Speciale MUBI / Jules e Jim

di Domenico Saracino
Jules e Jim - Mubi recensione film Truffaut

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

Rivedere un film che si riconosce come intimamente fondamentale, nell’aver originato profondi solchi emotivi ed estetici in quel terreno fertile ma incolto che è l’animo adolescenziale, è operazione di archeologia psicoanalitica (il ri-vedere è in fondo soprattutto un ri-vedersi) e sentimentale (il ritorno a un amore passato, la riesumazione di un innamoramento, per le immagini, per i corpi).
Rivedere Jules e Jim, dunque, è per me tornare alla post maturità di un provinciale del Sud trapiantato a Roma, all’appassionato studio universitario della storia del cinema, alla prima vera infatuazione per i suoi maestosi pilastri, a notti colme di visioni e amori, odor di tabacco e spensierata voracità. È ritrovare nel triangolo amicale-amoroso tra Jules, Jim e Catherine, nelle loro confessioni e sofferenze, nelle loro corse e nei loro stalli, nei dialoghi brillanti e in certe precise parole, l’eco di un’empatia, di un’identificazione, di uno sconquassamento già sentiti, a suo tempo, e ora redivivi, rievocati come fantasmi dalla necromanzia del cinema; è rintracciare negli occhi scavati di Jeanne Moreau (occhi di marinaio che guardano lontano, iperscrutando la realtà, superandola), nella sua voce deliziosa, precipitosa, che intona Le Tourbillon de la vie, nella sua nuca e nei suoi movimenti, il ricordo di uno smarrimento amoroso, di un fervore felice che in quei momenti di visione era a lei esclusivamente riservato (ma che – non me ne voglia – era già stato e sarebbe stato dedicato a mille altre donne sullo schermo, da Monica Vitti a Margot Robbie).
Rivedere, allora, è un processo di ri-assemblamento di processi cognitivi e affettivi già attivati grazie al potere costituente e all’azione morfogena dell’immagine (Lacan e Metz), ovvero la (ri)costruzione del nostro io a partire da quelle pietre miliari del nostro immaginario che hanno via via contribuito a fabbricarlo. Ed è anche, soprattutto, un atto d’amore verso il cinema, la prova definitiva del riconoscimento del valore immenso che le immagini in movimento rivestono per i suoi accoliti. Cinefilia, insomma: pura e semplice adorazione per il cinema.
Una devozione, quella dei cinefili, che proprio con la Nouvelle Vague - di cui Jules e Jim rappresenta senza dubbio una delle creazioni più significative e rivelatrici - proprio nella Francia del dopoguerra, comincia per la prima volta nella storia ad affermarsi compiutamente, affrontando nei decenni a venire una comprensibilissima evoluzione, al passo delle trasformazioni sociali e tecnologiche. Arriviamo dunque alla conclusione di questo lungo ragionamento: se l’atto del rivedere un film è già, di per sé, frutto di una pulsione assimilabile alla cinefilia – come abbiamo cercato di suggerire –, allora rivedere uno dei film più iconici di un regista cinefilo come François Truffaut, su una piattaforma per cinefili come MUBI, sentendo l’esigenza di scriverne (la divulgazione, la diffusione, l’analisi critica, il proselitismo, finanche, sono tutti elementi fondamentali della cinefilia) è la quintessenza stessa della cinefilia, una sorta di ipercinefilia.

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Evoluzione dicevamo. Perché anche l’amore si evolve se a cambiare sono gli amanti: il cinema da un lato, sempre più frammentato nei suoi passaggi distributivi, lo spettatore appassionato dall’altro, sempre più desideroso di vedere quanto più cinema possibile, dove e quando vuole. Si potrebbe sintetizzare, prendendo in prestito le belle espressioni scelte da Thomas Elsaesser in uno dei saggi più interessanti sulla cinefilia ai tempi del digitale (in Cinephilia: Movies, Love and Memory, a cura di Marijke de Valck e Malte Hagener) che grazie agli archivi richiamabili su richiesta (on demand, se preferite) la cinefilia sia passata – almeno per le generazioni più giovani, cresciute con VHS, DVD, streaming, download e ora OTT – dall’essere «love that never lies»(la cinefilia come amore per l’originale, l’autenticità, la performance filmica come evento unico e irripetibile, ben fissato nel tempo e nello spazio) all’essere «love that never dies» (un sentimento riproducibile ad libitum, che si nutre di nostalgia e ripetizione, anytime, anywhere).

Lungi dall’essere morta, assieme al cinema stesso, come provocatoriamente profetizzato da Susan Sontag in un celeberrimo articolo apparso a metà degli anni ’90 sul New York Times, la nuova cinefilia ha abbracciato le nuove tecnologie, con tutti i benefici che derivano dalla democratizzazione dei piaceri del cinema (non più accessibili solo a una stretta cerchia di intellettuali metropolitani, frequentatori di festival e collezionisti), dovuta all’ampliamento vertiginoso degli archivi e alla moltiplicazione di piattaforme per la visione on demand dai costi tutto sommato contenuti.
Le piattaforme OTT come MUBI danno vita a una nuova età mediatica in cui i classici del passato coesistono con i cult recenti, in cui il nuovo cinema brasiliano, portato avanti da giovani cineasti ancora poco o per nulla conosciuti, coabita con i capolavori di Fassbinder, con l’esordio di Ken Loach o le opere della Nouvelle Vague. Questo significa anche crearsi la possibilità di ridare dignità a opere non particolarmente amate, fallimenti commerciali, stroncature immeritate. Film dimenticati, maltrattati, ripudiati che possono vivere una nuova vita e sentirsi nuovamente desiderati, vogliosi di uno sguardo.

Se è vero allora che la nuova cinefilia è “amore che non finisce mai” e che tiene insieme passato e presente, allora le moderne tecnologie sono il modo contemporaneo di ricordare e recuperare molti dei frammenti dell’enorme galassia della storia delle produzioni cinetelevisive. E questo, per cercatori di esperienze filmiche sempre nuove, non può che essere un bene.

Categoria
Francois Truffaut Jeanne Moreau Oskar Werner Henri Serre 100 minuti
Francia 1962
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Speciale MUBI / Fedora

di Riccardo Bellini
Fedora - recensione film Wilder

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

«I am big. It’s the pictures that got small»

Come molti, non possiedo più un videoregistratore da una decina d’anni. In compenso non ho smesso di conservare le VHS di allora, che oggi occupano un modesto mobile del soggiorno (un tempo adibito a supporto per un giradischi, scomparso anch’esso). Tra queste, particolarmente cara e particolarmente consunta, riposa una copia di A qualcuno piace caldo, una delle prime fiamme del peccato della mia formazione cinefila. Film visto dozzine di volte da bambino, in compagnia di mia madre, e che ancora oggi ci lega molto. Grazie a lei, la scoperta della migliore Marylin di sempre, trascorrendo giorni tutt’altro che perduti in compagnia di Daphne-Lemmon e Josephine-Curtis. A pensarci bene, Billy Wilder è una presenza che scandisce varie tappe nella mia crescita di spettatore e studioso. Gloria Swanson arriva solo con l’adolescenza e già in piena epoca digitale, mentre appartengono a un’età molto più matura e agli albori dello streaming coatto punte di diamante come le tribolazioni del povero C.C. Baxter o il sublime e scalognato Fedora. A tutto ciò vanno ad aggiungersi, nel modo più irregolare possibile, recuperi in sala, DVD e passaggi televisivi. Vedere, rivedere, stravedere (per rifarmi a un incipit ghezziano). Difficile immaginare un panorama più ibrido e rizomatico. Impossibile, per un cinefilo cresciuto durante l’avvento del digitale e il disancoramento dell’opera dal luogo della sua fruizione, non prendere coscienza della fluidità che ha assunto la parola cinema nel suo dizionario (e lo dice comunque uno che non smetterà facilmente di esclamare «per fortuna l’ho visto in sala!»). Affatto trascurabile, quindi, riflettere su quanto questi mutamenti abbiano ripensato e continuino a ripensare le dinamiche affettive che ci legano al testo filmico.

L’avvento di MUBI si dimostra quanto mai puntuale intorno a questioni apertissime, soprattutto per la peculiarità della sua proposta di far dialogare presente e passato. Forse l’unica, nell’attuale panorama streaming, a tentare uno sconfinamento dall’impasse dicotomica nuovo/vecchio, eretici/ortodossi, apocalittici/integrati. Proprio il cinema di Wilder, scoperchiatore irrequieto con il piede sempre tra classicità e rinnovamento, funge allora da cartina tornasole  di un discorso che guarda al cinema da una prospettiva sempre più mobile, irrimediabilmente decentrata. Quasi emblematico allora che tra le riscoperte della Videoteca MUBI faccia capolino proprio una perla semi-dimenticata come Fedora.

Flop passato in sordina con una distribuzione limitata – la piattaforma di Efe Cakarel lo ha ripresentato insieme a Fondazione Prada nel progetto Perfect Failures –, ignorato dalla critica dell’epoca, frainteso come programmatico canto del cigno dell’autore, il penultimo film del regista austriaco è anche una delle sue opere più estreme. Fantasmagoria di barocco decadentismo non tanto sull’ennesima, stucchevole “morte del cinema” quanto, se rivisto oggi e lasciato dialogare con il “gemello” Viale del tramonto, sulla natura straordinariamente mutevole di un dispositivo che in meno di un secolo ha dovuto reinventarsi svariate volte, come una luce trasversalmente puntata sulla sua pulsante plasmabilità. «Il cinema è un lutto perfetto, è l’esaltazione del lavoro del lutto», dirà all’inizio del nuovo millennio Derrida. Se però il cinema è, da sempre e in modo immanente, materia di fantasmi, confronto inevitabile con la morte – e dunque al tempo stesso incessante rielaborazione – lo è anche nella misura in cui ha dovuto nel tempo confrontarsi con le istanze mutevoli dell’industria.

