umana, non così distante da quella attuale.

Saul Tenser (Viggo Mortensen) e Caprice (Léa Seydoux) sono due artisti performativi, le cui esibizioni si addentrano nei sentieri della body art e della performance art, superandone ampiamente i confini. Si tratta di interventi chirurgici che si delineano, a un tempo, come atti erotici – “la chirurgia è il nuovo sesso” – e come fucina di immagini, visto che molti degli astanti ne filmano l’esecuzione. Il corpo di Tenser è infatti afflitto da una produzione continua di escrescenze tumorali, di Nuova Carne che Caprice rimuove per salvaguardare la sopravvivenza dell’uomo. Tuttavia, nel nuovo mondo tratteggiato dal regista non vi è più spazio per il dolore fisico, anzi, ciò che un tempo recava dolore può configurarsi, nel presente filmico, come fonte di piacere. Eppure, l’umanità non ha oltrepassato la soglia della propria mortalità e dei propri affanni terreni, tanto da doversi anche ingegnare nel trarre risorse alimentari dalla materia inorganica. A partire da questo apparentemente insolubile problema, sullo sfondo degli eventi che coinvolgono i due protagonisti cominciano a palesarsi due istanze contrapposte, una rivoluzionaria e una conservatrice. La prima è rappresentata da un oscuro gruppo di cospiratori, capitanati dall’ombroso Lang Dotrice (Scott Speedman), il cui scopo è la modificazione dell’apparato digerente umano con la funzione di usare la plastica e altri prodotti chimici di sintesi come alimento, mentre la seconda è incarnata dalle forze dell’(antico) ordine, ovvero Cope (Welket Bungué), un poliziotto della brigata New Vice, e da Wippet (Don McKellar) con la sua gregaria Timlin (Kristen Stewart), membri del National Organ Registry, due burocrati.

In Crimes of the Future, sullo sfondo di un ambiente lunare e metafisico in cui oggetti e protesi organiche (à la eXistenZ Il pasto nudo) interagiscono coi personaggi, a fronteggiarsi sono l’Uomo Vecchio e l’Uomo Nuovo – o se si vuole, la Vecchia Carne e la Nuova Carne – posti entrambi di fronte al dilemma di continuare a perpetuare la propria natura ormai prossima al collasso, con ciò stesso estinguendosi, o di lavorare invece per modificarne i tratti, cercando di (soprav)vivere. L’atteggiamento del regista è fenomenologico e tutt’altro che giudicante, nell’osservare i personaggi e nel costruirne le psicologie attraverso i dialoghi, dimostrando in pieno di rispettare tutte le istanze in gioco. In generale, ciò che sembra interessarlo non sono tanto le contrapposte aspirazioni, bensì la possibilità di veicolare, tramite queste, una nitida immagine della condizione umana. D’altro canto, a Cronenberg non preme nemmeno ergersi a profeta o vaticinare il futuro, giacché egli il futuro lo crea e, partendo da alcuni dati di realtà, ne trae una prospettiva cosmologica totalmente inedita, ancorché strettamente collegata al presente, il tempo in cui si compie il destino dell’uomo.

rece crimes cronenberg

È al versante creativo che il regista accorda invece completamente la propria preferenza, individuando in Tenser e Caprice l’ultimo baluardo di emancipazione per un’umanità sempre più tenue, debole, incerta. I due, nelle proprie performance, portano in scena il più grande spettacolo del mondo, ovvero l’uomo stesso, le cui aberrazioni corporee (i “crimes” del titolo o i “new vices” contro cui lotta l’unità poliziesca di Cope), siano esse naturali o indotte, sono il sintomo del mistero dell’esistenza e conducono i poli opposti della vita e della morte a convergere, per giungere a co-appartenersi reciprocamente. Tenser incarna un novello Prometeo (del resto, Zeus faceva ricrescere il fegato, al Titano) con sfumature cristologiche, il cui martirio è umano, troppo umano, ed è il simbolo della condizione complessiva di tutti i viventi, di cui egli sembra assumere su di sé la sofferenza in veste di testimone. E là dove l’arte pittorica delle crocefissioni e dei martirii bloccava nella tela l’attimo fatale, Cronenberg espunge quest’ultimo, costringendo il proprio protagonista a esibire la sua condizione di mortale senza doverla scontare, ma anzi rendendola uno spettacolo – continuamente replicabile e moltiplicabile – per gli astanti. L’inquadratura finale, un primissimo piano dreyeriano/bergmaniano in bianco e nero del volto sofferente di Tenser, cambia invece prospettiva, rallentando il movimento e azzerando il colore, per tendere a una purificazione del visivo, a una ecologia dell’immagine. E Cronenberg, in tal modo, sembra dirci – ma l’ha sempre fatto – che non esiste opera d’arte più grande dell’essere umano e che, di fronte a esso, è bene che lo sguardo sospenda il proprio ostinato peregrinare.

