L’età inquieta

di Emanuele Di Nicola
L'età inquieta di Bruno Dumont

Festival di Cannes, 1997. Mentre Michael Haneke presenta in concorso Funny Games e Wong Kar-wai arriva sulla Croisette con Happy Together, i capodopera di due orientali vincono insieme la Palma d’oro: la giuria di Isabelle Adjani premia ex aequo L’anguilla di Shōhei Imamura e Il sapore della ciliegia di Abbas Kiarostami. Siamo nel cinema di fine millennio: a cavallo tra i secoli alcuni cineasti maturi ottengono la consacrazione e nuovi autori si affermano nei rispettivi linguaggi, dallo sguardo clinico hanekiano al magistero di Wong ormai definito. Ma in quel festival accade anche un altro evento, lontano dai riflettori principali, in uno spazio periferico: un certo Bruno Dumont presenta il suo esordio al lungometraggio, La vie de Jésus, nella sezione Quinzaine des Réalisateurs. Vincerà la Caméra d’or come menzione speciale. Il film uscirà in Italia con il titolo L’età inquieta, forse parafrasando L’età acerba, titolo affibbiato tre anni prima a Les roseaux sauvages di André Téchiné.

Quando approda alla kermesse Bruno Dumont è un ex insegnante di filosofia nato a Bailleul, nella Francia del Nord, che lavora principalmente in Belgio: ha già girato due cortometraggi come apprendistato prima di passare al lungo. Malgrado la formazione filosofica ha sviluppato un pensiero radicalmente anti-intellettuale: rifiuta il cervello e l’arzigogolo, crede nella necessità di mostrare. Ama la pittura, quella fiamminga a lui vicina ma non solo, spesso la riversa nei suoi titoli: ne L’umanità si spingerà a ricreare sullo schermo L’origine del mondo di Gustave Courbet. È innamorato di Robert Bresson: l’autore de Il diavolo probabilmente sarà sempre la sua stella polare, e lo si afferma non a caso citando il capolavoro del 1977 con il profondo nichilismo del protagonista interpretato da Antoine Monnier, una figura che respinge il mondo e sceglie la chiusura, fantasma che infesta trasversalmente il cinema dumontiano. Anche se l’archetipo bressoniano - e prima dreyeriano - che più riguarda Dumont è quello di Giovanna D’Arco, che il cineasta arriverà a rifare in un dittico. Prima di lui, in realtà, c’era stato un altro regista post-bressoniano con cui lo stesso Dumont dialoga: Maurice Pialat. Basti fare un esperimento: si vedano in sequenza Diario di un curato di campagna (Bresson), Sotto il sole di Satana (Pialat) e Hadewijch (Dumont) ragionando sulla linea che va dalla fede alla sua deformazione, dal credere al suo contrario fino al germogliare del Male con la maiuscola, nascosto dietro al quotidiano - e all’immagine - pronto a mettere radici. Oppure si confrontino due poliziotti: il Pharaon de L’umanità di Dumont, secondo lungometraggio del ’99 che del primo è diretta evoluzione, e il poliziotto Margin incarnato da Depardieu in Police (Pialat, 1985), entrambi invischiati in quel Male a cui di fatto partecipano.

Al centro de La vie de Jésus c’è Freddy (l’attore non professionista David Douche, come tutti), giovane epilettico che vive in un paesino delle Fiandre. La sua vita scorre in una grigia quotidianità tra gli amici, le corse in motorino e la ragazza Marie (Marjorie Cottreel), che fa la cassiera in un supermercato. Spesso fanno sesso o si baciano davanti agli altri, ma il loro è un gesto meccanico, senza amore né passione, pura ginnastica. La routine si inceppa quando nel piccolo centro arriva Kader (Kader Chaatouf), un ragazzo di origine magrebina che cerca di avvicinarsi proprio a Marie... Perché questa storia di provincia si chiama La vita di Gesù? Dumont sceglie un titolo evocativo, anti-narrativo, chiamando in causa lo spettatore e convocandolo all’interpretazione: nella prima parte del racconto, a un certo punto, gli amici si recano in ospedale per visitare un loro compagno che sta morendo di Aids (e torna ancora Pialat: rivedere La gueule ouverte, 1974). Sul muro c’è una copia de La resurrezione di Lazzaro di Giotto, che suona antifrastica rispetto alla condizione, perché la figura che vediamo morente non risorgerà. Dietro alla superficie da subito comincia a insinuarsi qualcosa, un umore strisciante che vive sotto il velo dell’immagine e gradualmente viene alla luce.

L'età inquieta di Bruno Dumont

«L’idea è quella di filmare il Male, di dargli una forma - dice Dumont - : ma che cos’è il Male? È filmare un uomo: raccontare una storia cercando di portar fuori il Male, facendolo uscire dall’interno di tutti gli spettatori». In questo processo maieutico la sostanza di cui il regista si nutre ha un nome preciso: xenofobia. Il razzismo tacitamente si affaccia nella mera esistenza dei ragazzi, nel loro tirare a campare: non si tratta però di un odio esplicito o spiegato, neanche di un sentimento, ma di un istinto lontano anni luce da ogni sociologismo, un raptus, uno “scatto” iscritto nella loro natura degradata e quindi nello statuto precario dell’essere umano. «Sgozziamoli tutti», dice Freddy parlando dei migranti arabi, e lo dice con leggerezza, ridendo, in uno scherzo tra amici. Senza motivo. Forse per noia, automaticamente: allo stesso modo con cui gli adolescenti eseguono le prove della banda musicale, senza particolare adesione, come gusci vuoti. È così che si forma la repulsione verso l’altro, il diverso, il distante da noi, un rifiuto che imbocca il percorso naturalmente indirizzato verso la tragedia.

Ma, come detto, in Dumont nulla viene detto. Tutto è davanti agli occhi. Per suggerire la vera essenza dei suoi personaggi l’autore si affida a un elemento preciso: il paesaggio. «La ripresa dei paesaggi nel mio cinema non ha niente a che vedere con il reale (...): penso che sia espressione di un’interiorità. Quando filmo un paesaggio sto filmando l’interiorità del personaggio» (conversazione con Bruno Dumont di Enrico Lo Coco e Marco Grifò, Lo Specchio Scuro, 7 aprile 2018). Le Fiandre sono per l’autore un luogo dell’anima, uno state of mind. Daranno il titolo al suo film del 2006, Flandres. Sono come le Ardenne per Fabrice du Welz, ma in modo diverso: Dumont fa dialogare il paesaggio con il personaggio attraverso l’inquadratura. Tra piani fissi, profondità di campo e lenti movimenti di macchina Freddy e i suoi amici si riflettono nello sfondo fiammingo brullo e desolato, come in un quadro di Pieter Bruegel. Questo serve a suggerire l’intimo delle loro figure e a innescare il processo di “estrazione” dallo spettatore: solo osservando attentamente l’esterno si capisce veramente chi sono. La quintessenza della strategia, ne L’età inquieta, avviene nel finale quando Freddy si sdraia a terra dopo il delitto, entrando in contatto fisico col terreno, ricongiungendosi così matericamente alla propria ferinità. Il controcampo offerto dal movimento di macchina dumontiano è una veduta del paesaggio belga: l’erba mossa dal vento, il cielo nuvoloso. L’uomo è anche, soprattutto, animale.

L’età inquieta ha spaccato il cinema di fine anni Novanta. Con forza ha proposto un nuovo autore radicale, francescano “dalla parte sbagliata”, ovvero provocatorio, rigoroso, a suo modo puro perché capace di creare senso solo attraverso l’immagine. Di portare avanti la lezione di Bresson. È l’inizio di un talento poi diventato aggettivo: di un certo cinema oggi si dice “dumontiano”, per esempio il tedesco Philip Gröning, quello de La moglie del poliziotto e soprattutto dell’inedito My Brother’s Name is Robert and He is an Idiot, è un regista dumontiano. Adesso, quasi venticinque anni dopo, questo titolo resta una testimonianza del primo Dumont, il più inflessibile e spietato, prima che nei nostri anni prenda un percorso diverso, forzando la virgola che separa il tragico dal comico e il dramma dalla farsa (si pensi a Ma Loute o la serie P’tit Quinquin). All’epoca si leggeva la sorpresa in filigrana anche nei Cahiers du cinéma: «Ecco un bellissimo film a forma di imbuto (...). Una forma che diventa affascinante quando, come ne L’Argent, la narrazione si stringe e passa dall’aneddotico all’improbabile per finire nella cronaca: un giovane ne uccide un altro. Un omicidio così logico, di una logica così semplice, che paradossalmente sembra accadere per caso» (Thierry Lounas, giugno 1997).