Fedora - recensione film Wilder 2

Fedora è sotto ogni punto di vista un film liminale. Opera installata lungo una terra di confine e un tempo sospeso, solo all’apparenza imperniata su un sentimento di nostalgia passatista. In questa accezione allora il suo carattere funereo acquista pienamente senso. Da un lato le stoccate a un sistema produttivo (americano) trasformato dalla congerie della New Hollywood («Oggi comandano i giovani barbuti. Non hanno bisogno di copioni gli basta andare in giro con una camera a mano»), dall’altro, a posteriori, l’imminente fine di quella stessa epoca di libertà creativa che si sarebbe chiusa solo tre anni più tardi, nel 1981, con un altro, ben più eclatante fallimento commerciale a firma Michael Cimino. Nel mezzo, lo sguardo che l’esule Wilder, in rotta con le Major e ora alle prese con uno dei suoi pochi film interamente girati e prodotti in Europa (la United Artists subentra solo come distributore), rivolge disilluso a quella classicità hollywoodiana che lui stesso ha contribuito a rimodellare e insieme a minare («Che cos’è? Un copione? Sarà l’ennesima porcheria hollywoodiana»). La stessa carriera di Wilder, dopo l’accoglienza tiepida di Prima pagina, si trova dunque a metà anni Settanta a una svolta che, a fronte delle difficoltà nel reperire finanziamenti per un nuovo progetto, concede al regista l’occasione di osservare Hollywood dall’esterno, aggiornando la riflessione sui suoi miti e sulla loro caducità. E ancora, ennesima conferma della natura liminale di Fedora è il suo collocarsi alle soglie del decennio, gli anni ottanta, in cui come dice Malavasi «cambia il modo di cambiare il cinema», con l’integrazione sempre più determinante con gli altri media, per cui le trasformazioni che investono la posta ontologica del cinema saranno sempre meno dipendenti da fattori intrinseci al linguaggio e sempre più connesse a mutamenti di ordine mediale. Non è un caso che Fedora si apra con l’annuncio televisivo della morte della protagonista e la diretta del pellegrinaggio alla camera mortuaria, con le telecamere pronte a vampirizzare la cerimonia in un reale già ridotto a spettacolo ininterrotto.

Fedora è una vertigine congelata, una corsa a capofitto tra spazi mentali, moto paralizzato che tenta di farci vacillare a ogni svolta. Come in Viale del tramonto, è un film che abita una zona di sospensione precipitata al di là del tempo. Là il corpo senza vita di William Holden dipanava il lungo flashback del film, qui lo stesso attore nei panni del produttore Barry Detweiler riesuma in una camera mortuaria il suo ricordo della diva Fedora. Quello che segue – o anticipa – è la ricerca disperata di un ideale cinematografico a cui aggrapparsi in un momento di transizione, di un modello cui guardare nell’epoca in cui al contrario i modelli si sgretolano a beneficio dei simulacri. L’oggetto di questa ricerca, il mito di Fedora come chimera cinematografica, resta cristallizzata in immagine mentale, la cui oggettività è dunque implicitamente compromessa dal confinamento nella distanza a-temporale del ricordo. Dimensione, quella memoriale, che nel momento in cui la diva appare come manifestazione di quell’ideale vagheggiato (la magnifica scena della piscina di ninfee) acuisce la propria distanza attraverso il raddoppiamento della mise en abyme con un doppio flashback. Wilder porta così alle estreme conseguenze il discorso già intrapreso in passato e si confronta, con ottica più spiccatamente postmoderna, con l’annosa questione identitaria del cinema che proprio  a partire da allora andrà complicando senza possibilità di ritorno il proprio quadro ontologico. Lo fa con un film aderente alla sensibilità contemporanea ma tutt’altro che impegnato a seguire mode e tendenze, operando semmai all’incrocio tra modernità e postmodernità. Perché Fedora è un film ancora troppo profondamente umano, ancora troppo legato ad una realtà che esiste oltre l’immagine cinematografica, e dunque ancora troppo struggente, per dirsi cinema postmoderno. Meglio di gran lunga chiamarlo cinema di frontiera.

Fedora - recensione film Wilder 2

Vedere, rivedere, stravedere. Oggi, «nell'epoca del simultaneo, nell'epoca della giustapposizione, nell'epoca del vicino e del lontano, del fianco a fianco, del disperso» (Foucault), proprio sul concetto di frontiera si gioca la partita di MUBI, ora che i mutamenti imposti dall’affermarsi delle piattaforme OTT subiscono il sollecito dell’emergenza sanitaria e dell’impatto che questa sta avendo sulla filiera distributiva, costretta a un ripensamento delle proprie modalità repentino ma ancora rapsodico, mentre molti esercenti nuotano nell’incertezza. Ora che insomma la situazione costringe a fare i conti, su più fronti, con l’evidenza opaca di un mutamento ben più traumatico rispetto a quello vissuto da Wilder, MUBI si innerva nel contesto guardando all’innovazione ma con un’offerta editoriale consapevole del panorama ancora multiforme in cui si inserisce, e dunque della resilienza di una fetta di pubblico cinefilo non solo ancora abituata e affezionata alla sala, ma anche ad una certa disciplina nei confronti delle immagini. Così allora la scelta di smarcarsi dal groviglio di Amazon, – dove i film vengono acquistati in blocco spesso senza definire una linea precisa (sovente capita di trovare veri e propri tesori solo spulciando a lungo nelle varie categorie) –, corredando invece i titoli con recensioni della rivista online Notebook e dando agli utenti la possibilità di commentare e lasciare le proprie recensioni, come in una sorta di cineforum virtuale. E ancora, l’uscita dalla logica della raccomandazione algoritmica, oltre alla fortuna, come si è visto, di poter scoprire o riscoprire film dimenticati, flop commerciali da rileggere in un contenitore più attento al loro inserimento e non per forza esclusivi di una piccola nicchia (mentre scrivo è appena entrato in cartellone Kundun di Scorsese). Insomma, in un panorama fremente ma incerto, MUBI offre senz’altro un’alternativa che tenta, pur guardando al futuro del cinema, di parlare in modo intelligente al suo passato, trovando un punto di incontro. A differenza di Fedora, non deve occultare la giovinezza delle proprie mani per fingersi ciò che non è, né come Norma Desmond vuole illudersi di vivere in un passato museale. Certo, anche il servizio di Cakarel non è esente da pecche. Una comunicazione più chiara sulla logica con cui alcuni titoli entrati nella Videoteca – che teoricamente dovrebbe essere permanente – sono invece soggetti a scadenza (Fedora infatti non è più disponibile), migliorerebbe l’offerta. Ma del resto, si sa, nessuno è perfetto.

Categoria
Billy Wilder William Holden Marthe Keller Hildegard Knef Henry Fonda 116 minuti
Francia, Germania Ovest 1978
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Speciale MUBI / Les chansons d'amour

di Matteo Marescalco
Les Chansons d'Amour - recensione film Honoré

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

Sulle rive della Senna,
giovani ragazzi a mezzogiorno
Michel con Madeleine, Pierre
con Jeanne e Germaine
che cammina con Jean.
Se il cielo è pieno di uccelli,
cosa ti importa
del fuoco che brucia all’inferno?

Nel suo Saggio sul luogo tranquillo Peter Handke sostiene che, senza alcuna intenzione né tanto meno progetto, i luoghi tranquilli si possano creare attingendo da sé stessi, a seconda delle circostanze, in mezzo a un tumulto (anzi, proprio nel pieno del tumulto) o tra le chiacchiere a volte incomparabilmente più avvilenti per lo spirito. Luoghi simili si ergono all’improvviso, dal nulla, e offrono una protezione mentre si è intenti in altre attività esperienziali. Alle volte, accade qualcosa del genere non necessariamente durante un’esperienza ma grazie al puro ricordo di essa.
Capita così che, durante un viaggio di ritorno verso casa, gli spazi poco accoglienti di un treno si trasformino nel prototipo del luogo tranquillo, animato dal fuoco ormai spento di chi cerca nel futuro indefinito il desiderio di riabbracciare il passato o dall’indistinta energia vitale di chi, indefesso, confida sempre nei giorni a venire. Quelle persone a cui, normalmente, si guarderebbe con diffidenza e con la speranza che non intacchino la nostra sfera privata restituiscono una sensazione di approdo, di accoglienza e di familiarità. Possibile dopo quanto accaduto? Necessario e sorprendente. E, così, in quell’ora mattutina, il treno diventa un luogo unico, quasi impareggiabile, scenario privilegiato e condiviso dal quale ammirare i flussi segreti delle onde. Quel luogo ha curato la mia vulnerabilità, mi ha entusiasmato, ha illuminato la penombra crepuscolare del mio intimo. Possibile che quel luogo tranquillo fosse tale in virtù di una (di certo, paradossale) fuga dalla società, di una riluttanza e di una parziale sofferenza verso ogni compagnia? O, piuttosto, è sensato credere che i rumori provenienti dal mondo di fuori – la vibrazione del treno in corsa, il chiacchiericcio dei compagni di viaggio, i ripetuti annunci agli altoparlanti – non siano altro che tracce in grado di risvegliare da lunghe fantasticherie? In tal senso, il luogo tranquillo sarebbe in grado di spingere dentro di sé a causa del suo statuto ontologico e, al tempo stesso, di cullare verso l’esterno, grazie al rumore, al frastuono e al chiasso del fuori campo, che continuamente insiste sui suoi confini. Anche il cinema, indipendentemente dal suo supporto di fruizione, è un luogo tranquillo.