Categoria
David Cronenberg Viggo Mortensen Léa Seydoux Kristen Stewart Scott Speedman Don McKellar Welket Bungué 107 minuti
Francia, Grecia, Canada, Regno Unito 2022
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Splinters

di Arianna Pagliara
Spinters/Esquirlas, Point Blank

Presentato in diversi festival internazionali, già premiato a Visions du Réel nel 2021 e, nei giorni scorsi, vincitore della seconda edizione di Inlauguna Film Festival, Splinters dell’argentina Natalia Garayalde è, insieme, testimonianza bruciante di un evento drammatico e vivida riflessione sul potenziale espressivo, evocativo e documentale dell’immagine.
Nel 1995, la regista è una ragazzina di dodici anni che, insieme al fratello, si diverte a girare brevi filmini di famiglia con la videocamera che il padre le ha regalato. Siamo, fin qui, nel territorio fascinosamente disarticolato e amabilmente nostalgico degli home movies: universo (semi)sommerso quanto sconfinato, che oggi, in contesti diversi (Home Movies – Bologna, Open Memory Box) ha recuperato importanti spazi di visione nell’ottica di un riconoscimento di valore che si traduce, finalmente, in tutela, archiviazione e condivisione. Parafrasando Susan Sontag, potremmo dire che gli home movies sono, ontologicamente, una pseudo-presenza – perché l’immagine che ci danza davanti agli occhi, sebbene “rappresentazione”, reclama tutto il suo portato di reale e autenticità – e l’indicazione di un’assenza, perché l’azione congiunta di ritrovamento-archiviazione ha sempre per oggetto un reperto, un residuato, un precipitato, qualcosa che è stato e che ora non è più: gli home movies - così intimi, spesso evocativi, fatti di immagini incerte e sequenze interrotte - sono il nostro passato perduto, o meglio, il passato perduto di qualcun altro, al cui sguardo sovrapponiamo però il nostro in un atto spontaneo e quasi magico di riconoscimento.
È entro queste coordinate che il lavoro di Garayalde prende forma, l’input sembra essere la volontà di far rivivere immagini giocosamente (o tragicamente) strappate alla quotidianità familiare di venti anni prima. La casa, il giardino, i pomeriggi assolati, una piccola piscina, i giochi con i fratelli. Basta sporgersi dal letto a testa in giù e ruotare la videocamera per restituire allo spettatore un mondo sottosopra, dove i capelli se ne stanno dritti sulla testa incuranti della forza di gravità.
Ma c’è un vhs, tra tutti quelli “ritrovati” dalla regista, capace di cambiare di segno l’intero racconto: Esplosione 1995. È questo, di fatto, il fulcro dell’intera operazione filmica, la testimonianza diretta di un evento terribile. La fabbrica di munizioni di Río Tercero (Córdoba, Argentina), dove Garayalde viveva insieme alla famiglia, esplose infatti devastando gran parte della città, causando morti e feriti, oltre a una invisibile fuoriuscita di sostanze tossiche le cui conseguenze, a distanza di anni, si riveleranno letali. Inizialmente imputata a uno sfortunato incidente, l’esplosione fu di fatto qualcosa di indicibilmente peggiore: una strage voluta, pianificata, un atto di distruzione necessario a occultare un traffico di armi internazionale, indirizzato verso l’Ecuador e la Croazia, all’epoca in guerra. La lotta per la verità – spudoratamente mistificata, negata - porterà i suoi frutti, ma soltanto a distanza di anni.

I frammenti (esquirlas) del titolo sono allora quelli dei filmati girati dalla regista bambina, brandelli di realtà, e al contempo, letteralmente, quelli di tutto ciò che è andato distrutto, e dei proiettili che ferendo hanno insinuato nei corpi il fosforo bianco.
Su tanta desolazione, si posa uno sguardo purissimo, ancora in parte protetto dal sentire fiducioso e fantasioso dell’infanzia. In strada solo fumo, rottami, il pianto di un bambino. Dentro casa, oggetti senza più vita gettati alla rinfusa sul pavimento: bisogna scegliere cosa salvare (i pesci rossi, un proiettile da tenere come souvenir?) e andare via. Ma c’è anche curiosità, adrenalina, stupore, perché la scuola è chiusa, le regole di sempre sono state miracolosamente sovvertite, ora si può entrare in classe passando attraverso la finestra, si possono indovinare le case tra le macerie, ipotizzare ricostruzioni, guardare il mondo di ieri senza riconoscerlo. Poi, man mano, la presa di coscienza, la cappa scura della morte silenziosa che tornerà, con il nome di cancro, anni e anni dopo.
Stupiscono la calma, l’asciuttezza e la sobrietà dello sguardo, la capacità di maneggiare senza esitazioni e tremori un materiale così caustico e velenoso. Forse, perché, come la regista racconta, a Río Tercero i bambini imparano presto a distinguere la campanella della ricreazione da quella che annuncia il rischio di fuoriuscita di sostanze chimiche e, come bravi soldatini, corrono a chiudere porte e finestre, sigillando diligentemente le fessure con il nastro adesivo.

Documentario, atto d’accusa, cronaca di un disastro ma anche diario intimo, mosaico di memorie privatissime, poesia fatta di immagini per gli affetti perduti: Splinters è un esordio che riesce mirabilmente a condensare, nella concisione dei suoi settanta minuti, un discorso stratificato e denso, che riguarda non solo l’oggetto di questo cinema (politico e insieme privato) ma anche e soprattutto il cinema come linguaggio.