L’esordio di Dumont chiude il Novecento e anticipa il razzismo del nuovo millennio, le aggressioni per noia, le rivolte nelle banlieue, insomma i segni del grande Male contemporaneo: ma resta soprattutto la nascita di uno dei maggiori registi di oggi, autore di un cinema tanto cristallino quanto scomodo, tanto ineffabile quanto sconcertante, perché con l’immagine mette l’anima allo specchio.

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Bruno Dumont David Douche Marjorie Cottreel Kader Chaatouf 97 minuti
Francia
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Possessor

di Mattia Caruso
Possessor - recensione film cronenberg

A volte è una linea sottile quella che separa l'horror dalla fantascienza. Così come può essere (almeno apparentemente) sottile lo scarto tra due autori e le loro rispettive poetiche. È su questa prossimità e comunanza che si dispiega inevitabilmente il cinema di Brandon Conenberg. Un dispositivo capace di coniugare in maniera perturbante generi differenti e insieme di farsi naturale continuatore di chi con quei generi ha giocato per più di mezzo secolo. Pare quasi il seguito ideale dell'eXistenZ del padre David (e non solo per la presenza di Jennifer Jason Leigh), d'altronde, Possessor, un thriller fantascientifico dalle derive horror aggiornato ai tempi di un tardo capitalismo spietato e cannibale. È qui, mentre multinazionali senza scrupoli entrano nella mente di uomini ignari per eliminare i rivali in affari, che l'esperta sicaria Tasya Voss (Andrea Riseborough) comincia ad accusare i colpi di quello sporco lavoro, perdendo mano a mano il controllo della propria identità e il contatto con una realtà sempre più labile e indefinibile.

Dopo l'esordio di Antiviral è a suo modo ancora con la malattia che torna a confrontarsi dunque Cronenberg Jr.. Questa volta nelle forme di un parassita umanissimo, coi suoi dubbi e le sue paure che, alla maniera di un virus tecnologico dotato di coscienza, entra nel cervello e nel corpo altrui prendendone il possesso e facendolo proprio. Perché è sempre e comunque il corpo a essere protagonista e centro indiscusso dell'universo cronenberghiano, un corpo martoriato, ferito, sanguinante (non pochi e decisamente inventivi i momenti splatter e gore), in costante conflitto con una mente scissa e instabile, senza più il controllo di sé e della propria volontà, ormai incapace di prendersi le responsabilità delle proprie azioni.
Tra body horror e derive psichiche, esplosioni di violenza e deliri allucinatori, il film di Cronenberg si fa così (con le dovute prospettive) quasi una summa tematica ed espressiva della poetica paterna, coniugando in un solo prodotto gli estremi della sua filmografia e costruendo un sanguinoso e grottesco affresco su una società egoista e deresponsabilizzata che ha perso ormai ogni coordinata etica e morale.

Problematicizzando e ampliando il concetto di voyeurismo – un voyeurismo dettato non più dalla patologia ma dal puro interesse economico – e di responsabilità dello sguardo, Possessor conferma così, in un crescendo esasperato dove identità e prospettive si confondono fino a perdersi, la capacità del suo autore di non perdere mai di vista le storture e le derive del suo tempo, facendone per questo ben più di un semplice e scontato epigono del cinema paterno.

 

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Brandon Cronenberg Andrea Riseborough Jennifer Jason Leigh Christopher Abbott Sean Bean 104 minuti
Canada, Gran Bretagna, USA 2020
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Sto pensando di finirla qui

di Veronica Vituzzi
I'm thinking of ending things - kaufman recensione film netflix

Se c’è una chiave di lettura utile per penetrare nell’enigma di Sto pensando di finirla qui (I'm Thinking of Ending Things) sta tutta nel lavoro di sceneggiatore dello stesso Charlie Kaufman, qui alla sua terza regia. La sua scrittura cinematografica si realizza quasi esclusivamente negli spazi evanescenti della mente umana, materializzata in architetture e paesaggi della memoria (Eternal sunshine of the spotless mind), posti apparentemente razionali che perdono pian piano ogni coerenza spazio-temporale (Syneddoche, New York). D’altra parte noi esseri umani non possiamo che rappresentarci mentalmente la coscienza e la memoria come luoghi da visitare fatti di infinite stanze, alcune aperte e altre chiuse a chiave, alternate a panorami fantastici in una complessa costruzione ripetutamente allestita e poi ridotta in macerie dalla nostra psiche. In un certo senso sembra sempre più facile tornare alla dimensione del passato, perché trattasi di architetture già conosciute, semplici da riallestire col pensiero. Eppure, come chiunque abbia intrapreso una terapia psicoanalitica saprà, queste possono rivelarsi spazi sfuggenti e incerti che colgono di sorpresa e terrore.

Tratto dall’omonimo romanzo di Iain Reid, il film distribuito da Netflix si apre su una nota romantica: la prima visita di Lucy ai genitori di Jake, ragazzo che frequenta da qualche settimana. È un evento importante che segnala un passo decisivo nella loro storia, eppure la ragazza non smette di pensare che in realtà dovrebbero proprio farla finita. Non sa spiegarsi perché, dato che Jack le piace molto, tuttavia quel pensiero le torna di continuo in mente.  L’arrivo nella casa dei genitori di Jack, una fattoria sperduta in campagna, dà il via a una serie di episodi al limite tra il l’imbarazzo e il disagio, in un’atmosfera straniante. La casa è anomala, rivela pian piano dettagli confusamente noti e luoghi proibiti, mentre racconti di storie familiari si intrecciano col pensiero interiore di Lucy che diviene una sorta di spettatrice della persona di Jake, e al tempo stesso riceve al cellulare continue chiamate da sé stessa e messaggi ossessivi di un uomo sconosciuto.

La confusione narrativa di Sto pensando di finirla qui si chiarisce nel momento in cui la si rapporta al lavorio di voci dentro il cervello, macchina narrante che produce idee e instaura una discussione con sé stessa. Come se citasse a memoria, Lucy elabora discorsi che sembrano quasi scritti tanto sono ben espressi, e Jack le fa eco. Continui riavvicinamenti affettuosi non eliminano un senso di timore verso una possibilità di catastrofe, una decisione finale che sottintende un taglio netto. Ma con cosa? Si introducono immagini del futuro e del passato, i personaggi cambiano di età, i discorsi riecheggiano l’antica possibilità di Jack di fare grandi cose nella sua vita, grazie a un’intelligenza superiore accompagnata da una timidezza patologica.  Di viaggio in viaggio dalla fattoria al liceo di Jack, immersi in una tempesta di neve che sembra annichilire ogni sfondo sociale, la coppia è sola come lo sono i pensieri di una mente smarrita, che lenisce la solitudine con letture e riflessioni, immagini fantastiche prese dalla realtà: un film romantico di Robert Zemeckis, un ballo appassionato, un finale alla A Beautiful Mind traslato in musical.

Kaufman riesce a descrivere lo spazio psichico di una persona che pur frantumata in voci dentro la propria testa è sempre sé stessa. Ironicamente, l’attività mentale che prevede l’elaborazione di un pensiero del tutto slegato dalla realtà in un racconto auto referenziato è detta in gergo ‘farsi un film’ ed è proprio quello che Jack sta facendo. In virtù del suo straordinario bisogno emotivo, pretende uno spettatore – si vedano i frequenti passaggi di camera da Jack e Lucy –  ma vuole essere visto in sostanza da sé stesso, e in quell’atto accettarsi e assolversi da tutti i propri fallimenti. Lucy, figura senza memoria del proprio passato, che vagamente si occupa con talento di fisica, scrive poesie e dipinge, rafforza l’autostima del ragazzo perché ne riconosce il valore soltanto mostrando di voler stare con lui. Ciò nonostante la voce di Lucy si ribella slegandosi dalla narrazione di Jack, cresce di indipendenza, come una mente in conflitto con sé stessa.