Durante quelle due ore di quiete e di rinascita sono stato accompagnato dalla visione di Les chansons d’amour, distribuito online da MUBI, servizio di Video on Demand ideato nel 2007 all’interno di un bar, ulteriore luogo a cui l’immaginario collettivo accosta senza difficoltà l’aggettivo tranquillo. MUBI è considerato come il rifugio dei cinefili, una nicchia in cui godere di visioni e amori festivalieri mai distribuiti altrove, uno spazio protetto rigorosamente pensato e catalogato, un modo attraverso cui superare il conservatorismo di chi, ancora, guarda di sbieco allo streaming, e dare vita a un consapevole ed educativo (ri)circolo culturale, non una comfort zone ma uno spazio a partire dal quale ripensare criticamente la realtà.
Il film di Christophe Honoré è un musical – genere da sempre aperto alla fantasticheria. La sua nazionalità, poi, concorre a una flânerie quasi genetica e a una naturale predisposizione a narrare vicende di camminatori solitari. Un personaggio di tale genere è Ismael, vittima di due fantasmi: Julie è la sua amata, una ragazza sognatrice ma malinconica e ben disposta a condividere il fidanzato con l’amica Alice, il secondo fantôme. All’improvviso, però, Julie muore e Ismael sarà costretto a prendere una serie di decisioni sofferte e ad abbracciare un percorso di vita diverso da quello preventivato.

Le ch recensione

Probabilmente, è del tutto impossibile non innamorarsi di una passeggiata filmica come Les chansons d’amour nel corso di un viaggio in treno durante il quale riabbracciare, finalmente, il mondo esterno. Le luci di notte, la foschia mattutina, la neve al tramonto, le strade bagnate dalla pioggia, i cafè e i cinema diventano gli spazi di un persistente nomadismo che si nutre di un desiderio destinato a non trovare mai il suo compimento. Le peregrinazioni sentimentali dei personaggi sono sospese tra gioia e tristezza e si riflettono in continue interazioni tra parole e musica, dove le canzoni sono filmate come stacchi provvisori e flussi di coscienza che donano a Ismael, Julie e Alice la possibilità di abbandonare la loro afasia e rifugiarsi in un luogo tranquillo. Un film del genere rischia di non uscire indenne dalla potenziale accusa di snobismo intellettuale e di pretenziosità. Tuttavia, nella mia situazione di viaggiatore in preda a tremori sentimentali di natura autistica, i tre protagonisti del film mi hanno accompagnato dal mutismo della timorosa partenza al ritorno del linguaggio e delle parole – di certo non in preda a un volteggio musicale. La scomparsa nel luogo tranquillo e l’esperienza di profondità così ammutolite e isolate hanno depurato la sorgente del linguaggio, restituendomi parole nuove e una sconosciuta voglia di condividere con gli altri.

Anche il cinema casalingo può (ancora) adempiere a una funzione del genere: non chiusura in sé ma ulteriore pretesto al dialogo con il nostro intimo e con l’altro, restituzione del soggetto alla storia e introiezione di una mappa critica attraverso cui orientarsi nel presente. D’altronde, qualsiasi visione è dettata dalla somma di tante piccole sensazioni individuali e collettive e ogni luogo tranquillo è una vertigine sensoriale che arricchisce un cammino che, altrimenti, nella nostra contemporaneità, rischia di essere sempre più privo di appigli.

Categoria
Christophe Honoré Louis Garrel Ludivine Sagnier Clotilde Hesme Chiara Mastroianni 95 minuti
Francia 2007
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Speciale MUBI / Sitcom - La famiglia è simpatica

di Emanuele Di Nicola
recensione sitcom ozon film

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini.
Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "
Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

Sitcom, ovvero Situation Comedy. François Ozon manovra l’archetipo per il suo esordio al lungometraggio del 1998, che non va però confuso con l’inizio dell’esperienza pellicolare: i cortometraggi del francese sono parte integrante della sua opera, ne anticipano i temi e in alcuni casi ne rappresentano perfino la quintessenza, come accade per il suo capolavoro breve, Une robe d’été (1996) che gira poco prima di questo film. A 31 anni il giovane Ozon impugna la cinepresa, scrive e dirige Sitcom, con pochi soldi e una durata di 85 minuti: lo fa con l’amica Marina de Van nella parte di Sophie, già attrice nel corto Regarde le mer e futura grande regista sconosciuta, per esempio dell’epocale Dans ma peau (2002) che riscrive l’apprendistato ozoniano incrociandolo con Cronenberg. Nel ruolo della madre c’è Évelyne Dandry, che vince il premio come miglior attrice al Festival di Sitges 1998, primo riconoscimento internazionale della filmografia ozoniana. Per il resto il regista recluta piccoli attori amici, come Stéphane Rideau e Adrien de Van, fratello di Marina nella vita e nella finzione, insieme a volti più noti della cinematografia francofona come François Marthouret (il padre) che danno fiducia all’autore.

È una parodia, Sitcom. Composta da un unico canovaccio: c’è una perfetta famiglia borghese che viene completamente sconvolta dall’arrivo di un roditore. L’animale, un topo bianco dagli occhi rossi chiaramente posticcio, funge da grimaldello per far deflagrare il non detto, ossia smascherare la reale natura del nucleo apparentemente idilliaco. Prima di questo, però, c’è un tendaggio: il cinema lungo di Ozon inizia infatti con un sipario che si apre, denunciando da subito la sua natura di rappresentazione e riflessione sulla messa in scena, sul topos e lo stereotipo. Ma c’è di più: dopo questa immagine generatrice ascoltiamo una strage di famiglia, un padre che apre il fuoco sui parenti ma fuori campo, lasciando la sostanza del fatto solo al nostro udito. Può sembrare la classica struttura ad anello, con inizio e finale circolare e in mezzo la storia evocata in flashback, ma non è così: si scoprirà poi che l’inizio (la strage) è un momento sognato da un personaggio, non un “vero” evento, e dunque la sequenza del massacro domestico non esiste nel racconto. Il cinema ozoniano inizia con un sipario e un inganno. Ozon vuole giocare.

Da qui si sviluppa un divertissement acido e sfacciato, segnato dai colori assoluti delle sitcom televisive (il maglione rosa della mamma, il verde acceso di Sophie) e intimamente citazionista: è il Teorema di Ozon, certo, come molta critica lo ha definito – ma sarebbe più giusto dire la parodia di Teorema, la sua messa in satira. E non basta, perché dentro ci sono tracce di Indovina chi viene a cena? con il personaggio di Abdu interpretato da Jules-Emmanuel Eyoum Deido, fidanzato nero della figlia che si presenta a casa dei genitori e resta vittima del discorso post-coloniale della borghesia quando, a tavola a bocca piena, i francesi perbene dissertano sugli Stati africani di cui sbagliano la collocazione. Ma Abdu è anche omosessuale e seduce il figlio Nicolas, in un altro sabotaggio dello stereotipo che costringe lo spettatore a un ulteriore riposizionamento nei confronti delle figure sulla scena. C’è il tiro al bersaglio antiborghese, figlio di Buñuel non solo tematicamente e in alcune scelte di stile, per esempio nell’utilizzo narrativo del sogno come concretizzazione di un inconscio mostruoso. E c’è l’ombra di Rainer Werner Fassbinder, amato da Ozon che adatterà un suo soggetto in Gocce d’acqua su pietre roventi (2000), ma già qui emerge l’interno borghese marchiato dal rapporto tra dominanti e dominati e avvolto in un’atmosfera queer, in una sessualità fluida che può sempre svoltare verso l’orgia e l’incesto. Nella famiglia di Sitcom vivono poi gli elementi che si svilupperanno nel successivo cinema ozoniano: la differenza tra l’immagine e la realtà, che porta spesso alla confusione dei piani che si conclude con la sconfitta del reale e la vittoria della superficie; la scoperta dell’omosessualità che squarcia il velo borghese; i contrasti psicologici nascosti tra amanti, amici e vicini. Non a caso alcuni titoli successivi riscrivono stralci di Sitcom: le “belle statuine” di Potiche non sono forse contenute nelle porcellane di questa borghesia? E l’irruzione del fantastico nel reale come forma di rivelazione, non avviene forse anche in Ricky, il bambino con le ali è così diverso dal finto roditore? E la lettura politica, la sessualità libera che spacca lo schema normato dei sessi, non si ritrova forse nel film più politico di Ozon, Una nuova amica?

Nell’epoca pre-social Ozon già sapeva che la propria immagine precostruita è sempre falsa, che l’autoscrittura di sé non regge: basta un topolino per ribaltarla. Ecco perché Sitcom è eccessivo, sovraccarico e anche troppo stravagante: si risolve in ultima istanza in un grande scherzo, una beffa del giovane Ozon che sta tra John Waters e la Troma (attenzione al topo gigante). Ma ecco perché, al tempo stesso, è un film pieno di talento che col senno di poi racconta la nascita di un autore centrale nel cinema contemporaneo: un azzardo che non si ripeterà, nel successivo Amanti criminali (1999) Ozon già diventa più “serio” e struggente, già draga i sentimenti e straccia i cuori. Ma Sitcom è rimasto: lo sa bene Dominik Moll che nel 2005 girò Lemming – Due volte lei, la storia di una coppia che viene terremotata da un roditore infilato nel tubo di scarico della cucina. Vi ricorda qualcosa? Che Moll abbia visto Ozon non è provato, naturalmente, ma è anche un’intima certezza.

Nota a margine personale. Il primo film che ho visto a un festival è stato 5x2 di François Ozon, in concorso a Venezia 2004. A costo di retorica, ricordo benissimo l’emozione (sì, l’emozione) di entrare a diciannove anni nella sala del Lido per godere di un titolo che ancora oggi adoro, così come ricordo l’ovazione a fine proiezione per Ozon e Valeria Bruni Tedeschi. Ho rivisto Sitcom su MUBI, una piattaforma, la migliore italiana: ebbene l’autore è lo stesso, ma lo schermo di casa è il contrario del festival. È il suo negativo. E in mezzo? In mezzo c’è la sala cinematografica. Al tempo del Lockdown, delle sale chiuse e dei film visti sul cellulare, è sempre più urgente tornarci. La ricchezza di MUBI conferma paradossalmente la necessità di spegnere altri schermi, rientrare in quel luogo chiamato cinema e spalancare gli occhi. Sempre restando ozoniani.

Categoria
François Ozon Évelyne Dandry François Marthouret Marina de Van Adrien de Van Stéphane Rideau 85 minuti
Francia 1998
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Di MUBI e del nome del cinema

di Matteo Berardini
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[A partire da alcune questioni teoriche preliminari presentiamo il nostro SPECIALE MUBI, una galleria critica ed emotiva di film selezionati dalla piattaforma OTT più cinefila della rete].