Categoria
Natalia Garayalde 70 minuti
Argentina, 2020
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Rumore bianco

di Matteo Berardini
recensione rumore bianco

Secondo Fredric Jameson, uno dei processi che più caratterizza il postmoderno è l’azione di colonizzazione della natura da parte della cultura; la produzione, cioè, nel tardo capitalismo, non si concentra più sul consumo di beni materiali bensì di immagini e riproduzioni del mondo, secondo percorsi di mercificazione che investono oltre i desideri la percezione stessa del reale. Il risultato è un ecosistema più pienamente umano del precedente, un nuovo ambiente nel quale la produzione culturale, attraverso una reificazione totale dei consumi, materiali e spirituali, può estendersi a impulso universale, orizzontale, onnicomprensivo. Onde e radiazioni, direbbe Don DeLillo, che in Rumore bianco (White Noise) – il romanzo della rivelazione per lo scrittore italoamericano, vincitore nel 1985 del National Book Award e tra i capolavori della letteratura postmoderna – identifica nel supermercato l’epitome di questo nuovo ecosistema artificiale, all’interno del quale l’uomo opera come cacciatore-raccoglitore di informazioni e surrogati, rappresentazioni e prodotti, nel tentativo ultimo di bandire l’assoluto. Perché c’è ancora un assoluto, un confinamento insito in natura all’agire e sentirsi umano, e quel limite è la morte. La morte è dove il mercato cessa di operare, è la dimensione liminare che sfugge al controllo dei prezzari e degli sconti in percentuale, e proprio per questo, per questa natura residuale che la rende l’ultimo evento assoluto in un ambiente umano altrimenti parcellizzato per corsie ordinate e numerate, è la radiazione di fondo che soggiace a ogni transazione umana, che sia economica, chimica o sentimentale. La morte è l’elemento terminale che il capitale non può antropomorfizzare, e ogni supermercato, centro commerciale o pagina di Amazon è una barriera costruita attorno a quest’impossibilità di controllo.

Forte del successo di Storia di un matrimonio, Noah Baumbach continua la sua collaborazione produttiva con Netflix e si cimenta con un romanzo per molti versi infilmabile, che opera per immagini certo (DeLillo è lo scrittore postmoderno più interessato a indagare il dispositivo) ma anche e soprattutto frammentazioni sintattiche, ipotassi, refrain linguistici, una storia svuotata di personaggi e popolata piuttosto da maschere, senza però che la satira – specie quella rivolta al mondo accademico – renda mai l’opera farsesca e troppo lontana dal tragico. Si tratta piuttosto di percepire il dramma attraverso il ripetersi delle epifanie di cui è cosparso il romanzo, pietre miliari di una progressiva presa di coscienza che non ha reali traguardi ma solo punti di fuga, sempre attuali e  ancor più forti oggi, dopo l’esperienza della pandemia.

white noise rec

A questa sfida autoimposta Baumbach risponde con approcci opposti: da una parte nel film ritroviamo i frammenti ricuciti di Rumore bianco, l’infinità delle sue intuizioni linguistiche espunte e ridistribuite razionalmente lungo un tappeto sonoro che informa il ritmo di ciascuna scena, affinché il racconto trovi una struttura formale compiuta, messa in quadro e scritta con rigore, gestendo il romanzo come un serbatoio da cui attingere; dall’altra, complice la struttura divistica predisposta dalla presenza di Adam Driver (magnifico) e Greta Gerwig (meno in parte), il film porta il racconto dentro griglie narrative prima assenti, riguardanti soprattutto il ricongiungimento romantico della coppia con un’attenzione specifica ai caratteri ben lontana dagli interessi e dallo stile di DeLillo. Ne risulta un approccio normalizzante, che si nutre del romanzo come carburante ma che ha in mente un’altra versione di quelle riflessioni e critiche, un’altra collocazione, più borghese e domestica, meno preoccupata, ansiogena, scomoda.

Vengono in mente le parole con cui David Foster Wallace inquadrava il suo lavoro su Infinite Jest, il suo bisogno di definirlo un «intrattenimento fallito», perché un romanzo sulla dipendenza e l’impoverimento dell’umano attraverso la distrazione non può, ontologicamente, funzionare come distrazione. Il meccanismo, per essere coerente, deve incepparsi. Ecco, White Noise non si inceppa, non mette lo spettatore a disagio, lo spaventa a tratti – e certamente lo coinvolge nella lunga sequenza dell’ «evento tossico aereo», adattato quello sì a perfezione – ma non cerca l’angoscia, non accarezza  il limite, il terrore cieco, l’ossessione mortifera dettata da analisi, esami, prelievi e tabelle, datificazione dei corpi e dei destini, il ruolo della morte nel processo identitario. La dicotomia chimica istaurata dal rapporto Dylar-Nyodene D. resta inattiva: le due facce della morte, incarnate dall’antidepressivo pensato per alleviarne il peso psichico e dall’agente chimico mortale che si deposita dal cielo per abitare i corpi, non dialogano, non generano pensiero complesso. Certo, Baumbach trova indubbiamente immagini potenti, a tratti, e può rivendicare un impegno evidente nel dialogo con il romanzo, ma sottotraccia permane la sensazione di assistere a un gesto filmico sottilmente accomodante, una gestione controllata dell’irrazionale, per definizione contradditoria, troppo simile a tratti a quella stessa merce-panacea di cui DeLillo – in un romanzo inizialmente intitolato Panasonic – voleva mostrare il potere ritualistico, vacuamente orgiastico, disperato.