E allora forse è davvero il caso di farla finita qui; finirla con le aspettative deluse, i rimpianti, i sogni fantastici di finali perfetti, in una sofferta accettazione della propria esistenza, per elaborare un happy ending che è tale solo per il sollievo di una piena riappacificazione con la realtà, una resa definitiva alla vita e della vita. Una mente contorta è fatta di pensieri intricati, e il film riproduce perfettamente questa complessa struttura cerebrale, per cui, lungi dal presentarsi in maniera univoca, Sto pensando di finirla qui ha la precisa esigenza di adattarsi a questo sistema, farsi incoerente, verboso e discontinuo, svilupparsi per più livelli di significato. Chi è abituato a dialoghi tormentati con la propria testa si troverà perfettamente a suo agio con lo stile di Kaufman: con l’aggiuntivo sollievo, poi, di passare due ore entro un cervello che, per una volta, non è il suo.

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Charlie Kaufman Jessie Buckley Jesse Plemons Toni Collette David Thewlis Guy Boyd 134 minuti
USA 2020
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The Turning

di Nicolò Comencini
The Turning - recensione film james sigismondi

Le trasposizioni cinematografiche dei grandi classici della letteratura sono sempre scommesse difficili. Ne sa qualcosa il racconto di Henry James Il giro di vite, adattato al piccolo e al grande schermo innumerevoli volte — talvolta con successo, come nel caso dell’acclamato Suspense di Jack Clayton, più spesso con risultati mediocri. L’ultimo tentativo in termini cronologici è The Turning, lungometraggio diretto dall’esperta videomaker e fotografa Flora Sigismondi, accolto freddamente da pubblico e critica.

Del progetto si parla dal 2016, quando fu rivelato che Steven Spielberg avrebbe seguito come produttore esecutivo un adattamento del racconto di James. La sceneggiatura del film, inizialmente intitolato Haunted, fu affidata a Chad e Carey Hayes (The Conjuring 1 & 2) e la regia a Juan Carlos Fresnadillo, ma a causa di un rimaneggiamento dello script il progetto naufragò e la produzione decise di affidare la regia a Sigismondi, nota soprattutto per aver diretto video di artisti quali Marylin Manson e David Bowie, oltre che alcuni episodi di serie come American Gods e The Handmaid’s Tale. Il film è infine uscito negli USA il 24 gennaio 2020, mentre, malgrado una diffusione annunciata dalla 01 Distribution per l’11 agosto, è scomparso dalla programmazione delle sale italiane.

Lo scheletro narrativo della pellicola rimane abbastanza fedele alla trama del Giro di vite: una giovane educatrice (che nel film si chiama Kate ed è interpretata da Mackenzie Davis) accetta l’incarico di prendersi cura a tempo pieno della piccola Flora (Brooklynn Prince) in una maestosa tenuta di campagna. Il ritorno a casa del fratello maggiore Miles (interpretato da Finn Wolfhard di Stranger Things) e una serie di eventi misteriosi legati a due figure spettrali iniziano però a turbare l’ordine degli eventi. Al quadro si aggiunge il personaggio della madre della protagonista (Joely Richardson), ricoverata in un ospedale psichiatrico.
Ed è proprio sulla figura materna, sulla follia e sull’aspetto ereditario di quest’ultima che il film sembra mettere l’accento, sfiorando tematiche famigliari frequenti nel nuovo horror americano (si pensi al cinema di Ari Aster). Le figure parentali evocate nel film sono assenti o disfunzionali: Flora e Miles sono orfani, mentre la protagonista è cresciuta sola con la madre e i suoi disturbi psichici. Questo vuoto sembra essere colmato in qualche modo dalla casa stessa, sorta di madre-mostro che avvolge in una lugubre stretta i protagonisti della pellicola. I corridoi oscuri e i labirinti della tenuta di Fairchild Estate (Bly Manor nel racconto di James) sono una prigione uterina, da cui ogni fuga risulta impossibile. E, sebbene il film non sia all’altezza delle aspettative, Sigismondi si rivela molto abile nel seminare indizi servendosi della propria cultura artistica e musicale. 

La cura della colonna sonora è in questo senso l’aspetto probabilmente più riuscito del film: nonostante i riferimenti a Cobain, Sigismondi ha intenzionalmente escluso dal film i classici rock/punk/grunge degli anni ‘90, puntando invece su brani originali in chiave retrò. La composizione è stata affidata a grandi nomi della scena musicale quali Courtney Love, Mitski e Kali Uchis, con l’intento, forse perturbante in senso freudiano, di mettere lo spettatore di fronte a tracce sconosciute dalle sonorità familiari. Titoli come Mother e Womb, composti rispettivamente da Love e Cherry Glazer, sembrano corroborare la lettura della “casa-madre”, ma l’indizio più rilevante è di natura pittorica: su una parete della stanza di Miles intravediamo una quadro di Egon Schiele, Die tote mutter (“La madre morta”). Il dipinto raffigura il cadavere di una donna che porta in grembo un feto dalle tinte ancora vive. Quest’ultimo sembra tentare invano di sfuggire alla cupa prigione materna, ma non può salvarsi dalla tragica fine: il destino della madre determina quello della prole. Impossibile non leggere nella scelta di quest’opera un’eco del tetro abbraccio di Fairchild Estate, da cui nessun personaggio sembra poter fuggire, e ancor di più un rimando al destino di Kate, inevitabilmente legato a quello della madre (che non a caso comunica con la figlia quasi esclusivamente tramite la pittura).

Nonostante il buon cast, le ambientazioni studiate e una certa cura dei dettagli, The Turning non riesce a coinvolgere e a riprodurre l’atmosfera fantastica e soffocante che ci si aspetterebbe. Il ricorso maldestro allo jumpscare e una sceneggiatura non all’altezza del progetto rendono il tutto piuttosto insipido. Henry James era, secondo Virginia Wolf, in grado di «farci avere ancora paura del buio»: la stessa cosa non si può certo dire per questo progetto che, probabilmente a causa dei troppi intoppi incontrati in fase di sviluppo, non entrerà nel pantheon delle trasposizioni cinematografiche più riuscite. Nemmeno l’enigmatico finale, unica vera sorpresa in una narrazione altrimenti scontata, riesce a compensare l’assenza di ritmo e di audacia, e l’impressione ultima è quella di trovarsi di fronte a un’occasione mancata, dalle buone potenzialità certo ma nel complesso piatta e incompleta.
A chi sperava in una buona rilettura contemporanea del racconto di James non rimane che incrociare le dita per The Haunting, la serie antologica di Mike Flanagan per Netflix, la cui seconda stagione, in uscita sulla piattaforma streaming il prossimo 9 ottobre, sarà dedicata ai misteri di Bly Manor. 

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Floria Sigismondi Mackenzie Davis Finn Wolfhard Brooklynn Prince Joely Richardson 94 minuti
USA 2020
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Tenet e il Covid. Una sovrainterpretazione

di Emanuele Di Nicola
tenet covid film nolan recensione

Il Protagonista di Tenet, John David Washington, fa il suo ingresso nel tempo invertito e indossa una maschera per l’ossigeno: i suoi polmoni in inversione, infatti, non potrebbero respirare aria normale. Questo gesto, questa immagine ne richiama inevitabilmente un’altra dell’oggi, strappata alla cronaca: la maschera di ossigeno dei malati gravi di Covid-19. Nolan inscena l’inversione temporale: e cos’è un virus che diventa pandemia, se non un ribaltamento del tempo lineare, dove tempo va inteso anche come epoca e presente? Leggere il film di Christopher Nolan alla luce del Covid è, ovviamente, sovrainterpretare. È una lettura impossibile. Tenet è stato realizzato ben prima dell’epidemia, e pensato prima ancora (Nolan lo covava da anni), dunque non può in alcun modo rifarsi “concretamente” al nuovo virus. Ma c’è un legame ideale. Il dialogo tra Tenet e il Covid non si svolge infatti sul mero terreno della metafora narrativa, del cinema che riscrive la realtà, bensì nel campo più ampio dello spirito del tempo: è lo Zeitgeist che Tenet coltiva, a cui partecipa, e lo spirito attuale non può che essere virologico.