Il nome della rosa, il nome del cinema. Nel 1980 Umberto Eco chiude il suo primo romanzo rielaborando una citazione del monaco benedettino Bernardo di Cluny: «stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus», che in italiano significa «la rosa originaria esiste solo nel nome, ci restano soltanto nudi nomi». Una frase che ai più ricorda lo shakespeariano «a rose by any other name» ma che di fatto va interpretata in senso opposto: per Shakespeare infatti l’essenza della rosa è in grado di sopravvivere immutata nel tempo e, così come Giulietta, conserva le sue qualità anche se viene chiamata con un altro nome; per Eco al contrario tutto cambia e ciò che è stato sopravvive alle forze della Storia solo nelle forme della nuda denominazione, coordinata epistemologica soggetta a tensioni sincroniche e diacroniche che ne riscrivono l’identità. Di qui il nome della rosa, a indicare quel che di un’idea e di un fatto resiste al tempo, pur mutando. Di qui il nome del cinema, per chiederci cosa resta e cos’è che invece sta cambiando, rapidamente, sotto i nostri occhi.

Arte giovane e novecentesca, il cinema nasce e si afferma in un contesto culturale in cui la riflessione estetica è già ampiamente codificata; filosofi, critici e intellettuali di vario genere possono usufruire fin da subito di un vasto armamentario di strumenti e prospettive per studiare l’ultimo arrivato, e questo fa sì che la storia del cinema diventi nel giro di pochi anni anche storia del pensiero sul cinema, in un percorso che mescola teorie e pratiche con maggior intensità e frequenza rispetto a quanto accaduto nelle altre arti. In questi cento e più anni quindi non solo muta il cinema, nelle sue cifre tecnologiche e sociali, ma anche il pensiero riguardo la sua essenza, l’impalcatura via via estetica, filosofica e politica che interroga la natura mercuriale del dispositivo ponendo periodicamente l’inesausta domanda: che cos’è il cinema? cosa intendiamo oggi con il nome del cinema? Ma se il quesito è intrinseco alla storia stessa del mezzo oggi il suo peso ontologico appare di ben altra portata, considerato l’orizzonte digitale del mondo contemporaneo e il nuovo ruolo, pervasivo e frammentato, che le immagini esercitano in quella struttura del sentire (Williams/Jameson) plasmata attorno a noi dagli stessi mass media digitali. La definizione forse più calzante di quest’insorgenza mutante la offre Henry Jenkins, quando parla di cultura convergente per descrivere l’insieme sincretico di pratiche e logiche con le quali l’informazione viene oggi gestita contemporaneamente da media diversi attraverso la lingua franca del digitale, grazie alla quale le reti di comunicazione si attivano come inneschi acidi attorno all’individuo dissolvendone l’identità.

MUBI library

In questo nuovo assetto un ruolo pivotale lo svolge quindi il cinema, che in un mondo iperreale intessuto di convergenze mediali e schermi multipiattaforma, immagini frammentate e reti globali, vede rivoluzionati i suoi vecchi apparati di produzione, distribuzione e fruizione, dissolti in un magma informe da cui emergono e si rimodellano costantemente nuovi usi e consumi culturali. Tra questi spicca per urgenza e diffusione la rivoluzione intavolata dalle piattaforme over-the-top (OTT), la cui logica di visione on demand riassume in sé molte delle aporie e potenzialità dei nostri tempi digitali. Questo editoriale ha quindi due scopi: anzitutto porre alcune questioni teoriche relative alle OTT e all’iconosfera di cui sono espressione; infine, avviare da queste uno speciale monografico in cui, con un fuoco di fila di riflessioni cinefile, teoriche, emotive, attraverseremo trasversalmente il catalogo di MUBI. La scelta è dettata dal fatto che MUBI, tra le più promettenti e incisive piattaforme OTT, ha deciso in pieno Lockdown di ampliare la sua usabilità cinefila aggiungendo alla nativa modalità In cartellone (per cui ogni giorno un film viene caricato e lasciato sulla piattaforma per un mese in un ciclo a continua evoluzione) una nuova sezione denominata Videoteca, grazie alla quale è possibile accedere a un secondo e più ampio catalogo coerente con l’identità cinefila del servizio.
Sulle specifiche di MUBI e sull’importanza che ha nel panorama mediale contemporaneo torneremo meglio a breve; intanto facciamo un passo indietro e mettiamo a fuoco l’argomento scardinando la domanda teorica per eccellenza (che cosa è oggi il cinema?) per sostituirla, sulla scia delle più recenti riflessioni di Casetti (La galassia Lumière), con un’altra che sia più utile e pertinente al percorso: che cos’è oggi l’esperienza filmica? e cosa identifica e legittima tale esperienza? esiste l’esperienza filmica over-the-top, e se esiste si nutre delle stesse coordinate e categorie che determinano i precedenti usi culturali?

Come ogni fatto culturale anche l’esperienza filmica è il risultato di forze storiche e sociali, e in quanto tale segue l’evolversi del cinema manifestando modelli divergenti e spesso coesistenti. In un primo periodo la visione di un film era necessariamente connessa alla presenza in sala, e da questa interazione spaziale discendeva una serie di comportamenti e abitudini che disciplinavano e rendevano riconoscibile quel tipo di esperienza. Con il moltiplicarsi delle possibilità tecnologiche la fruizione di un film si scardina dalla presenza in sala, si creano altri tempi e luoghi di visione; l’esperienza filmica allarga i propri confini in parallelo all’aumentare dell’affordance dello spettatore, ovvero alla sua capacità di intervenire attivamente sulla visione controllandone in autonomia velocità, ritmo, mezzi di utilizzo e programmazione. A riguardo Casetti parla di rilocalizzazione dell’esperienza filmica, un termine che richiama la frammentazione e reinvenzione delocalizzante tipica del lavoro post-fordista per la quale l’azione lavorativa (occidentale) perde la centralità spaziale della fabbrica per disperdersi in nuove strutture più individuali e puntiformi. Contemporaneamente il venir meno della sala comporta anche una perdita di verticalità istituzionale e riconoscibilità sociale: guardare brani di un film rimontato dal proprio smartphone mentre si viaggia sull’autobus è ancora un’esperienza filmica? «Oggi si diventa spettatori filmici cercando il cinema dove non era mai stato» scrive Casetti, sottolineando come l’assenza della sala possa spingere il consumo cinematografico nel terreno del consumo mediale generale, non più specificatamente audiovisivo. Non si tratta quindi di chiedersi se un film pensato, creato e distribuito via smartphone sia ancora cinema, quanto piuttosto se la sua fruizione possa ancora essere intesa come esperienza filmica. In piena convergenza digitale è evidente che la crisi postmoderna dei grandi racconti di cui parla Lyotard non riguarda solo le ideologie direttrici dell’azione politica e sociale, ma anche le coordinate del nostro agire culturale. A fronte di questa massiccia rilocazione, chi può dire se sto esperendo un film o compiendo un consumo mediale d’altro genere? Chi/cosa certifica e legittima cosa è esperienza filmica rispetto a cosa non lo è? Anytime, everything, everywhere sono le parole chiave del consumo culturale di oggi, reificate da quella crescita esponenziale dell’affordance spettatoriale permessa dai nuovi dispositivi e piattaforme e fonte di un rapporto col medium ben lontano dalla passività del vecchio accomodamento in sala. Tuttavia a un tale e inedito livello di libertà (o meglio autonomia scopica) non corrisponde ancora una forma cristallizzata di esperienza che possa dirsi collettivamente definita.

mubi smartphone

Delle tre keyword citate quella che ci sembra più interessante nel riflettere sulle modalità di visione on demand è everything, ogni cosa, iperbole con la quale si fa riferimento alla crescente offerta di titoli messa a disposizione dai maggiori player sul mercato. Netflix, Prime Video, Disney+ in particolare garantiscono l’accesso a migliaia di contenuti audiovisivi, con un’immediatezza e una disposizione liquida del materiale che non ha eguali nella storia del cinema. Tuttavia, di fronte a questo enorme supermercato dell’immagine, dove ogni forma audiovisiva è accessibile e convive con i suoi simili in un’organizzazione spaziale rizomatica pressoché priva di percorsi interni, gerarchie o tassonomie di sorta (se non per le profilazioni degli utenti offerte dai big data e qualche labile disposizione per genere), non rischiamo forse che l’esperienza filmica over-the-top si trasformi in consumo mediale indifferenziato, visione compulsiva e frammentata che di quei testi e quelle immagini perde ogni percezione spazio-temporale, con conseguenti bias cognitivi e crisi di comprensione storico-culturale?
Sintetizzando il pensiero di Baudrillard, il sociologo Krishan Kumar scrive che «i mezzi di comunicazione hanno creato una nuova realtà elettronica in cui immagini e simboli hanno cancellato dalle nostre menti l’idea che al di là di tali immagini e simboli esista un mondo oggettivo». Di fronte un’accessibilità, ripetiamolo, inedita per quantità e qualità del materiale audiovisivo offerto, alla quale non corrisponde però alcuna tassonomia gnoseologica che esuli da logiche di marketing e binge-watching, non sembra lontano quell’estasi della comunicazione per cui (sempre Baudrillard) «il nostro mondo diventa un mondo di pura simulazione, la generazione per immagini di un reale senza origine o realtà: un iperreale». Ben lontani da qualsivoglia posizione luddista, ci sembra importante considerare le magnifiche potenzialità offerte dall’esperienza filmica over-the-top come l’occasione per riflettere sulla più generale epistemologia simulacrale che tali modalità di accesso e organizzazione dei testi filmici rischiano di portare con sé. Cioè un impoverimento dei nostri usi culturali che si manifesta anzitutto nella crisi delle categorie – prettamente moderne – di spazio e tempo, da cui sole discende quel senso della Storia che è forse l’antidoto necessario affinché, anche se immersi in questa navigazione orizzontale di archivi digitali on demand (e nell’esperienza filmica OTT che ne consegue), si possa ancora interagire con testi densi e non simulacri privi di corpo. Solo così la visione e l’esplorazione significherà ancora «un rapporto denso con la realtà, ma anche la partecipazione del soggetto al “senso della storia”» (Malavasi).