Categoria
Noah Baumbach Adam Driver Greta Gerwig Don Cheadle 136 minuti
UK, USA
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Everything, Everywhere, All At Once

di Alessio Baronci
Everything Everywhere All At Once - recensione film Daniels

Arriva in sala, in un momento centrale del cinema dei Russo Brothers, Everything, Everywhere, All At Once, giusto qualche mese dopo che The Gray Man ha definitivamente mandato in corto il loro linguaggio.
EEAAO, film solo prodotto dai Russo e diretto invece da un’altra coppia di registi, i Daniels (monicker di Daniel Kwan e Daniel Scheinert) pare davvero ragionare su questa crisi di segni, a partire da una paternità del materiale di partenza volutamente lasciata incerta. Perché lo spunto alla base del racconto - che vede la mite Evelyn, un’americana di origine cinese che conduce una vita fin troppo ordinaria, combattere una guerra tra universi paralleli contro un’entità che minaccia l’intera realtà - sembra radicarsi in certi cliché del Marvel Cinematic Universe, ma in realtà appena possibile divaga in un racconto impregnato del non sense dei due registi di Swiss Army Men. Se di mero cinecomic si tratta, EEAAO deve allora essere una sorta di variante febbricitante del genere; se invece è un blockbuster d’autore, forse va letto come tentativo di riattivare il potere taumaturgico dello sguardo creativo. La richiesta dei produttori ai Daniels pare chiara: riattraversate le linee del nostro cinema e aiutateci a capire a cosa tende, cosa c’è nel profondo del nostro modo di intendere le immagini, anche per capire da dove ripartire.

Il percorso dei Daniels è indubbiamente affascinante. Perché il loro è un action forsennato che prova a riscoprire il calore della creazione narrativa fine a sé stessa, giocosa, che non ha paura di spingersi oltre, di apparire assurda. Ne esce un blockbuster a bassa fedeltà, un racconto epico che ha la struttura di un gioco tra bambini e che a tratti si lancia in exploit quasi brechtiani, tra lo svelamento del set e l’aperta desacralizzazione di pratiche e manie di certo cinema pop. Gli unici punti fermi sembrano essere proprio Evelyn e sua figlia Joy, che “pensano” come elementi di quel digitale che “informa” il blockbuster, evocando intere realtà come link, viaggiando tra universi come dati senza peso e “aggiornandosi” per acquisire più potere. Eppure il fascino dei due personaggi sta proprio nel loro essere costantemente fuori posto, grottesche entità di un’idea di cinema che il film pare costantemente depotenziare e mettere tra parentesi, soppesandone il non senso. Perché, in effetti, lo dice la stessa Joy, in uno straordinario moto di autoconsapevolezza: “ho attraversato tutti gli universi e ho capito che la verità oggettiva non esiste, ho capito che nulla ha più senso”. Ma se dietro il Multiverso, dispositivo narrativo centrale del cinema pop contemporaneo, non c’è più nulla, allora anche il sistema blockbuster vacilla pericolosamente sull’abisso.

Quella dei Daniels è davvero la distruzione di un paradigma? In realtà, tra i fotogrammi di Everything, Everywhere, All At Once, la forma mentis del blockbuster rimane ben ferma, al di là di qualsiasi ironica bordata gli si lanci contro. Lo raccontano benissimo proprio le sequenze dei “salti” tra gli universi di Evelyne, in cui i Daniels giocano con i generi e i modelli di riferimento (si attinge al wuxia come allo slapstick passando per l’onnipresente Matrix, con divagazioni persino nel cinema di Wong Kar-wai) ma si guardano bene dal metterli in discussione, dal ragionare davvero sulla loro natura di detriti. Tutto è, anzi, girato con cura, pensato per risultare narrativamente e visivamente avvincente. Ma così ogni discorso rimane in superficie, tutto si riduce a una fiacca rimasticatura di spazi noti, l’ironia non è più così dirompente, i riferimenti di base rimangono leggibilissimi e le attese di chi guarda vengono, in fin dei conti, rispettate. Un po’ troppo poco per delle premesse così ambiziose.

Everything Everywhere All At Once - recensione film Daniels_1

I Daniels rispondono dunque al quesito esistenziale dei Russo limitandosi a mostrare la caducità di certi dettagli del loro modo di rapportarsi con il racconto per immagini, e sviluppando una sorta di terza via al cinema pop, in equilibrio tra il parossismo del blockbuster e la sobrietà dell’indie. Rimane da capire, certo, se i due siano gli autori più adatti per teorizzare questo percorso. Perché se già finiscono sedotti dalla dimensione più superficiale del cinema di massa, quella delle immagini effimere, che colpiscono lo spettatore ma non “parlano”, non ragionano sulla loro natura, anche il loro approccio nei confronti del piano indie è malfermo. Di quel modo di pensare il cinema, EEAAO conserva evidentemente certi spazi, (la casa borghese, l'attività imprenditoriale, l’ufficio delle tasse) e certe linee narrative (la mancanza di prospettive, la crisi famigliare ed esistenziale) ma fatica a costruire su di essi una drammaturgia efficace ed originale.

L’unico vero elemento di rottura del sistema è la stessa Evelyn, personaggio inedito e molto efficace proprio perché “duale” a partire dalla sua identità, sino-americana, combattente inter-dimensionale ma anche borghese depressa, bloccata in un matrimonio al capolinea e proprietaria di una lavanderia a gettoni vicina al fallimento. E tuttavia, uno spunto così di rottura agisce quasi per inerzia; come personaggio si muove a fatica in un mondo che pare non volerla accettare davvero e, quando non salta tra gli universi, si ritrova in un contesto rigido, impersonale, stucchevole, in cui le svolte del racconto sono così prevedibili da costituire quasi una struttura archetipica di tutte le possibili incarnazioni del più convenzionale cinema “da Sundance”.