Nella sua spiegazione da blockbuster medio hollywoodiano, il Sator di Kenneth Branagh risponde alla domanda angolare di Tenet: perché il futuro fa la guerra al passato? L’uomo ha prosciugato i fiumi, dice il villain bondiano di turno, ha alzato il livello dei mari. Potrebbe anche aggiungere: ha diffuso un nuovo virus. Se il tempo lineare era il nostro presente, il Covid è stata la sua inversione: Nolan non ha previsto un virus, ma ha intuito che la cronologia del contemporaneo si può improvvisamente invertire. Ha posto un’ipotesi epocale che si è rivelata “giusta”. Come, si parva licet, fece Nanni Moretti nella rinuncia papale di Habemus Papam. Ma c’è di più: nelle pieghe dell’universo nolaniano, nell’ennesimo oggetto consegnato ai suoi esegeti, si trovano altre sconcertanti tracce dell’oggi.

Perché il Protagonista tiene così tanto alla Kat di Elizabeth Debicki? Perché l’automatismo dello spionaggio si inceppa di fronte a questa donna? Egli è disposto a rischiare tutto, a mettere in discussione, ma non c’è motivo apparente. La possibile love story non sboccia, viene castigata da un bacio sulla guancia. E allora? Allora il mondo nolaniano è affetto dal virus dell’inversione, che può facilmente scatenare una pandemia. Qui il problema è come restare umani, come non lasciarsi divorare dall’ingranaggio meccanico e anaffettivo: Kat diventa quindi per il Protagonista il tampone contro l’indifferenza, egli lo esegue e l’amore è il risultato negativo. L’intreccio con la contemporaneità lo rende un Nolan politico? No, piuttosto un grande autore di cinema popolare: la sua sci-fi può essere a tratti ovvia, perfino palese, può mettere il pilota automatico della battuta mainstream ma si rivela esattamente in tempo. Tenet sta a noi come 1984 di George Orwell stava al totalitarismo, oppure come il capolavoro I reietti dell’altro pianeta di Ursula K. Le Guin conversava con capitalismo e anarchismo, chiamandoli Urras e Anarres. Ma nell’era della post-politica Nolan scarta l’ideologia e si apre all’umanità. A ognuno il suo, con un punto di contatto: sono gli autori di fantascienza che sanno vivere nel proprio tempo, parteciparvi, starci dentro a piene mani. E così il dialogo impossibile tra Tenet e il Covid diviene plausibile e perfino evidente, nel ritratto di un mondo che non sappiamo come sarà domani, e nell’unica consapevolezza che esso rilascia: intervenire nel presente per non far deragliare il futuro. Perché una differenza c’è tra il tempo di Tenet e il nostro: il secondo non concede inversione.

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Speciale MUBI - The Toxic Avenger

di Jacopo Bonanni
toxic avenger - recensione film troma

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

«Per comprendere il cattivo gusto, ci vuole molto buon gusto!»
John Waters, Shock Value, 1981 

Ho visto The Toxic Avenger per la prima volta quando avevo quindici anni, rigorosamente in VHS, nell’unica versione disponibile: quella edita dalla Bulldog Video, uscita quasi dieci anni dopo la sua realizzazione. È stata un’esperienza orribile, disgustosa, riprovevole: in parole povere è stato amore a prima vista! Vent’anni dopo – come insegna Dumas – non mi sarei mai aspettato di poter tornare a parlare di quella fatidica visione grazie a MUBI, la piattaforma di streaming OTT più cinefila e performante della rete; tanto meno avrei mai immaginato di poter condividere con altri estimatori uno dei ricordi più vividi del mio percorso formativo da spettatore, legato a un periodo spensierato della mia vita che, in piena emergenza ed echi di Lockdown, sembra distante anni luce dal presente che tutti stiamo vivendo.

All'epoca dei fatti, trascorrevo gran parte del mio tempo libero dividendomi equamente tra videoteche di bassa lega, fumetterie di provincia e negozi di dischi sull’orlo del fallimento; sempre alla ricerca spasmodica di nuovi cult – di solito prodotti sadici e poco edificanti - da metabolizzare e proporre con entusiasmo agli amici di sempre. La maggior parte delle volte si finiva per ripassare a memoria i primi film horror, veraci e sanguinolenti, di Sam Raimi e Peter Jackson, fervidi sostenitori e ammiratori del filone “sLaughter” (“massacri e risate”), inaugurato dalla Troma Entartaiment, la leggendaria casa di produzione e distribuzione cinematografica fondata a metà anni settanta dalle menti deviate di Lloyd Kaufman e Michael Herz; una coppia di brillanti studenti dell'Università di Yale con una passione viscerale per il cinema fai-da-te e i "capolavori al contrario" di Ed Wood, Russ Meyer e Roger Corman.
È così che mi sono imbattuto nella loro creatura più fortunata: Toxie, il primo supereroe proletario dell'immaginaria cittadina di Tromaville in New Jersey, ovvero “la capitale mondiale dell'inquinamento tossico”. Forse l’icona più indigesta della pop-culture made in U.S.A degli anni Ottanta, sicuramente l'unica ad aver spopolato tra i giovanissimi abbondantemente in anticipo rispetto agli eroi in calzamaglia dei cinecomics moderni. Per capire l'impatto che The Toxic Avenger ha avuto sull'immaginario collettivo basta considerare che, dopo il successo inaspettato del primo film, la mascotte della Troma è riuscita a generare un redditizio franchise al punto da diventare non soltanto il protagonista indiscusso di una saga di pellicole – una più delirante dell’altra – ma anche di una miniserie pubblicata dalla Marvel, di un cartone animato prodotto dalla Fox (Toxic Crusaders), di una rock opera off-Brodway e di un merchandise talmente mostruoso da far impallidire Godzilla. Il tutto, mutilando gli arti di politici corrotti, spruzzando litri di sangue finto sul sogno americano, perorando la causa antinucleare e salvando prorompenti fanciulle da improbabili nemici sullo schermo.  

Non c’è da stupirsi, dunque, se ne rimasi subito folgorato; d’altronde ero il figlio tardivo di una generazione catodica che, come già aveva osservato qualcuno, non era più quella degli ingenui bambini cresciuti con il mito di Topolino e dei classici Disney, ma di quelli svezzati fin da piccoli alla violenza grafica e iniziati allo splatter dagli anime feroci di Go Nagai, dalle macabre trame a fumetti di Tiziano Sclavi, dai supereroi psicolabili di Todd McFarlane e da una serie di videogiochi epilettici come Quake Duke Nuken che avrebbero fatto scuola. Tutti segnali che presagivano una rivoluzione in atto nei canoni dell’intrattenimento da parte dell’industria culturale, che avrebbe azzerato definitivamente i confini tra cultura “alta” e cultura “bassa”.
Infatti con il nuovo millennio alle porte, il pubblico dentro e fuori dalle sale era stato travolto dall’attitudine punk di un certo tipo di cinema popolare senza compromessi - orgogliosamente exploitation – dal carattere esasperato e dalle tinte nerissime che aveva iniziato – proprio in quel periodo - a essere riscoperto e “culturalizzato”; nobilitando un patrimonio sotterraneo di autori bistrattati e risvegliando l’interesse dei più importanti festival cinematografici internazionali. Un fenomeno dilagante, basato sul crescente entusiasmo maturato da una nuova comunità cinefila, che si era formata intorno ai valori e ai lavori di registi postmoderni come Quentin Tarantino  e che allargava i propri orizzonti di riferimento, informandosi sulle pagine di riviste di settore come “Fangoria” in America e “Nocturno” in Italia.
Parliamo di una realtà che affondava le sue radici nel cinema di genere più radicale, quello nato in “cattività” a partire dagli anni ‘50 all’ombra delle major hollywoodiane, ghettizzato dalla critica ufficiale ma che, tuttavia, si sarebbe diffuso capillarmente nei decenni a seguire prima grazie alla proliferazione dei drive-in, dopo grazie all’avvento della televisione ma soprattutto come diretta conseguenza dell’esplosione del mercato home video; fino ad approdare più o meno legalmente sul web, concedendo a tutti gli appassionati la possibilità di accedere a contenuti precedentemente impensabili, come film scarsamente considerati o distribuiti.