Kevin Lynch, uno dei grandi urbanisti del Novecento, è autore di un testo intitolato L’immagine della città in cui viene introdotto il tema della figurabilità, ovvero «la qualità che conferisce a un oggetto fisico una elevata probabilità di evocare in ogni osservatore un’immagine vigorosa». Secondo Lynch infatti ogni cittadino possiede il suo spazio urbano in quanto immagine, e da quest’esperienza deriva una mappatura mentale che permette a ciascuno di regolare la propria interazione con lo spazio urbano. Di conseguenza una città ordinata è altamente figurabile e tale caratteristica rende il cittadino più conscio e felice del proprio ambiente; una città deve favorire «la facilità con cui le sue parti possono venir riconosciute e possono venir organizzate in un sistema coerente» perché solo così sarà leggibile e permetterà a chi la esperisce di ricavare da essa un sistema di immagini coerente e sufficiente a orientarsi.

netflix library

In questo bisogno di cogliere nella città un «vigoroso significato espressivo» ritroviamo la necessità moderna di organizzare il sapere secondo gerarchie spazio-temporali che rispondano a un linguaggio unico, complessivo e sovraordinato. La figurabilità dello spazio urbano come esempio concreto di grande racconto, direbbe Lyotard, che nel nostro discorso possiamo paragonare a una grande storia del cinema organizzata secondo categorie critiche utili a conservare quelle coordinate spaziotemporali (quindi storiche) che caratterizzano ogni film e ne permettono una fruizione consapevole, ragionata. Sennonché i grandi archivi on demand di Netflix & co. tutto sono fuorché disposizioni ordinate e culturalmente guidate dei film ivi accessibili; al contrario la loro architettura digitale è volutamente caotica, evita la chiarezza espositiva e sfugge a uno sguardo dall’alto, ha poco della tassonomia biblioteconomica e molto del cestone 3x2 offerto dagli autogrill attraversati di passaggio tra un casello e l’altro. Recuperare Lynch ci è utile quindi per notare come, a contrasto, a dominare l’orizzonte mediale OTT non sia la razionalità integrale della figurabilità moderna ma la logica postmoderna del frammento,  per la quale «collassano le distinzioni gerarchiche ed emerge un pluralismo senza centro e senza gerarchie, senza egemonie né criteri di gusto dominanti, del tutto funzionale alle esigenze dell’industria culturale» (Canova). Ancora Lyotard ci dice che «il sapere è materia di giochi televisivi» e questo accade quando il consumo globalizzato di schegge mediali diventa il trionfo ultimo del feticismo della merce e dell’uso culturale ridotto a consumo. Perché guardiamole queste infinite library di titoli e licenze, avventuriamoci e perdiamoci in questo labirinto orizzontale in cui ogni testo fa caso a sé, ogni film è esperito al di fuori del suo spazio-tempo originario: mai come in questo momento abbiamo avuto accesso – facile, immediato, a costo relativamente contenuto – alla storia del cinema, eppure a questa crescita di accessibilità corrisponde un appiattimento del materiale che rischia come effetto contrario di annullarne ogni storicità.
Già Jameson negli anni Ottanta parlava di crisi della cartografia cognitiva e descriveva il tempo postmoderno come un eterno presente composto da frammenti infinitamente ricombinabili perché ormai scevri di ogni ancoraggio storico. «Oggi sperimentiamo il mondo non tanto come una lunga esistenza che si svolge nel tempo, quanto come una rete che collega punti riavvolgendosi nella sua stessa matassa» (Foucault), e non per compilare riferimenti e citazioni casuali (frammentarie anch’esse…) quanto per sottolineare quanta importanza hanno le categorie storiche di spazio e tempo nell’organizzazione del sapere, e quanto arido diventi l’uso culturale di una tradizione artistica se la sua Storia viene ridotta a schegge autonome prive di contesto, frammenti disposti su scaffali digitali come fossero momenti di un eterno presente sempre accessibile, sempre coerente, sempre leggibile. Perché bisogna dircelo, questa intelligibilità universale dell’immagine promessa dall’archivio on demand è un miraggio operato dalle forze mercificanti dell’industria culturale, le cui strategie di vendita e consumo ipertrofizzate dal digitale hanno come scopo quello di approvvigionare un masticamento di immagini che sia il più possibile continuo e ciclico. Nell’architettura di Netflix & co., sistematicamente rizomatica e priva di figurabilità, centri di senso, coordinate verticali e organizzazioni gerarchiche, tutte «le tradizioni stilistiche si appiattiscono, diventano tutte uguali, tutte indifferentemente consumabili o imitabili con la massima disinvoltura» (ancora Canova). Spazio e tempo si dissolvono, e anche il film più famoso della storia del cinema diviene sede di contrasti e faide più o meno politicizzate, più o meno centrate, comunque ruotanti attorno a una generale crisi percettiva suscitata dal dato storico.
Quindi, come rispondere a questa tendenza? Quali antidoti mettere in campo che non siano anacronistici e sterili? Come evitare che l’esponenziale crescita del consumo on demand appiattisca lo spazio e il tempo dei nostri gesti culturali in un presente eterno, liscio rizoma digitale il cui cyberspazio si fa pericolosamente vicino all’iperreale popolato da simulacri, cioè immagini che non richiamano nient’altro che altre immagini, teorizzato da Baudrillard? E cosa c’entra MUBI?

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Fondata dall’imprenditore e matematico Efe Çakarel (MIT e Stanford come alma mater, da lì diversi anni alla Goldman Sachs in curriculum), MUBI nasce nel 2007 con il nome The Auters e l’intento di affermarsi sia come social network cinefilo sia come distributore streaming di film d’autore. Fin dall’inizio quindi convivono nella piattaforma strategie di coinvolgimento social (feed personalizzato, profili aziendali sulle altre reti sociali, forum interno e possibilità per gli utenti di collaborare alla blogosfera cinefila tramite recensioni, liste di film, voti) e accesso on demand. Tuttavia, rispetto alle OTT concorrenti, MUBI si distingue offrendo ai suoi utenti una breve finestra temporale per la visione dei film (i 30 giorni messi a disposizione dalla modalità In cartellone); una tempistica vincolante, che limita l’affordance spettatoriale e aggira la logica  postmoderna del supermercato infinitamente accessibile e frammentato, rivalorizzando così l’azione di scelta (tanto individuale, del singolo utente che è costretto a organizzare le proprie visioni prima che scadano e non deve più perdersi in un oceano rizomatico di titoli, quanto collettiva, dello staff che è chiamato in prima persona a costruire giorno dopo giorno una linea editoriale che unisca esigenze di identificazione del brand, familiarità spettatoriale con i titoli amati, e scoperta di nuovi film altrimenti nascosti e spesso difficilmente reperibili). Al momento in cui si scrive la comunità cinefila di MUBI ammonta a “10.307.931 cinefili”, un numero aggiornato in tempo reale ed esibito sulla pagina Feed della piattaforma, a sottolineare quanto sia rilevante per questa OTT alimentare il senso di comunità tra gli abbonati. Che i suoi utenti si sentano parte di qualcosa infatti è particolarmente importante per una piattaforma che in termini di numeri raccoglie il 5% degli abbonati Netflix – un confronto chiaramente impari e utile soltanto a chiarire come MUBI agisca coerentemente al modello della cosiddetta coda lunga (Anderson), secondo la quale in tempi di frammentazione dell’offerta culturale livelli alti di consumo possono essere raggiunti non più grazie a pochi best seller ma attraverso molti prodotti più specifici e particolarmente validi per ridotte porzioni di pubblico. MUBI quindi non può né vuole essere una piattaforma g-local di scala mondiale al pari di Amazon o Disney+, il suo modello economico ragiona su una scala totalmente diversa che punta a una specificità editoriale basata sull’incontro di logiche social e inedite dinamiche d’archivio. Del resto gran parte del marketing di MUBI ruota attorno alla conservazione del concetto di limite, di film “pochi ma buoni” offerti in una precisa finestra temporale, e smaschera le contraddizioni intrinseche a un’offerta concorrente che punta su un’overdose testuale spesso fonte di smarrimento per i suoi spettatori (oltre che innesco per tutte le questioni gnoseologiche sin qui dibattute).

mubi marketing

MUBI come soluzione all’iperreale quindi? Ultima difesa e bastione contro l’avanzare del Nulla che trasforma la storia del cinema in una galleria di simulacri? Non proprio ovviamente, di certo non solo. Perché anzitutto con questa logica del frammento e di una nuova organizzazione della conoscenza dobbiamo comunque farci i conti (a meno che non si voglia dismettere l’intera Internet e i suoi flussi orizzontali); secondariamente perché non è di soluzioni che siamo in cerca ma di alternative, di sistemi culturali che spingano il sistema OTT verso nuovi e più intensi orizzonti di alfabetizzazione all’immagine, azione educativa, diffusione di film altrimenti invisibili e/o inaccessibili. In questa sede non possiamo approfondire il discorso relativo alle potenzialità educative insite nella tecnologia dello streaming on demand, ma è necessario sottolineare come il terzo elemento decisivo del modello MUBI – dopo il ruolo della scelta e la conservazione del limite – sia la presenza di un ampio paratesto critico all’interno della piattaforma, un’infosfera di articoli, video-saggi, recensioni, analisi, liste, interviste e presentazioni di film che ha lo scopo di guidare lo spettatore offrendo «critical maps, passways and illuminations to the worlds of contemporary and classic film». Così recita l’abstract di presentazione di Notebook, la pubblicazione quotidiana con cui MUBI condivide (con tutti, non solo gli utenti) prestigiosi strumenti critici atti a conservare l’identità dei film, la loro storicità, la loro specifica esistenza come prodotti culturali da esperire come parti di un tutto.