Ma se anche l’indie rimane uno spazio rassicurante, allora la rivoluzione dei Daniels non può che rimanere un proclama vuoto di due autori troppo impauriti, forse, dell’impatto del film sul pubblico per calcare davvero la mano e gettarsi nel vuoto. Al momento, ironia della sorte, il box office in patria dà loro ragione: Everything, Everywhere, All At Once si è rivelato un film popolarissimo e trasversale, il più visto della A24, ma il successo non nasconde l’inquietudine di un film che ragiona solo in superficie, punto d’incontro tra un blockbuster che teme la sua natura disimpegnata e un indie che vuole disperatamente apparire meno serioso. E allora tutto si risolve in un falso movimento, quello di due idee di cinema che, in realtà, non vogliono mai trovare una quadra, e piuttosto puntano ad hackerare nuovi mercati, penetrare nuovi strati di pubblico senza riflettere davvero sull’immaginario di riferimento, come in una degenerazione di quel germe che già era in The Gray Man.

È un’affascinante, ambizioso fuoco di paglia, EEAAO, che paradossalmente potrà sopravvivere solo se qualcun altro ripartirà da qui e si incaricherà di finire ciò il film ha (a malapena) iniziato. Per ora, in effetti, la terza via dei Daniels è come Joy, un cinema appena nato ma che già sembra lanciare un disperato grido d’aiuto.

Etichette
Categoria
Daniel Kwan & Daniel Scheinert Michelle Yeoh Jamie Lee Curtis Stephanie Hsu Jonathan Ke Quam 140 minuti
USA 2022
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Asako I & II

di Alessandro Gaudiano
Asako I & II - recensione film Hamaguchi

Ryūsuke Hamaguchi è un giovane regista giapponese di cui, probabilmente, sentiremo molto parlare. Drive my Car (distribuito in Italia da Tucker Film) è l’opera che lo ha portato alla ribalta internazionale, e l’attenzione della critica è meritata. Pochi autori contemporanei hanno saputo mettere in scena un’opera così elegante e complessa:  un dramma sull’amore e sul lutto sospeso sopra una rete di suggestioni teatrali e linguistiche che, a dispetto di tutto, mantiene una miracolosa semplicità e chiarezza di intenti, a metà tra il classicismo cinematografico hollywoodiano e quello giapponese.
Prima di Drive my Car, Hamaguchi si era già fatto notare con il precedente Asako I & II, in concorso a Cannes 2018 e recentemente inserito in programmazione sulla piattaforma di MUBI. L’occasione è ottima: nonostante si tratti di un film con ambizioni più ridotte, Asako I & II è un melodramma solido e dallo sguardo attento, consapevolmente cinefilo e già coinvolto nelle tematiche emergenti della filmografia del regista.

Hamaguchi mette in scena la storia di una ragazza che vive due amori specchiati e opposti tra loro. Il primo è un vero e proprio colpo di fulmine, una passione che sa di giovinezza e di innocenza tra la protagonista e Baku, un ragazzo affascinante quanto sfuggente con qualche eco di James Dean, che la abbandonerà senza dare spiegazioni dopo pochi mesi. Alcuni anni dopo, Asako vivrà un’altra storia d’amore con un uomo completamente diverso, se non nell’aspetto: Ryohei è un lavoratore in una grossa impresa di Tokyo, con la testa sulle spalle e un’indole gentile. La giovane donna, ancora immersa nel trauma di un amore mai risolto, non sa come interpretare la perturbante somiglianza tra Baku e Ryohei ma i due finiscono, prevedibilmente, per innamorarsi. Per alcuni anni, la coppia vive la propria felicità e arriva al punto di progettare il matrimonio, ma il ritorno di Baku spariglia le carte e distrugge, in un attimo, tutto ciò che i due hanno costruito insieme.

asako recensione

Asako I & II è un oggetto curioso, una sorta di Vertigo al contrario - e il ribaltamento di prospettiva è tutt'altro che banale o privo di conseguenza. L'altra, ovvia differenza è che qui la dimensione romantica prende il sopravvento sul mistero. Si tratta, comunque, di un film sulle illusioni e su un Doppio perturbante a cui la protagonista non sa come rispondere: ciò che la coppia costruisce e dice di se stessa non sopravvive alla riemersione della realtà, alla tempesta interiore di un rimosso amoroso mai risolto. Ma Hamaguchi non vuole mettere in scena la psicanalisi di un amore o esaminarne la dissoluzione sotto la lente della macchina da presa.: Il ritorno di fiamma tra Baku e Asako si rivela essere un fuoco immaginario che non sopravvive al principio di realtà. Piuttosto, il regista vuole mettere in scena il silenzio che abita la coppia, la cecità dello sguardo e del suo desiderio tra Asako e Ryohei, Loro, come noi, sono contraddizioni viventi, creature incomplete e miopi che possono, almeno in teoria, trovare un nuovo equilibrio, ma solo attraverso il lavoro quotidiano della ragione e del cuore.