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Tra le proposte più audaci ero stato rapito dall'indole ribelle e politicamente scorretta delle irriverenti produzioni della Troma Entertainment : un repertorio proteiforme di pellicole ultra lowbudget dallo stile cartoonesco, gli intenti satirici e il linguaggio scurrile, che spaziavano dalla parodia demenziale (Tromeo and Juliet) al meta cinema (Terror Firmer), transitando per il musical horror (Cannibal!). Film che di solito promettevano più di quanto riuscivano a mantenere ma che ai miei occhi sembravano semplicemente irresistibili; complice la mia fascinazione adolescenziale per la scena musicale shock rock statunitense a cui si ispiravano (Alice Cooper, Kiss, W.A.S.P) ma in particolar modo per la loro vocazione anarchica verso quell'universo gore che veniva puntualmente bollato come oltraggioso, blasfemo e di cattivo gusto. Insomma, per tutto quello che personalmente reputavo “sublime” perché imprevedibile e inafferrabile e, in quanto tale, capace di minare i presupposti di una realtà statica e immutabile, di distruggere le convenzioni sociali e di provocare contemporaneamente sentimenti apparentemente inconciliabili di repulsione e attrazione; trascendendo ogni forma di manicheismo e riducendo al silenzio i pareri degli esperti a suon di sberleffi. E cosa poteva esserci, allora, di più sublime delle avventure di uno sfortunato inserviente - “nuclearizzato” da un branco di bulli – che finiva per trasformarsi in un freak dai super poteri, a metà strada tra Swamp Thing e il mostro di Frankeinstein? Più attraente della bizzarra storia d’amore tra un mutante in età scolare alto un metro e ottanta e una ragazza non vedente? Più iconico di un nerd che si ergeva a virtuoso giustiziere di tutti i reietti per combattere i soprusi delle multinazionali, armato solo di un comune spazzolone e di una dose truculenta di sarcasmo? Solo The Toxic Avenger, appunto.

Nell’analizzarlo più attentamente, a distanza di tempo, risulta un prodotto atipico anche per gli standard degli anni ottanta, un’opera buffa che pur celebrando i generi più in voga al momento nascondeva sapientemente, dietro la verve cialtronesca dell’involucro, una cura maniacale per i dettagli: dal sonoro al montaggio, dal make-up alla messa in scena; tipica di chi ha masticato il cinema a 360 gradi. È innegabile il talento fuori dal comune nell’aggirare i limiti tecnici e quelli di budget di due registi come Kaufman e Herz, che da abili artigiani o navigati truffatori sono riusciti a elevare l’“arte di arrangiarsi” - propria di ogni filmmaker alle prime armi – a filosofia di vita, tanto da brevettarla come “marchio di fabbrica” di proprietà della Troma Entertaiment. È per queste ragioni che The Toxic Avenger resta, ancora oggi, uno dei b-movie più influenti della storia del cinema underground, un film destinato a trasformare un piccolo studio cinematografico di Long Island - dal nome cacofonico - specializzato inizialmente in commedie sexy adolescenziali (Waitress, Squeeze Play!) nella "mecca" delle produzioni indipendenti più longeva degli Stati Uniti, una sorta di “zona franca” famosa per aver avuto la sfrontatezza di dare forma e sostanza ai sogni proibiti di ogni cinefilo incallito; realizzando film surreali con protagonisti nonne cannibali, polli zombie e surfisti nazisti, senza mai rinunciare ad una dose massiccia di (auto)ironia. La stessa casa di produzione che, contemporaneamente, si è guadagnata il titolo di "fucina creativa di giovani talenti" ospitando, tra le proprie fila, autori esordienti come Trey Parker e Matt Stone - i futuri creatori di South Park - o un acerbo James Gunn, oltre a una nutrita schiera di attori di successo del calibro di Kevin Costner, Billy Bob Thornton e Samuel L. Jackson.  

Questo solo per citare alcuni esempi illustri che hanno contribuito ad alimentare la fama di deus ex machina di Lloyd Kaufman, il “primo cittadino” di Tromaville. A prima vista, nessuno penserebbe che dietro il sorriso smagliante e la battuta pronta del mite settantenne newyorkese si possa celare una personalità strabordante, capace di conciliare nella stessa persona l’indole da imbonitore di William Castle, l’irriverenza infantile di Mel Brooks e il fiuto per gli affari dell’amico Stan Lee. Nell’arco di quarant’anni di (dis)onorata carriera, Kaufman non ha mai smesso di fare quello che gli riesce meglio: resistere alla pressione dei grandi conglomerati mediatici e continuare a produrre film in cui crede. L’arzillo creatore della Troma non ha perso un grammo della vena polemica degli esordi quando, memore di una breve esperienza come consulente presso gli studios, rivendicava il pieno controllo da parte dell’autore sulle proprie opere, senza alcuna ingerenza esterna. Un atteggiamento granitico che lo ha iscritto automaticamente nella black list degli indesiderati di Hollywood ma garantendogli, in compenso, un’autonomia autoriale e una libertà d’azione sempre più rara nell’ambito mainstream.  

Oggi la Troma è più viva che mai e può vantare un catalogo sterminato con all’attivo oltre 1000 film, tra quelli prodotti, acquistati e distribuiti per l’home video; un festival a suo nome, il Tromadance Festival; un sito di streaming, Troma Now, ma soprattutto un esercito di fan in tutto il mondo, più simili alla setta di un culto pagano che a un fan club, disposti a tutto pur di supportare l’ultimo,ostinato, baluardo contro il monopolio dell’immaginazione. E poco importa se in molti continuano a considerarla unicamente come una volgare casa di produzione di pellicole di infimo ordine che si muovono all’interno di schemi risaputi e ripetitivi, perché gli spettatori più allenati sanno bene che guardare un film della Troma, anche il più brutto o noioso, non è mai tempo perso, perché se ne può sempre ricavare qualche stimolo: quel guizzo creativo, quel punto di vista verso l’inconsueto, quella prospettiva in direzione dell’inaspettato che oggi, come non mai, rendono ancora più trepidante l’attesa di poter tornare finalmente al cinema.

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Lloyd Kaufman Michael Herz Mitch Cohen Mark Torgl Andree Maranda Pat Ryan Jr. 79 minuti
USA, 1984
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Speciale MUBI / Level Five

di Gian Giacomo Petrone
Level 5 - recensione film Marker

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

I film sono eco e riverbero continui di ricordi, di visioni che definiscono luoghi, presenze, magari assenze, eventi, incontri ormai incastonati nella memoria, cristallizzati in un tempo a cui si appartiene e che pure continua a sfuggire inesorabile e inquieto. Mi riaccosto a Level Five di Chris Marker tredici anni dopo il primo contatto: era il 2007, un anno per me carico di suggestioni e avvenimenti da barrare sul calendario, dal primo e finora ultimo viaggio a Londra all’incontro con la donna che ora è mia moglie giusto un paio di mesi dopo, e appena un pugno di giorni prima della discussione della mia tesi di laurea. A proposito di connessioni mnesiche, mi sovviene che a Londra, cercando con scarsi risultati il cimitero di Highgate, dopo un vano peregrinare per una serie di spazi verdi alla Blow-Up che mi sembrava interminabile, mi imbatto in una coppia su una panchina: un uomo oltre la sessantina, con gli occhi schermati da occhiali da sole, e una giovane donna. Mi avvicino guardingo, ripassando mentalmente le formule anglofone che mi parevano più adatte a chiedere chiarimenti sull’ubicazione dell’austero luogo, quando mi accorgo che la sagoma dell’uomo ha un che di familiare: non si tratta di qualcuno che conosco, eppure l’ho già visto da qualche parte. Nel tempo di un batter di ciglia, o poco più, mi tornano alla mente le crudeli immagini del Salò pasoliniano, il ghigno e le fattezze del Duca, perché quell’uomo è Paolo Bonacelli. Per inciso, fu grazie a lui che, dopo un breve ma piacevolissimo scambio verbale, fui in grado di raggiungere il cimitero di Highgate senza altri affanni. E forse, anche in questo piccolo aneddoto c’è del cinema.