Prima di concludere – quella che è evidentemente una porzione incompleta di una traiettoria culturale più vasta – torniamo un momento alla Videoteca, a quella nuova modalità di fruizione il cui inserimento ha innescato questo lavoro. Apparentemente una sezione simile, ennesimo archivio di titoli su scaffale, si pone in aperta contraddizione con il ruolo resistente e culturalmente determinante che abbiamo descritto per MUBI; eppure bastano pochi momenti di navigazione per rendersi conto che non siamo davanti a una sorta di Netflix bis per cinefili. La Videoteca infatti è studiata per essere estensione naturale della filosofia critica che anima MUBI , ne è reificazione cosciente perché la sua offerta è ugualmente studiata, catalogata, organizzata secondi criteri critici e storici che inspessiscono il nostro rapporto con l’immagine ed esemplificano la portata distributiva di un sistema che rende visionabile un tipo di cinema incompatibile con le precedenti forme di consumo. Certo non mancano le contraddizioni intrinseche al mezzo, come la scarsa comunicazione riguardo arrivi e dipartite di titoli o il potenziale senso di vertigine che incombe nella fruizione delle OTT dalle library più ampie, ma è indubbio che volendo immaginare il futuro del cinema e della sua fruizione si possa trovare in MUBI qualcosa a cui guardare con curiosità, studio e fiducia. Ed è per questo che abbiamo deciso di selezionare, ciascun redattore liberamente, un elenco di titoli presenti al momento (ma non è chiaro per quanto…) nella versione italiana della Videoteca, per dedicare a ciascuno di essi uno scritto che esuli dalla semplice recensione e guardi tanto al più generale contesto audiovisivo fin qui tracciato quanto al rapporto emotivo e biografico che ogni redattore ha con il film scelto. Perché la Storia non è solo questione di spazi e tempi storicizzati, di date, luoghi, contesti passati, ma è anche la somma di tante piccole storie, l’incasellarsi vivo e argentino di ricordi, legami, emozioni suscitate dal film e in esso ancora contenute. Anche da qui passa la via di fuga dal simulacro: dalle nostre vite, dal nostro passato, da ciò che è entrato e ancora vive nel fondo dei nostri occhi.
Buona lettura, e buone visioni.

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Speciale MUBI / Persona

di Arianna Pagliara
Persona di Ingmar Bergman - Speciale Mubi

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, una galleria di riflessioni critiche, teoriche, emotive inserite in un format "recensione" contaminato dall'elemento autobiografico. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui]. 

Considerato tra i più alti punti d’arrivo della cinematografia di Ingmar Begman, Persona è uno dei gioielli senza tempo che fa parte del ricchissimo e prezioso catalogo MUBI. Forse in assoluto tra i classici più osannati e minuziosamente analizzati, tanto che resta difficile, oggi, scriverne senza correre il rischio di ripetersi. A meno di usare, come un fil rouge, proprio le parole del regista, che in Immagini[1] ripercorre la genesi delle sue moltissime opere tra pre-filmico e pro-filmico, abbozzando qua e là i contesti creativi, snocciolando pensieri e impressioni che sempre accompagnano la nascita di un nuovo film, raccogliendo e restituendo al lettore anche particolari che infine sono stati espunti dalla sceneggiatura ma che si rivelano molto spesso coerenti e significativi in una valutazione a posteriori.

«La signora Vogler brama la verità. L’ha cercata dappertutto e talvolta le è sembrato di aver trovato qualcosa di solido, di durevole, ma all’improvviso le veniva a mancare il terreno sotto i piedi. La verità si disintegrava e spariva, oppure, nel peggiore dei casi, si era trasmutata in una non-verità.»[2]

La protagonista (Liv Ullmann), attrice teatrale rifugiatasi in una voluta quanto inscalfibile afasia, nella descrizione sopra riportata sembra trovare la sua ragion d’essere nella volontà di ricerca del vero. Non tanto, quindi, nel rifiuto che pure oppone al mondo circostante, come si potrebbe supporre considerando l’orrore che prova – in clinica – di fronte alla violenza aberrante che le si rovescia addosso dallo schermo della tv, o come si potrebbe dedurre dalla durezza che riserva a chi, attorno a lei – la dottoressa, ma soprattutto l’infermiera (Bibi Andersson) – cerca ostinatamente di fare breccia nel muro che la circonda. 
Se questa è la premessa, la seguente riflessione del regista sintetizza l’equazione parola = menzogna da cui scaturisce la “ribellione” della Vogler.

«…Da questa situazione di crisi nacque Persona:
Lei dunque è stata un’attrice…questo forse le costa molto? E poi lei tacque. Non c’è nulla di straordinario in questo.
Comincio con una scena in cui il dottore informa l’infermiera Alma di quanto accade. È una prima scena fondamentale. Assistente e paziente si avvicinano l’una all’altra, nervi e carne. Ma lei non parla, rifiuta la propria voce. Non vuole essere falsa. 
Questo è uno dei primi appunti dell’agenda di lavoro datato 12 aprile. Qui c’è anche qualcosa che non è mai stato realizzato, ma che però ha a che fare con Persona, addirittura con il titolo: "Quando il fidanzato dell’infermiera Alma la va a trovare, per la prima volta lei sente come lui parla. Nota come si muove attorno a lei. Si spaventa nel constatare che lui si comporta come se recitasse una parte". 
Quando si sanguina, ci si sente disgustosi, e allora non si recita.
»[3]

Ci sono almeno tre punti cruciali, in queste righe, che da un lato anticipano e dall’altro perfino sorpassano lo sviluppo drammaturgico dell’opera: il rifiuto della voce/parola come rifiuto della falsità (da cui consegue il confronto/scontro “nervi e carne” tra le protagoniste, fino alla famosa “scena allo specchio”); il personaggio del fidanzato di Alma, che non prenderà forma in quanto tale nel film, ed è qui escamotage per una presa di coscienza del personaggio di lei, che forse di fatto non avviene mai del tutto, o avviene nella misura in cui – dopo essersi aperta, esposta, offerta all’altra – viene derisa, ferita, rigettata (questo a evidenziare uno slittamento, o meglio una metamorfosi, tra le premesse dell’opera e l’opera); infine, in chiusura, la consapevolezza che solo il dolore possa escludere finalmente la menzogna perché quando si sanguina non si recita. 
Occorre richiamare l’illuminante, affilato monologo della dottoressa al principio del film, che riassume in maniera limpida e lapidaria il senso delle azioni di Elisabeth indirizzando anche, se vogliamo, lo spettatore verso una precisa interpretazione di queste ultime. Dopo aver ribadito che “ogni parola è menzogna, ogni gesto falsità, ogni sorriso una smorfia”, la dottoressa conclude così: “Io ti capisco Elisabeth, capisco il tuo silenzio, questa tua immobilità, e perché tu abbia elevato a sistema di vita la tua assurda apatia, capisco e quasi t’ammiro. Secondo me devi continuare a recitare la tua parte fino in fondo, finché essa non perda ogni interesse e abbandonarla…così, come sei abituata a fare, passando da un ruolo all’altro.” Il silenzio, in apparenza scelta oppositiva e di resistenza all’ipocrisia e alla finzione insita nell’essere con e per l’altro, è esso stesso recita, finzione, ruolo da interpretare e poi abbandonare come un travestimento tra gli altri, che esaurisce il suo senso nell’arco di tempo della messa in scena.

Che cosa resta, dunque, a Elisabeth? Le resta la possibilità di sanguinare. Come in uno specchio, di fronte all’infermiera/amica/nemica che darà definitivamente voce la propria voce – ai suoi pensieri più reconditi e intollerabili, primo fra tutti il rifiuto della maternità. 
La dimostrazione del fatto che il dolore e la paura ci impongono di sospendere repentinamente l’interpretazione dei nostri ruoli (etero o autoimposti) Elisabeth la palesa allo spettatore nel momento in cui, temendo che l’altra le getti sul viso dell’acqua bollente, romperà istintivamente l’incantesimo del silenzio esclamando quel “No, sei pazza!” che resterà l’unica frase da lei pronunciata durante tutto il film. Per il resto, di fatto, il mutismo che lei sceglie per non mentire sarà lo stesso che impedirà, come una diga, alla verità/dolore di venire fuori. È qui che Bergman, con piglio quasi surrealista (approccio preannunciato dal carosello di immagini in apertura? che a loro volta contengono significati stratificati…), mette in scena quello scambio, quella fusione identitaria tra le protagoniste mirabilmente, quanto nitidamente e semplicemente, significata sullo schermo dall’accostamento delle due metà dei loro volti.