Dunque, un film di silenzi, punti ciechi, scelte improvvise, pulsioni. Asako I & II, così come Drive My Car, vuole raccontare il cono d’ombra delle storie d’amore: l’abbandono di Asako è un lutto che si fa ostinata illusione, così come la morte della compagna del protagonista di Drive My Car è un dolore afono a cui si sopravvive, di nuovo, con il silenzio e l'insistenza della vita che procede nonostante tutto. E così via, fino a trovare la forza per tornare alla luce e ricominciare a credere nelle storie e nelle immagini. Come lo zio Vania di Čechov  l’opera teatrale attorno a cui è costruita la storia di quest’ultimo film, i personaggi di Hamaguchi sembrano dirsi “E noi vivremo”. Nonostante tutto. Senza una facile risoluzione finale e lasciando aperta la porta oltre il limite delle parole e dei titoli di coda.

Etichette
Categoria
Ryūsuke Hamaguchi Masahiro Higashide Kōji Seto Erika Karata 119 minuti
Giappone, 2018
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Faya Dayi

di Andrea Vassalle
Faya Dayi - recensione film

All'inizio e al termine di Faya Dayi, il lungometraggio d'esordio di Jessica Beshir, due sagome appaiono e scompaiono lentamente in una coltre di nebbia e oscurità. Prende forma così, il film, attraverso un'incursione in una dimensione altra, dove la realtà viene oltrepassata e al tempo stesso vista dal suo interno, e le immagini vanno a comporre un velo astratto e onirico. Faya Dayi ci porta in Etiopia, per mostrare la raccolta e il consumo del khat nella regione di Harar, una pianta contenente sostanze psicoattive dagli effetti simili all'amfetamina. Beshir è originaria proprio di quei luoghi e sa molto bene come la vita si sia adagiata sui ritmi della coltivazione e della lavorazione di quella pianta, attorno a cui gravita gran parte del lavoro che un uomo può svolgere e che porta alla rovina e alla disgregazione di intere famiglie. L'unica alternativa è la fuga. Una fuga che può essere mentale, agognata, immaginata, oppure realmente tentata, intraprendendo un viaggio dagli esiti incerti e causa di dolorose separazioni.

L'approccio a questi temi, che racchiudono anche una matrice politica riguardante la situazione degli Oromo e l'esproprio delle loro terre, non segue la linea del comune documentario. Cerca invece di creare un viaggio onirico attraverso le immagini e la loro valenza evocativa. Sin dai precedenti cortometraggi come Hairat, Jessica Beshir fa della pura osservazione il proprio nucleo tematico, plasmando mosaici composti da sensazioni, inquadrature, voci, racconti che scompongono la realtà esteriore per ricercarne l'essenza più profonda. Un flusso di immagini di natura psichica e poetica, in un bianco e nero in cui le inquadrature diurne sono attraversate da ombre e quelle notturne da bagliori, quasi come in un'alternanza tra positivo e negativo di un luogo fuori dal tempo, collocato nella dimensione del ricordo e del sogno. Tramite questo approccio visivo, la regista messico-etiope riflette sull'appartenenza e sull'identificazione nei confronti di luoghi e persone, che diventano un sentimento vitale. Memoria personale, generale e ancestrale si intrecciano in un racconto sulle origini, che possono nascondere ombre ingombranti, ma da cui allontanarsi porta anima e corpo a un distacco. È ciò che è successo alla regista stessa, che tramite le immagini accede ai suoi ricordi e gli dona nuova vita, trascinando con sé lo spettatore in una visione collettiva che tende alle allucinazioni provocate dal khat.

Se Kurosawa ricorreva spesso agli elementi atmosferici sul fondo dell'inquadratura per dare un maggior dinamismo, Beshir si sofferma più volte proprio su quegli elementi e sul movimento stesso, indugiando sul vento che muove foglie e tendaggi, sullo scorrimento del paesaggio e su nubi di fumo che danzano nell'aria, sfuggenti come i ricordi. Immagini che ritornano e che congiungono come delle rime in una poesia in movimento, a contrasto con la stasi di un luogo e di una vita che sembrano schiavi della produzione del khat. Sono questi dettagli a rappresentare il cuore del film e a farne un'opera sensoriale, accompagnati da suoni, volti, persino odori e soprattutto da mani. Mani che raccolgono, che schiacciano, che tessono e si stringono in preghiera, diventando protagoniste in modo quasi bressoniano e racchiudendo nei gesti tutte le diramazioni del racconto.

Categoria
Jessica Beshir 119 minuti
Etiopia, USA 2022
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Memoria