Il cofanetto della Ripley contenente Level Five lo presi a Padova, nelle settimane appena successive all’escursione londinese, e un paio di giorni dopo essermi impadronito del piccolo tesoro, la visione dei tre film in esso contenuti (oltre a Level Five, vi figurano anche La jetée e Sans soleil, entrambi parte di questo speciale) era ultimata, perché all’epoca guardavo immediatamente ciò che acquistavo: niente compere ipertrofiche, accumuli intemperanti et similia, niente archivi smisurati in cui si ammassano titoli che vengono poi scalzati da ulteriori titoli senza alcuna possibilità di smaltimento risolutivo. In quel periodo avevo ben chiaro che è possibile vedere solo un film alla volta, anche se poi ho finito col dimenticarmene. Ecco, forse mi piacerebbe recuperare quella sorta di ecologia delle immagini che era parte del mio approccio alla visione filmica alcuni anni fa: l’attesa di un titolo al di fuori dei miei possessi (sempre che si possa chiarire se e quanto si riesca a possedere un film al di là dei propri occhi, in un cieco archivio), la ricerca e magari anche la rinuncia, perché è bene che rimanga un margine, una zona morta di imponderabilità e desiderio inappagato.

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Level Five è forse uno dei titoli più adatti, non solo della library di MUBI ma in generale, per recuperare alcune delle coordinate che innervano di senso la mappa del desiderio di immagini, il ruolo dello spettatore contemporaneo al cospetto del visibile e l’irriducibilità di quest’ultimo a qualsiasi ambizione di controllo definitivo su di esso, perché le immagini sfuggono, e così la realtà e il tempo.
Laura (Catherine Belkhodja) – un omaggio all'omonima protagonista di Vertigine di Preminger – ha appena perso l’uomo che ama, ma può vivificarne il ricordo attraverso un videogioco da lui programmato, che rievoca e ripercorre l’ultimo grande evento bellico dello scacchiere del Pacifico prima di Hiroshima e Nagasaki, la battaglia di Okinawa (1° aprile-22 giugno 1945). Il compito della donna, una sorta di lascito testamentario del suo compagno, è di giungere al fatidico livello 5 per portare a termine il gioco. Per riuscire nell’impresa, Laura farà ricorso a una rete parallela a Internet, allo scopo di raccogliere indicazioni e pareri sulla battaglia, da testimoni e persone informate dei fatti.

Il più rilevante lavoro di Marker dell’ultima parte della sua carriera è un poderoso film-saggio sulla storia, il tempo, la memoria, le categorie che innervano pressoché la totalità del percorso creativo del regista, tenendo presenti anche le assonanze col cinema di Resnais, amico di Marker e talvolta suo sodale artistico. Lo scopo del gioco e del superamento dei 5 livelli che lo compongono contraddice la struttura di pressoché tutti gli strategici a turni mai concepiti fino ad allora ma anche fino a oggi, giacché l’obiettivo ultimo è l’esatta riproposizione della storia, anziché il suo ribaltamento. Si tratta di un atto di giustizia non tanto verso i fatti, quanto nei confronti delle persone che di tali fatti sono state le vittime. E quindi non è consentito barare con la realtà, giacché solo rispettandola è possibile dispiegare uno sguardo autenticamente morale sulle cose, l’unico in grado di restituire la complessità del mondo in tutte le sue molteplici sfaccettature e innumerevoli zone d’ombra. Per Marker, qualsiasi gioco chiami in causa le immagini e il tempo è serio, terribilmente serio.

A Okinawa non sono morti solo militari di ambo le parti (perlopiù nipponici), ma anche decine di migliaia di persone senza divisa, vittime della propaganda imperiale, costrette al suicidio per non cadere prigioniere del nemico: delle morti che la storia ha dimenticato. Attraverso un lavoro di concatenazione mnestica, vero punto nodale non solo di Level Five ma di tutto il cinema di Marker, si accavallano ricordi e riflessioni di personaggi di spicco della cultura giapponese, come l’artista marziale Kenji Tokitsu e il regista Nagisa Ōshima, accanto a sopravvissuti come Kinjo Shigeaki, che si interfacciano con Laura/Catherine innescando la reazione a catena delle informazioni e dei ricordi, ma anche delle immagini, che a loro volta rimandano a eventi consimili a quelli occorsi a Okinawa, come la battaglia di Saipan (15 giugno-9 luglio 1944). Nondimeno, lo scopo delle immagini non è quello di documentare la storia, ma di attivare un libero ma inevitabile processo mentale in cui la memoria individuale di Laura (e insieme dello spettatore) – agitata dai personalissimi fantasmi che la possiedono, fra elaborazione del lutto e ricerca di un senso dell’esistenza in grado di trascendere il sé – e quella collettiva trovino una difficile convergenza.

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Realizzato all’interno di un unico spazio diegetico (e profilmico), salvo alcune riprese dal vivo effettuate in Giappone, Level Five alterna le inquadrature del volto di Laura/Catherine a quelle dello schermo del computer a cui la protagonista fa riferimento per le sue ricerche e per terminare la sua impresa, anche se, come negli altri lavori di Marker, sono le voci e le parole il vero orizzonte ultimo del senso. Infatti le immagini, per parte loro, aprono la voragine del tempo, cozzano con l’imperscrutabilità del reale, innescando una stratigrafia del visibile che non può e non vuole rivelare il mistero che si cela in esso. Il volto e la voce di Laura/Catherine si alternano con quelli delle altre figure coinvolte nel progetto, oltre che con le immagini dal mondo e dal tempo che il monitor restituisce, mentre Marker si insinua in prima persona tramite voice over, solenne acusma proveniente da altri tempi e altre dimensioni. D’altro canto, i commenti vocali non hanno certo lo scopo di dare risposte, di fornire antidoti alle inquietudini della vita, bensì di farsi liturgica evocazione delle dense trame che collegano il mondo degli uomini a quello iconico, l’immaginazione al ricordo, il passato al presente e al futuro, perché forse sul grande schermo della memoria è tutto già dispiegato, magari già avvenuto, sempre identico nelle dinamiche eppure sempre diverso nelle forme.

Pur coi nostri sempre più sofisticati dispositivi, le nostre sempre più veloci connessioni, le nostre seducenti tecnologie, l’enigma del visibile, per sua stessa natura, continuerà a eccedere le nostre macchine e i nostri occhi, a sfuggire al calcolo e al controllo per immergersi nella dimensione del rischio, dell’imponderabile.  Allora può darsi che l’essenza della verità riesca a rivelarsi al soggetto capace di declinare dall’unità illusoriamente dominatrice della propria coscienza/conoscenza e di rinunciare a vedere per cominciare a guardare, per non perdersi nel caos dei segni, nell’ipertrofia del visibile, e magari per fermarsi finalmente a scrutare solo ciò che perdura oltre i confini del nostro tempo sfuggente.

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Chris Marker Catherine Belkhodja Nagisa Ōshima Kenji Tokitsu Kinjo Shigeaki 106 minuti
Francia 1997
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Speciale MUBI / Night Tide

di Giacomo Calzoni
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[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

Scomparso nel 2007 all’età di ottantuno anni, Curtis Harrington è un altro di quei nomi che sono stati dimenticati troppo presto. Eppure i motivi per cui dovrebbe essere ricordato non mancano di certo: precursore del New Queer Cinema e amico personale di James Whale negli ultimi anni di vita del grande regista inglese (fu proprio Harrington a ritrovare i negativi originali di The Old Dark House, considerati perduti); e ancora, dalla factory di Roger Corman alle collaborazioni con Kenneth Anger, dai cortometraggi sperimentali fino ai suoi titoli di maggiore successo degli anni Settanta (Chi giace nella culla della zia Ruth? e I raptus segreti di Helen, oltre ai suoi b-movies prodotti per la televisione come Devil Dog – Il cane infernale). Troppo poco per il pubblico italiano, forse, che comunque ha potuto trovare nella programmazione dei canali satellitari un buon antidoto contro l’invisibilità alla quale il regista sembrava ormai condannato.