«L’accordo è un monologo che viene duplicato. Il monologo viene per così dire da due parti: prima da Elisabeth Vogler, poi dall’infermiera Alma. Sven Nykvist e io avevamo progettato originariamente di sistemare le luci in maniera convenzionale su Liv Ullmann e Bibi Anderson. Ma la cosa non funzionava. Allora decidemmo di lasciare la metà del loro volto nel buio completo… insomma, non avrebbe dovuto esserci neppure una sfumatura di luce. Questo era inoltre un passo naturale a combinare, proprio nella fase finale del monologo, i mezzi volti illuminati in modo che si fondessero in un unico volto. 
La maggior parte delle persone ha, chi più chi meno, un lato migliore del volto. Le immagini dei volti di Liv e di Bibi illuminati per metà, che noi unimmo insieme, dimostrarono il lato peggiore di ciascuna di loro. 
Quando ebbi indietro la doppia copia del film dal laboratorio, pregai Liv e Bibi di venire nella stanza di montaggio. Bibi grida sorpresa: "Ma Liv, come sembri strana!". E Liv risponde. “Ma sei tu, Bibi, che sembri veramente strana!”. Rifiutavano entrambe il loro mezzo volto meno bello.
»[4]

Persona è dunque un confronto spietato, una messa a nudo, un gettare via la maschera (persōna in latino appunto, e anche nel senso junghiano del termine) per far emergere l’anima (alma, che è anche il nome dell’infermiera). Le attrici che rifiutano ognuna il “mezzo volto meno bello dell’altra” sono specchio dei personaggi che interpretano, personaggi intenti, più o meno consapevolmente, nella ricerca di se stessi attraverso l’altro, in una sorta di atto maieutico incrociato. La casa sulla costa nuda e rocciosa e il mare inteso come spazio primordiale, sono un paesaggio ridotto al grado zero, un grande vuoto vivo dove l’amore e la sofferenza delle due donne prendono forma, si amplificano, riecheggiano.
Vicendevolmente, l’una attraverso la parola (e quindi l’amore, l’abbandono, e poi il rancore e la rabbia conseguenti al rifiuto), l’altra attraverso il silenzio (che è freddezza e derisione ma non basta a proteggere dal sentire, dal vivere), porteranno alla luce certe reciproche consapevolezze fino a quel momento rigettate.
Per Alma, si tratta di una presa di coscienza dello scarto incolmabile tra i propri istinti e desideri profondi e, di contro, il conformarsi a scelte di vita socialmente condizionate (il matrimonio, i figli). O forse, di più, si tratta della raggiunta consapevolezza, e accettazione, dell’esistenza della nostra parte animale e istintuale che agisce per se stessa, una potenza che pretende di autoaffermarsi, di realizzarsi anche contro la nostra volontà. 
Per Elisabeth – il personaggio più complesso e quindi costretto ad abbattere più barriere nel percorso di discesa dentro sé – si tratta di comprendere anzitutto che il rifiuto della parola non riesce a porre in atto, da solo, la negazione della menzogna. Perché mentono, continuamente, i suoi occhi, i suoi sorrisi, le sue carezze, fino a irretire la povera Alma che, subendo il fascino algido e misterioso dell’attrice, si apre per essere infine ferita. Perché Elisabeth è incapace d’amore: ed è questo il nocciolo caldo del suo dolore, esplicitato da Alma nella “scena allo specchio”, nella quale la descrizione della maternità non voluta di Elisabeth si compone di parole taglienti come lame che spalancano un abisso senza fondo.

 

[1] Ingmar Bergman, Immagini, Garzanti, Milano, 1992

[2] Ibidem, p. 50

[3] Ibidem, p. 47

[4] Ibidem, p. 52

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Ingmar Bergman Liv Ullmann Bibi Andersson Margaretha Krook Gunnar Björnstrand 85 minuti
Svezia, 1966
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The Little House

di Veronica Vituzzi
The Little House - Yamada recensione

C’è una parola che forse potrebbe raccogliere in sé le tonalità gentili di The Little House. Una parola che però rischia troppo rapidamente di essere fraintesa alla luce di un cinismo imperante che ridicolizza o ancor peggio, banalizza il suo senso profondo. La parola è tenerezza: qualcosa di morbido, soffice, di cui è assai facile sottovalutare la potenza disarmante.

Il film di Yōji Yamada è un film di cose piccole: dalla casa del titolo, adornata da uno sgargiante tetto rosso, alla storia della dolce Taki, ex domestica che poco prima di morire racconta, in una manciata di quaderni, il periodo in cui alla metà degli anni 30 arrivò a Tokyo per lavorare per la famiglia Hirai. Un tempo lontano e molto felice, colmato dalla presenza della padrona di casa, Tokiko, bellissima e sempre sorridente, e dal suo figlioletto Kyoichi, a cui Taki si affeziona tanto da prendersene cura con grande impegno quando si ammala di poliomielite. Un giorno però il signor Hirai, che lavora in un’azienda di giocattoli, porta a casa il giovane Itakura, artista impacciato e sensibile con cui Tokiko allaccia una segreta relazione amorosa. È un sentimento proibito, fatto di parole, gesti e sguardi minimi che vengono notati solo da Taki che tutto vede e tace. Nel 1941 con Pearl Harbour arriva però la guerra a sconvolgere gli animi già scossi dei due amanti e della domestica, la quale solo nei suoi futuri quaderni riuscirà a raccontare quella vicenda, senza però dire veramente tutto.

D’altra parte, è proprio quello che suo nipote le rimprovera: dove sono, nella sua storia, l’oggettività della grande storia, la Seconda guerra sino-giapponese che sarebbe sfociata nella Seconda Guerra Mondiale, la povertà e la miseria del popolo? Eppure Taki può descrivere solo ciò che ha visto, e tutto ciò che ha visto è accaduto in quella piccola casa dal tetto rosso. Yamada restringe, come la sua protagonista, lo sguardo entro i muri della dimora dei signori Hirai, dove azioni e conversazioni semplici contribuiscono quotidianamente a consolidare forti rapporti affettivi, e, laddove è necessario, a significare molto più di ciò che lasciano intendere a prima vista. Taki è la narratrice della storia, e come tale rimane al di fuori dell’inquadratura come voce narrante, o sullo sfondo in secondo piano. Dell’amore fra Tokiko e Itakura sono visibili solo gli sguardi appassionati, abbracci e fugaci strette di mano, e quando finalmente la donna raggiunge lo studente nel suo appartamento non è dato allo spettatore di sapere cosa vi accada: saranno solo i vestiti strapazzati al ritorno a casa a suggerire a Taki - e a noi - che qualcosa di importante è appena successo.

La grande Storia, in The Little House, è solo un discorso fatto in casa durante le cene e gli incontri di lavoro; qualcosa che senza mai palesarsi esplicitamente spegne pian piano gli animi e riduce le razioni di cibo, e infine porta via da Tokyo Itakura, costretto ad arruolarsi nell’esercito. Quando la guerra arriverà, sotto forma di bombardamenti aerei, distruggerà ciò che rimane di materiale e spirituale. Difatti e è proprio in questa casa dove accadono eventi comuni, poco importanti, che pian piano si raccoglie un senso di calore, di umanità sincera che non è solo la storia della bella famiglia Haroi, di una domestica silenziosa e di una segreta storia d’amore, ma sembra definire anche con nostalgia l’emozione della serenità perduta di un popolo piegato dalle guerre e da due bombe atomiche.

Taki racconta ciò che ha visto, ma si nasconde lei stessa alla vista. Quando la sua voce scompare dal film Yamada interviene come narratore ad allacciare i fili della storia del Giappone, del suo popolo, di Itakura e della domestica che forse è sempre stata una ragazza innamorata senza rivelarlo a nessuno. Le grandi emozioni sono facili da raccontare, roboanti e rumorose come sono; ma il talento di far emergere, come un artista che dipinge a pennellate sottilissime, i piccoli moti nascosti dell’animo, ammutoliti dal pudore, è un’altra cosa.  Basta un pianto goffo e incontrollabile, trattenuto troppo a lungo: lacrime di nostalgia e rimorso, stratificate negli anni fino a diventare un macigno nell’anima, che commuovono nel senso più autentico della parola.

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Yōji Yamada Takako Matsu Chieko Baisho Haru Kuroki Takatarô Kataoka 136 minuti
Giappone 2014
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Kyoto Story

di Alessandro Gaudiano
Kyoto Story - recensione film Yamada

Yōji Yamada è una leggenda della settima arte che ha attraversato oltre mezzo secolo di cinema giapponese. Erede di Yasujiro Ozu, è un autore che definiremmo "tradizionale" nello sguardo e nella sensibilità. Il suo è stato quasi sempre un cinema del contemporaneo e delle persone comuni, il gendaigeki: nel suo caso, ritratti del quotidiano e saghe del popolo, come quella di Tora-San, il vagabondo sfortunato a cui Yamada ha dedicato una cinquantina di film.
Kyoto Story è qualcosa di diverso. Sembra quasi che Yamada volesse fare il punto su cinquant'anni di cinema e che, per farlo, dovesse partire dal basso: una storia popolare, in un piccolo quartiere, costruita insieme ai suoi studenti universitari.

Kyoto Story è, a un primo livello, un film romantico. Si tratta di una storia di "persone comuni" come Tora-San: artigiani, lavoratori, famiglie che vivono all'ombra delle metropoli iperreali del Giappone. La trama si svolge attorno al triangolo amoroso tra Kyoko, il fidanzato Kota e un imbranato professore classicista che si innamora perdutamente di lei. Kota è ambizioso e vuole fare il comico, non dà alcun valore al lavoro dei suoi genitori che producono tofu. Kyoko si lascia tentare dal professore e le viene offerta l'opportunità di fuggire con lui a Pechino. La ragazza sceglierà di restare e accetterà di continuare a vivere in un piccolo quartiere, lontano dalle luci della ribalta.

La tensione tra tradizione e modernità si riflette, a un secondo livello, su quella che è la seconda storia di Kyoto Story. Si tratta della storia di un quartiere di Kyoto, Uzumasa, e di un tassello del cinema del Giappone ormai scomparso. Attraverso le tracce urbane e la memoria di chi è rimasto, Yamada scava profondamente nel tessuto sociale del quartiere, dove si trovava la sede di uno dei principali studi cinematografici del Novecento giapponese, la Daiei. Alla Daiei hanno lavorato nomi del calibro di Akira Kurosawa ed è qui che è nato Rashomon (1951), uno dei più grandi successi internazionali del cinema nipponico. Un quartiere densissimo di ricordi e di cinema. Una fabbrica di immaginari dismessa che diventa, ancora una volta, un set cinematografico dove far germogliare nuove storie.

Molti degli abitanti del quartiere ricordano bene quando il cinema dettava i tempi della vita e dell'economia locale. Il film è intessuto delle loro biografie, sotto forma di brevi interviste in cui raccontano se stessi tra ricordi, cambiamenti e prospettive future. In un salto quanto mai efficace tra finzione e realtà, molti di questi abitanti diventano attori del film, spesso interpretando se stessi: studenti, artigiani, titolari di lavanderie e piccole attività commerciali sulla pittoresca via dei negozi. Yamada (qui supportato dal co-regista Tsutomu Abe) dedica questo omaggio allo studio rivale attraverso un film garbato nei movimenti e nella messa in scena, che si muove tra i registri del documentario e del cinema classico e che rimanda direttamente all'anima più tradizionale del cinema giapponese: certe inquadrature sulla riva del fiume sembrano ricalcare da vicino quelle del suo maestro Ozu in un classico come Buongiorno (1959); in altri momenti, sembra già di vedere scene di Tokyo Family (2013), il suo grande omaggio al capolavoroViaggio a Tokyo (1953).