di Leonardo Strano
Memoria - recensione film weerasethakul

Jacques Aumont in qualche modo (Que reste-t-il du cinéma?) aveva messo in avviso i teorici del cinema: da quando il digitale ha permesso di interrompere il flusso di movimento delle immagini e di fermarle in punti inattesi e assolutamente non calcolati, l’immagine cinematografica si è rivelata disponibile a ibridarsi in maniera imprevista, attestando una parziale estraneità rispetto alla testimonianza diretta del tempo e soprattutto un allineamento al più allargato linguaggio dell’orizzonte audiovisivo, ontologicamente disinteressato alla resa pura della durata. Non sono molti i registi che hanno messo in forma questa consapevolezza di fine millennio, e contestualmente cercato di riconfermare l’immagine cinematografica come un punto di discontinuità (un punto di crisi) nel flusso sempre più atemporale prodotto da tutte le altre immagini. Apichatpong Weerasethakul è uno di questi registi interessati a riscattare l’esperienza cinematografica dal potenziale destino di anestetizzazione innescato dai morbidi e avvolgenti impulsi mediali, e Memoria corrisponde al suo ultimo sforzo in questa direzione - uno sforzo, tra l'altro, giocato per la prima volta su un palcoscenico globale.
Si tratta di un film che opera una ricucitura certosina dello scollamento tra immagine cinematografica ed esperienza del tempo provocato dall’ibridazione incontrollata con l’immagine digitale (nello specifico con l’immagine-pausa, l’immagine fermata nel mezzo del suo flusso temporale), attraverso la riconfigurazione dello specifico filmico come appannaggio non più della dimensione ottica ma di quella uditiva: in Memoria la traduzione del tempo da fenomeno invisibile a esperienza sensoriale percepibile 
è assegnata a un suono più che a un’immagine, in un totale ribaltamento dei rapporti di forza convenzionali - niente meglio di un suono può infatti riprogrammare l’esperienza cinematografica del tempo, visto che, a differenza delle immagini, nessun suono può essere fermato a metà, messo in pausa, interrotto, senza essere anche terminato (il suono in questo senso è la più pura testimonianza della durata, come intuivano Elsaesser e Hagener nella loro percettologia cinematografica).

Weerasethakul non fa però ruotare intorno a un suono solo i postulati teorici ma anche la narrazione – Jessica (Tilda Swinton), una coltivatrice di orchidee in visita alla sorella malata a Bogotà, è ripetutamente spaventata da un suono terrorizzante che rimbomba nella sua testa – e la figurazione. Nel suo film, infatti, il suono non è più istanziato come protesi descrittiva di un’immagine autonoma, ma è invece rivendicato, rivelato come una virtualità sommersa, una temporalità sotterranea che l’immagine deve portare a emersione. Le immagini non sono pensate come frammenti autonomi, ma come suoni portati a figura, figurazioni sonore o sonorità figurative legate insieme da un’organizzazione a spartito e quindi scansionate in un ritmo finalizzato alla strutturazione di un organo percettivo complesso ed espanso, aperto alla compromissione sensoriale: un occhio in grado di sentire, o un orecchio in grado di vedere. Solo questo organo espanso e percettivamente disinibito può ricondurre a un equilibrio significativo l’asimmetria tra l’incredibile ricchezza sonora e l’inversamente proporzionale semplicità figurativa (minimali motivi orizzontali e diagonali in un’alternanza molto controllata), generata dal lento sprofondamento di una già residuale scatola prospettica in un paesaggio naturale senza centro e senza regole – è questo l’assetto formale con cui le inquadrature di Memoria riproducono la tendenza allo sfogo rizomatico con cui i contenuti mediali circondano gli spettatori contemporanei.

memoria rece film

Lo sprofondamento non è casuale, ma consapevolmente riprodotto quadro per quadro da Weeraesethakul per disorientare la prospettiva sensoriale strettamente ottica, e così certificarne l’inutilità nei contesti contemporanei: nulla può più l’occhio, sembra sostenere il regista thailandese, di fronte all’implosione architetturale a cui va incontro l’audiovisivo sempre più fermentato da immagini batteriche in grado di espandersi e riprodursi a piacimento. La traduzione in una forma esperibile, vivibile, conoscibile della multiformità audiovisuale che investe quotidianamente la vista è solo appannaggio di un cinema (e di un organo) prospetticamente disorientato e sensorialmente espanso, un cinema in grado di rovesciare la grossa quantità di dati in sottile qualità esperienziale, ma soprattutto in grado di riprogrammare gli inarrestabili effetti temporali della moltiplicazione di immagini del presente - l’assenza di coscienza storica sofferta dall’orizzonte audiovisivo contemporaneo (è ormai pervasivo il presentismo, quella forma di legittimazione del presente come condizione necessaria e naturale) - in forme di consapevolezza utili a leggere contropelo le immagini e individuarle come ultimi superfici di abissali stratificazioni che si allungano verso il fondo della storia. Memoria offre al cinema, da questo punto di vista, una contromisura coscienziale contro il suo progressivo e inconsapevole allineamento ai più ingenui linguaggi audiovisivi.

Anche la storia di Jessica si evolve narrativamente in questa direzione di consapevolezza archeologica: inizialmente interessata a spingere la propria ricerca sui fiori fuori dalle costrizioni del tempo – una scena apparentemente irrilevante ai fini narrativi la vede alla ricerca di un’incubatrice in grado di sospendere il decorso biologico della flora (“qui il tempo si ferma”) –, e poi costretta alla ricerca dell’origine di quel suono che infesta la sua scatola cranica, la donna scende nell’entroterra della foresta colombiana, fino all’incontro con la personificazione della memoria del mondo. È solo dopo questo incontro commosso che la donna ascolta per la prima volta quel suono proveniente dall’antico passato della terra senza subirlo in senso passivo, facendosi invece “antenna” per esso, canale catalitico della sua espressione; è in quel momento di riconciliazione con l’impossibilità di separarsi dal tempo che Jessica impara a vedere per la prima volta, attraverso un suono, il corpo fisico del tempo nascosto come scheletro sotto le maglie strette della realtà. Il cinema per Weerasethakul si può stagliare nella complessa indistinzione dell’orizzonte audiovisivo allo stesso modo del corpo di Jessica: come un momento di vertiginosa verticalità (anche autoriale) che cerca il proprio punto di fuga nel profondo senso sonoro della durata, come un’antenna capace di sensibilizzare la virtualità carsica del tempo in forme di esperienza fisica che investono la totalità organica del corpo e lo riorientano al futuro. 