È appunto il caso di Night Tide, il suo primo lungometraggio risalente al 1961, che oggi è possibile recuperare anche grazie a MUBI e al lavoro di restauro patrocinato da Nicolas Winding Refn (all’interno di un catalogo appositamente selezionato dall’autore danese che comprende, tra le altre cose, persino riscoperte bizzarre come Satan in High Heels e Orgy of the Dead, da una sceneggiatura di Edward D. Wood Jr.). Rivisto oggi, Night Tide è un film che sembra raccontare molto del panorama fantastico di un’epoca, quella dei primi anni Sessanta, ancora sospesa tra passato e futuro: da un lato l’inevitabile influenza del cinema classico della RKO, di Val Lewton e di Jacques Tourneur (Il bacio della pantera è il primo titolo al quale viene solitamente accostato, non a caso); dall’altro, la volontà di sganciarsi dalle coordinate più conservatrici di un genere che di lì a breve si sarebbe radicalmente trasformato nella più lucida e spietata rappresentazione della contemporaneità, da La notte dei morti viventi in poi, attraverso una libertà creativa e una vena sperimentale dichiaratamente figlia degli anni della Nouvelle Vague e del Free Cinema. Ed è propro dagli antesignani del film di Romero che bisogna ripartire per comprendere come il cinema fantastico stesse cambiando pelle, nel tentativo di confrontarsi con una realtà a sua volta sempre più mutevole e sfaccettata: Night Tide trova quindi il proprio posto accanto a titoli come Carnival of Souls di Herk Harvey (anch’esso presente su MUBI) e Spider Baby di Jack Hill, tra i primi a raccontare l’ingresso dell’orrore nel quotidiano con spirito fortemente rivoluzionario e di rottura nei confronti del passato.

La storia di un giovane marinaio in licenza (il venticinquenne Dennis Hopper, qui al suo primo ruolo come protagonista), perso tra le strade e i locali di una località di riviera fino all’incontro fatale con una bellissima ragazza che forse si rivelerà essere una sirena (o forse no), precede di un anno proprio il capolavoro di Harvey, del quale anticipa - anche visivamente - il ruolo spettrale della cittadina di provincia e del Luna Park, una sorta di American Horror (Hi)Story su un paese che è già terra di morti viventi, di solitudini e di freakshow. In Harrington il tono è fiabesco e persino tenero (nonostante la sequenza prettamente horror dell’incubo, in cui il protagonista si ritrova avvinto dai tentacoli), senza dubbio lontanissimo dalle derive più estreme del genere; eppure, al netto di alcune ingenuità e verbosità figlie del suo tempo, la presa di posizione del suo autore è lucida e incredibilmente spietata. Il sogno americano dei padri è una fairy tale che viene raccontata a bambini cresciuti senza punti di riferimento (Johnny è stato abbandonato dal padre, Mora è un’orfanella trovata da bambina su un’isola al largo della Grecia), il divario tra le generazioni si è già trasformato in abisso e a farne le spese sono sempre gli innocenti: dietro le apparenze da fantasy marino, Night Tide cela tutta l’inquietudine e la disillusione di un mondo che ha appena cominciato a mettere a nudo le bugie sulle quali si è sempre basata la propria Storia; e l’ambiguità irrisolta del finale non fa che aumentare la sensazione di disagio e di incertezza che si respira per tutto il film. A ben pensarci, non è un caso che anche nel bellissimo Noi di Jordan Peele tutto nasca da un Luna Park…

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Curtis Harrington Dennis Hopper Linda Lawson Gavin Muir Luana Anders 84 minuti
USA 1961
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Ieri/oggi - Tornare a "Strange Days"

di Saverio Felici
Strange Days recensione film Bigelow

[La storia del cinema non è un corpo morto ma un motore vivissimo. I film ci guardano e continuano a parlare, dal giorno della loro uscita ad oggi, arricchendosi del tempo che passa e della realtà che cambia. "Ieri/oggi" è una rubrica che nasce per valorizzare questo dialogo, riscoprendo film seminali e quanto ci dicono oggi sul presente].

Destoricizzare prodotti culturali del passato e ricollocarli a calci nel contesto sbagliato è un classico della critica pigra. Ci sono casi però in cui il confronto esteso con il presente è addirittura obbligatorio; film spesso insospettabili, che a differenza di altre opere “urgenti” a scadenza mensile, chiedono di essere ritirati fuori in continuazione, anche a distanza di decenni, come fossero perennemente in uscita il prossimo weekend.
Nel 1998, il Moretti all'apice della sua fase masturbatoria post-Apicella sfotteva un recente mega-flop di Kathryn Bigelow, in una delle sue celebri filippiche contro il cinema di genere americano. Le classiche frecciatine passivo-aggressive del regista, in un film campionario dei leitmotiv tardo-morettiani (la mamma, il figlio, Berlusconi); tutti talmente urgenti, talmente politici, che oggi di Aprile non resta segno alcuno. Di Bigelow invece?
Quindi, Strange Days, 1995 oppure 2020. Ralph Fiennes e Angela Basset a Los Angeles: polizia militarizzata, guerra civile incombente, un omicidio razziale; una misteriosa nuova tecnologia governativa che lo ha ripreso involontariamente, e sul futuro della quale si decideranno le sorti della società nascente.

Ora: è quantomeno sospetta la recente prolificità dell'industria cinematografica americana nell'affrontare il tema della police brutaliy. Dagli anni di Strange Days, quanti film, quante serie sono state prodotte, a condannare la violenza delle forze dell'ordine USA? Covid permettendo, c'è da scommettere siano già in produzione decine di opere programmaticamente “ispirate” alla vicenda di George Floyd o altre mostruosità analoghe, da Breonna Taylor a Freddie Gray. Con il solito modus operandi: mettere in scena sbirri-mostri ringhianti, bavosi e caricaturali, e spostare così il senso dei riots su dinamiche morali-idealiste di buoni e cattivi.
Più che un'avvenuta presa di coscienza militante delle grandi major, questa sensibilità al tema andrebbe ricondotta alla componente rassicurante e reazionaria che sottintende queste rappresentazioni. La rappresentazione in sé sembra in effetti l'unica forma di prassi politica progressista concepibile oggi nella patria del liberalismo; dare visibilità alla propria causa attraverso la commercializzazione mediatica e spettacolare (da parte delle stesse classi dirigenti teoricamente chiamate in causa), minimizzando quelle problematiche strutturali che non si ha nessun interesse a mettere in discussione. È la maniera più conservatrice di essere riformisti, e inevitabilmente la più hollywoodiana; “rappresentare”, farsi pagare, tirarsi fuori dall'equazione con l'immagine immacolata.

È una trappola quindi spingere verso un recupero di Strange Days in quanto “film Black Lives Matter”. Tutta Hollywood twitta BLM, come tutti twittano contro Trump, l'inquinamento o la povertà: non è un valore di per sé. Facendo del capolavoro di Kathryn Bigelow un qualche vessillo da college campus privato, il suo slancio futurista finirebbe inevitabilmente cestinato in questa florida corrente di cinema politico-utopistico molto democratico, molto liberal e molto anti-insurrezionalista; quello che “violenza genera violenza”, “protestiamo pacificamente”, “l'unica arma è l'amore”.
Il suo impeto pseudo-sovversivo è in fondo sintesi perfetta di quell'anti-capitalismo performativo che in tempi non sospetti il solito Zizek rinfacciava al povero James Cameron (autore del trattamento e del lorebuilding di base), con l'esempio di Titanic: concepire lo scontro di classe americano quale mezzo per il miglioramento morale delle classi dominanti, veicolato dall'incontro con un “popolo” idealizzato, votato alla subalternità e magari al sacrificio finale. Cos'è il (bellissimo) finale di Strange Days se non la messa in pellicola di questo intero discorso, con Vincent D'Onofrio e William Fichtner, sbirri razzisti e corrotti, alfine incastrati e giustiziati dalla polizia militare “buona”, ora pronta a ricondurre all'ordine le masse rivoltose con una rinnovata fiducia nell'autorità?

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Buttandola sul contenutismo spicciolo, Strange Days si beccherebbe dunque il bollino di reazionario. Ma un film è un film, non il suo soggetto, e quello che il capolavoro di Bigelow dice lo rivela ovviamente la forma.
Strange Days non può diventare oggi il manifesto BLM, come non riuscì ad esserlo per le rivolte del '93 e di Rodney King. Il suo oggetto è invece George Floyd stesso; precisamente, il punto d'incontro tra rabbia sociale, tecnologie del controllo e mercato dell'attenzione che il suo omicidio rappresenta. Temi questi già propri del vecchio cyberpunk letterario di trent'anni fa, come di tutta la sua controparte critico-filosofica (Baudrillard, Lyotard): teorie allegramente date per obsolete dalla gioiosa rivoluzione digitale, e che ora si è costretti a ritirare fuori mentre il mondo prende forma attorno ad esse.
Nel recupero di queste suggestioni applicate al bollettino di nascita del nuovo millennio, Strange Days è forse l'unico film occidentale veramente cyberpunk di qua di Blade Runner; l'unico capace di sfuggire il patinatismo che bene o male infettò gli esperimenti di Andrew Niccol o Robert Longo (per tacere di Matrix, gradevole pastiche di suggestioni altrui oggi riprogrammato come improbabile metafora queer tra Judith Butler e meme brutti), e quasi sicuramente l'unico kolossal in live-action rilevante in un sottogenere segnato sopratutto dai lavori ultra-indipendenti dei giapponesi matti Shin'ya Tsukamto, Shogin Fukui e Sogo Ishii.