Il risultato è un film vitale e denso di emozioni che non teme di accostare senza soluzione di continuità documento e finzione, prosa e poesia. Emerge il ritratto composito di una città: polis, crocevia, intreccio fitto di storie e temporalità differenti. Come ha fatto Jia Zhangke con I wish I knew (2010), Yamada e i suoi studenti ritrovano il senso di una città a partire dal cinema. Un progetto comune, fatto di sogni quanto dei vincoli irrimediabili della realtà.

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Yogi Yamada Hana Ebise Yoshihiro Usami Sôtarô Tanaka 90 minuti
Giappone 2010
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Us and Them

di Andrea Giangaspero
us and them recensione film netflix

È molto dolce l’esordio alla regia dell’attrice e cantante cinese Rene Liu, Us and Them, titolo che fortunatamente, dopo il successo in patria, è approdato in Europa grazie alla mediazione di Netflix. Questa è la prima impressione durante e dopo la visione, ma che in realtà si conferma anche in seguito a un’analisi più approfondita. Del resto sembra proprio questo l’indirizzo dell’autrice, cioè la volontà di raccontare la storia di un legame che scaldi il cuore dello spettatore: in definitiva intrattenere mediante la lenta profusione (lunga due ore) di un rapporto che si consolida e poi si sfalda, e poi si riconsolida e si sfalda ancora. A suggerire la riuscita dell’operazione è, più di tutto, l’appagamento percepito alla sua conclusione (nonostante l’esito fortemente malinconico della vicenda), il godimento di una storia romantica a bassa quota, senza clamori, che impiega ogni sua parte per iniettare di emotività anche l’epidermide dura dello sguardo più analitico, di quello più critico. Ma ovviamente c’è anche qualcosa in più.

Us and Them è, in buona sostanza, la storia di due giovani che si amano, Xiaoxiao (Zhou Dongyu, che ritroveremo in Better Days) e Jianqing (Jing Boran), entrambi soli a Pechino per cercare fortuna al principio degli anni Duemila e incontratisi su di un treno colmo di gente nel viaggio di ritorno a casa durante il Chunyun (quel lungo periodo che comincia poco prima del Capodanno Cinese e prosegue per i successivi 40 giorni, in cui si mobilita un traffico enorme di gente in viaggio, tra ritorni e spostamenti in vacanza). Da qui il film migra continuamente, spaziando tra sequenze ambientate nella povera tavola calda provinciale del padre di Jianquing e quelle nelle stanze anguste e luride dell’appartamento pechinese. È qui, nella ristrettezza di uno spazio in cui i due corpi si accavallano, si respirano addosso e meditano sul giro di uomini che Xiaoxiao deve frequentare per il compimento della sua arrampicata sociale nella capitale, che la gelosia di Jianquing prorompe, e la parabola sentimentale si pronuncia verso l’alto. Il congegno narrativo dispone i due personaggi sempre secondo una logica di necessaria interdipendenza, nel senso che i tratti dell’uno e dell’altro si rendono significativi e acquisiscono spessore solo nella reciprocità, nello scambio. Us and Them assume così le forme di un processo di co-costruzione dei personaggi che si realizza mediante il sostegno reciproco e ostinato contro il lento deragliamento dei sogni giovanili. In quella stessa interdipendenza tra Xiaoxiao e Jianquing si nasconde però pure l’incapacità dei due di autogovernarsi, di stabilire compiutamente la rotta tra l’amore e l’acquisizione di responsabilità della loro maturazione, che sconfinerà in definitiva nell’allontanamento.

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Un solco netto separa prospetticamente la gioventù dei protagonisti dalla maturità secondo un distanziamento temporale che cristallizza il loro futuro, circa 10 anni dopo il loro primo incontro, nel bianco e nero di una notte invernale trascorsa dai due in un hotel. È da questa reunion che il racconto si costruisce in forma di analessi ed è a questa che la conclusione torna circolarmente, recuperando un approccio alla ri-esplorazione narrativa del passato già propria di One Day (2011, di Lone Scherfig), in cui si procedeva a dilatare su un ampio asse di tempo (anche lì più o meno decennale) i tasselli del mosaico di ricordi propri dei due protagonisti. Il film di Liu è meno sistematico in quest’operazione, giacché le immagini in bianco e nero saltano frequentemente e senza regolarità a scompaginare la continuità del ricordo a colori, rendendo in tal modo pure più sintomatica la differenza: il them che non è più us sta nella stanza d’albergo nell’inverno della maturità, nella perdita dell’identità, della consistenza e dell’innocenza dei sentimenti che si è fatta ora alterità, astrazione, voce distante.

Già con il bellissimo Comrades: Almost a Love Story (1996), Peter Chan aveva raccontato il conflitto insolubile dell’amore impraticabile contro il senso di responsabilizzazione, il problema del sostentamento, le costrizioni sociali nella metropoli cinese che tutto assorbe, consuma. E Us and Them fa esattamente la medesima operazione; che non significa plagiare ma porsi in continuità, ereditare una storia di cui al più cambiano gli interpreti, non il referente, non il topic, non il sentimento della rivalsa e dell’affermazione ad amare e a farsi investire da esso. Una storia che molti autori cinesi e hongkonghesi necessitano di ripetere e rinsaldare attraverso il cinema, come se tale azione divenisse un mantra per sfuggire al dispositivo del capitalismo sfrenato, del controllo statale, alla corrosione identitaria, per ricordarsi con le immagini la forma dei sentimenti, e come viverli autenticamente.

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Rene Liu Jing Boran Zhou Dongyu 118 minuti
Cina 2018
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The Forest of Love

di Andreina Di Sanzo
the-forest-of-love-recensione

Onirico, dissacrante, violento e mélo, Sion Sono torna questa volta con un film per Netflix e lo fa mantenendo la sua poetica e realizzando un piccolo compendio della sua filmografia. The Forest of Love racconta tutto l’universo del prolifico regista giapponese, circa due ore e mezzo di caos, generi che si mescolano, temi ricorrenti, citazioni e auto-parodie. Insomma, il colosso Netflix non ha scalfito l’estro e l’intento di Sono che, anche in questo film, non inciampa in nessuna logica sovraimposta.

Mitsuko è una ragazza problematica che soffre per la morte di un’amica e vive segregata in casa. Quando però Taeko cerca di coinvolgerla a seguire un gruppo di ragazzi per girare un film, strane incursioni esterne iniziano a farsi spazio nel quotidiano virandolo in un eccentrico grand-guignol di sangue, devianze sessuali ed efferati omicidi.

Un film imprevedibile, ricco di cambi di registri e risvolti inaspettati come solo i grandi nipponici sanno intavolare. Non manca nulla dei capolavori che hanno reso celebre Sion Sono: le adolescenti alienate di Suicide Club, il serial killer di Cold Fish e l’imponenza di Love Exposure, e le sue perversioni. Non è facile stare al passo di un film così irruento e vorticoso ma è anche questa la sua forza, il cinema di Sion Sono, misantropo e pessimista, con The Forest of Love dipinge ancora una volta giovani alienati intrappolati nelle mani di un mondo cinico e violento, incarnato questa volta da un truffatore. Metafora di una società senza speranza, di generazioni che si districano nel disagio suscitato da quella parte di adulti che li sfrutta. Ma da questo meccanismo non nasce rabbia, bensì una sorta di sindrome di Stoccolma che afferra tutti i protagonisti: piuttosto che odiare quel truffatore, innescano una serie di meccanismi erotico-romantici con tanto di rimandi shakespeariani. E Sion Sono sa come giocare con l’autoreferenzialità, quello che stanno facendo i suoi personaggi è una messa in scena, è il personale film che stanno realizzando per poter affermare la propria esistenza.

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The Forest of Love, titolo evocativo quanto ironico, è anche il cinema, terra di false speranze e teatro di carne da macello. Perché non mancano le virate al gore e al sadismo più immotivato. Il regista giapponese, come un burattinaio, gioca con i suoi personaggi divertendosi a torturarli nella meschinità e nel dolore delle loro vite, cerca di tirare al massimo la sofferenza e di lasciarli annegare senza essere protetti.

Basato su eventi realmente accaduti a fine anni '90, il film riesce a fare perdere interesse per la risoluzione del caso, questo perché, la potenza visiva di un autore come Sono travalica qualsiasi mente investigativa e lascia al puro piacere visivo. Nella prima parte, divisa in episodi irregolari, il film offre una serie di informazioni per cui lo spettatore inizia con difficoltà a districarsi. Andando avanti questo squilibrio diventa prepotente sino alla totale ipertrofia. Di pari passo si dispiegano le vicende e i traumi delle protagoniste: Mitsuko, vergine e depressa, e Taeko, trasgressiva e dirompente. Il trauma, imprescindibile tassello della filmografia di Sono, così come emerge all’interno dei personaggi, viene rappresentato nella non-linearità narrativa del film. Tutto questo senza piegarsi però alla via dell’indulgenza. Un crescendo di emotività, dolore e visionarietà.

Come sempre nel suo cinema, Sion Sono dipinge un mondo sopra le righe, corrotto e depravato, portando alle estreme conseguenze violenza e sesso, ma con alla base un discorso preciso. Nel caso di The Forest of Love si parla di autore e opera, creazione artistica e linea tra arte e agonia, autore e attore, burattinaio e burattini. Qui la realizzazione di un film impossibile. Ancora una volta, una lettera d’amore (e di sangue) per il cinema.
[Disponibile anche una versione Deep Cut che aggiunge all’operazione quasi il doppio del minutaggio iniziale].

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Sion Sono Kippei Shîna Shinnosuke Mitsushima Kyoko Hinami 151 minuti
Giappone 2019
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