Etichette
Categoria
Apichatpong Weerasethakul Tilda Swinton Jeanne Balibar Daniel Giménez-Cacho García 136 minuti
Colombia, Francia, Thailandia, 2022
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Men

di Saverio Felici
men recensione film Garland

Alex Garland irrompe con Men nel fortunato filone dell'horror indipendente A24, e la sensazione non può che essere quella di un debutto tardivo. Non è certo un caso che, proprio in questi mesi, sempre più eroi del sottogenere se ne siano affrancati in direzione di nuovi lidi espressivi (non ultimi, Robert Eggers con The Northman e Jordan Peele con Nope): l'offerta è satura, il meglio è passato, e anche i più ben disposti non possono che sbadigliare di fronte alla reiterazione dei soliti trucchi. E se il bel film del regista britannico è ingiustamente passato inosservato, è solo colpa di questo discusso e discutibile movimento, ormai talmente scarico e prevedibile da aver disaffezionato il pubblico anche ai pochi autentici scossoni.

A uno sguardo superficiale, Men pare una sintesi talmente macchiettistica di tale produzione, da far alzare gli occhi al cielo anche al suo più accanito difensore. Il titolo di una parola, le interpretazioni-performance, la metafora, la gimmick, il trauma, la coppia, la casa... Tutto ritorna, ancora e ancora. È l'Horror Metaforico A24 (che per un breve periodo si ebbe pure il coraggio di chiamare elevated horror), cinema esangue e minimale, dove un pretestuoso elemento fantastico è chiamato a insaporire storie che, in fondo, rimangono drammi familiari piuttosto convenzionali. Un'autentica macchina, alla ribalta ormai da 7-8 anni (e a cui molti, da Ari Aster a Jennifer Kent, da David Mitchell allo stesso Peele, devono la carriera): film-apologhi, spesso centrati su una singola allegoria che traduca visivamente un grande tema "di tendenza", e costruiti a ritroso partendo da essa. Riusciti o meno, si tratta di lavori ormai inquadrati, cui ci si approccia come con le barzellette, chiedendosi "dove andrà a parare" mentre si attende la punchline (che delude sempre: come diceva Welles, "il messaggio che si può mandare con un film è roba che starebbe scritta sulla punta di uno spillo").

a24 men title

Men si accoda al trend più estremo del filone: quello che vede gli autori mettere la metafora direttamente nel titolo, bypassando così l'annoso problema dell'interpretazione per consegnare personalmente la chiave di lettura al pubblico. Fu forse l'impagabile Madre! a sdoganare la pratica, ed è infatti quello il parente più prossimo del film di Garland. Come il più sarcastico lavoro di Aronofsky, anche questo mira a sincretizzare i riferimenti più disparati in una sorta di fiaba nera universale, giungendo alla sintesi di un'esperienza archetipica condivisa (lì nientemeno che la Creazione, qui la violenza maschile). Per costruire la sua cosmogonia della manipolazione predatoria, l'autore chiama allora a sé un immaginario religioso-mitico-pagano trasversale, metastorico, forse con l'intento di evidenziare una piaga congenita dell'intero DNA inconscio maschile. Operazione sicuramente ingenua, ma volenterosa: il punto di approdo è infatti un folk horror eterodosso, mai decorativo, sicuramente più onesto e ambizioso di un Midsommar qualunque (film in cui l'insofferenza del suo autore per il genere raggiungeva a tratti il disprezzo e la parodia).

Il pastiche esoterico di Garland è intrigante, pur muovendosi su analogie note. Tira dentro banalità (mela del peccato, troll sotto il ponte), e chicche più gustose (le sheela na gig gaeliche), portando il suo consueto balletto di estetismi a estremi lirici che sfiorano il tarkovskijano.
Eppure, nonostante la sua corsa invasata verso un notevole finale a metà tra Kenneth Anger e Andrzeij Zulawski, il delirio di Men è solo apparente. Se l'impressione è quella di assistere a un automatismo psichico puro (per dirla alla Breton), la realtà è quella di un'opera rigorosa, forse troppo, la cui ordinatissima architettura di richiami non fa che rispecchiare i meccanismi difensivi di una mente femminile a pezzi. Uno dei tanti punti in comune con il simile (e superiore) Sto pensando di finirla qui, opera quasi gemella a sua volta benedetta della sempre più grande Jessie Buckley - interprete decisiva, capace di donare tragicità e spessore anche al "solito" ruolo di donna sola sconvolta dal Trauma (protagonista fisso di questi film almeno quanto la vergine urlante lo era del vecchio slasher).

Dietro la patina avanguardista e le immancabili "spiegazioni" che già ne affollano la bibliografia online, Men è dunque un prodotto relativamente accessibile, centrato con cinica precisione sugli standard di un filone fin troppo acclamato. Cinque o sei anni fa avrebbe colto lo zeitgeist, e sarebbe diventato l'horror preferito di un sacco di gente: oggi abbiamo visto di tutto, siamo stanchi, assuefatti, un po' stufi. Ma è importante resistere alla tentazione di liquidarlo con eccessiva severità. Sarà il tempo, e non la critica, a rendergli giustizia: come è sempre stato, d'altra parte.

Etichette
Categoria
Alex Garland Jessie Buckley Rory Kinnear 100 minuti
USA 2022
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima
Iscriviti a