Prima della Fine della Storia, un tempo non lontano il Cinema e i film si beavano ancora di poter fermare la realtà, sottrarla al vortice infernale dei simulacri. Già prima di Strange Days, nell'action classico era un motivo ricorrente: rivela al mondo l'immagine del villain e, come un conflitto rimosso, capitolerà una volta portato alla luce della coscienza pubblica. In L'implacabile (1987), il pubblico-popolo insorgeva e decretava la sconfitta di Killian nel momento in cui Arnold ne smascherava le malefatte via cavo: ogni manipolazione cadeva nel momento in cui la cinepresa era lì, e riprendeva.
Altri tempi: “In realtà non funziona così,” commentò sconsolato Steven de Souza qualche anno fa, a proposito di quel finale. “Oggi vediamo i filmati, ascoltiamo le registrazioni, ma nulla ci fa effetto”. Il cinema, i film, le macchine da presa: tutta strumentazione desueta, retaggio di un secolo pittoresco e feroce. E ora, l'estate 2020 ribalta tutto ancora. Ha ragione l'uomo di Die Hard e Commando: le immagini degli orrori politici esulano dalla sfera d'influenza del singolo. Ma quelle del quotidiano, abbiamo scoperto, ci toccano ancora.

Se Strange Days è il film del 2020, allora lo SQUID sarà il social media visuale del decennio in partenza. Altro che Youtube e Facebook, roba già vecchia: l'interpassività delle vite altrui vissute in soggettiva, uscita dalle distopie nineties e dall'estetica Mtv, è oggi parte delle più comuni forme di socialità e di intimità quotidiane. Sempre (a torto) accusato di nichilismo ed estetica dell'orrido, Strange Days è quindi in fondo un film social-positive, ovviamente senza neanche saperlo. È la “speranza” costantemente evocata da Kathryn Bigelow, lei sì, veramente fiduciosa nei lumi e nel Nuovo tecnologico; sia questo una nuova piattaforma comunicativa, uno SQUID fantascientifico, o le micro-steady ultrastabilizzate costruite esclusivamente per il suo film, che l'autrice racconta con entusiasmo contagioso nei commenti audio dell'unica, preistorica edizione home video al momento in commercio (aspettiamo fiduciosi).

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Ma la retorica tecno-utopistica va guardata con sospetto. La propaganda sui social media muta come una sostanza gassosa a seconda dei poteri tirati in causa, e così la percezione di questi nuovi Behemoth dell'informazione: nuovi scintillanti baluardi dell'emancipazione liberale contro i nemici dell'Occidente (le amatissime “rivoluzioni di Twitter”, ovviamente inesistenti in questi termini), oppure incontrollabili mostri tentacolari da imprigionare? Nella visione essenzialmente ottimistica di Bigelow e Cameron, la soluzione non è la distruzione di questi sistemi, quanto il loro hackeraggio; lo SQUID è un'arma di controllo federale (surveillance capitalism, se vogliamo) ma anche strumento di presa di coscienza una volta introdotto e democratizzato attraverso i mercati neri. Il millennio che apre (su una chiusa anni '40) sarà di chi imparerà a controllarlo.

Mettendo Strange Days a confronto rigoroso con il 2020, certi altri succosi aspetti del film perdono ingiustamente interesse: dal triangolo noir (che Cameron voleva al centro del film, con Bigelow a spingere sull'intreccio politico), all'evoluzione del linguaggio tecnico dell'inseguimento a piedi (autentica arte marziale registica che con l'autrice aveva già toccato il vertice storico in Point Break), e ovviamente l'estetica e il worldbuilding curato da Ellen Mirojnick, Lilly Kilvert e Kara Lindstrom. Ma quello formalistico è un discorso che prescinde da questo tipo di lettura.
In quanto sci-fi politico vero, il capolavoro di Bigelow non si impone di testimoniare una realtà oggettiva (impossibile proprio ontologicamente), né ne delira una versione ripulita e pubblicitaria a uso dei consumatori (che semmai è conservatorismo); quello che fa è prendere le tesi del suo presente e suggerirne una sintesi nuova, in proiezione. Inserire un elemento originale nel discorso utilizzando immagini anziché parole: la ragione per cui un film popolare, con buona pace di Michele Apicella, sarà sempre la forma espressiva più efficace nell'esprimere una possibilità. Perché la sua proposta è visuale, non verbale; tangibile, e non teorica. Se una volta pareva indecifrabile, la soggettiva impazzita di Strange Days oggi è impossibile da fraintendere. Storta, lurida e sgranata, diventa costantemente più lucida.

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Kathryn Bigelow Ralph Finnes Angela Basset Juliette Lewis Tom Sizemore Michael Winnicot Vincent D'Onofrio 145 minuti
USA 1995
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Zeus Machine. L'invincibile.

di Giorgio Sedona
Zeus Machine. L'invincibile - Zapruder Filmmakersgroup

“...l’Invincibile di notte sogna sulle lapidi degli eroi...”

La storia dell’invincibile, dell’Ercole e delle dodici fatiche, si ripropone come eco nella Storia e prende forma dentro a 12 quadri di imprese, disossate nella loro essenzialità, che risemantizzando il significato di ogni singola prova erculea, contemporanizzandone il contesto e traslitterando il contenuto. Zapruder filmmakersgroup, collettivo artistico da sempre attento alla contaminazione multidisciplinare, cuce con il filo del montaggio, incasellando quadri, ambienti, stanze emotive, dentro ad un formato (audiovisivo) morbido, un impasto, sempre e comunque per l’attitudine del collettivo, malleabile. Collettivo attento a contaminare la materia del modello (culturale predominante) in stampi sghembi, e comunque al servizio della libera espressione artistica. Cinema, teatro, performance, installazioni, il territorio, e il background, artistico del collettivo denota una padronanza polimorfa della materia dell’espressione per il tramite dell’utilizzo di apparati (forme) per idee applicate su formati polivalenti. L’audiovisivo inteso come foglio bianco, verginale, creativo per ogni singola particella di espressione. Ed è in questa speciale stanza che il cinema apre alla contaminazione e all’inclusione delle grammatiche linguistiche audiovisive differenti. Ed è in questo spazio che la differenza diventa condivisione, apertura verso un territorio, come quello cinematografico italiano, perlopiù canonizzato all’interno della narrazione. Ed è proprio quest’ultima parete ad infrangersi di fronte alla tramandata e atavica mitologia.

E’ il racconto della mitologia ad essere alla base dei quadri, purché sottesa e satirica nel suo accentuato realismo radicale, a concedere l’imprimatur alle prove fisiche dei comuni-eroi dei quadri. Trait d’union sotterraneo di un’epicità suburbana che tiene in vita il mito attraverso delle gesta partecipative, automatizzate, epifanicamente laiche. Per certi versi magiche, pregne, nella loro estrema ritualità, di una cultura neo pagana occidentale. Un neopaganesimo iperrealista che si manifesta percorrendo la via lattea del mito, in un palinsesto erculeo mixato e acidamente pop: dall’iconografia del mito alla galassia prospettivamente simile a Out Run anni ‘80 le fatiche si susseguono come dei livelli arcade, da intrepretare in un contesto dove la mitologia si destruttura nella faticosa contemporaneità.

L’invincibile è invincibile (e immortale al cospetto della Storia) in quanto la narrazione della propria mitologia supera spazi e tempi, usanze e definizioni, materializzandosi in quadri di umana resistenza.

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David Zamagni Nadia Ranocchi 74 minuti
Italia 2019
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