Trenque Lauquen

di Saverio Felici
Trenque Lauquen recensione film Citarella

L’atteso abboccamento tra l’Europa e il Pampero Cine è infine arrivato, un po’ a sorpresa, con Trenque Lauquen di Laura Citarella. La presentazione a Orizzonti, e soprattutto l’incoronazione da parte dei Cahiers nella loro classifica annuale, segnalano una sintonia più profonda di quanto farebbe un comunque improbabile successo di sala. Arbitrarie che ne siano le scelte, non si sottovalutino questi dispenser di legittimità culturale nell’indirizzare, se non i gusti del grande pubblico, quantomeno le attenzioni degli addetti ai lavori. Da oggi, e c’è da scommetterci, il cinema “autoriale-mainstream” troverà nel modello teorico e realizzativo del Pampero il nuovo scossone in grado di rivitalizzarne i manierismi.
Quello della casa guidata dal sornione ideologo/regista Mariano Llinás rappresenta infatti il progetto di un fare-cinema nuovo, prima che banalmente “bello”: una filmografia che non somiglia a nessun’altra, divisa tra una manciata di kolossal no-budget e una produzione più o meno continua di esperimenti, corti, documentari. Trenque Lauquen è il film che consacra oltre il Sudamerica una delle proposte più originali e innovative di questo millennio cinematografico - programmaticamente, con il più accessibile capolavoro del gruppo. 

Per i pochi e riservati adepti di questo bizzarro culto, Trenque Lauquen si accompagnava ai toni da film-evento già da prima del debutto lagunare. Anzitutto, il film rappresenta la magnum opus di Laura Citarella, membro fondatore del collettivo (assieme al già citato Llinas, il Dop Agustín Mendilaharzu e il montatore Alejo Moguillansky), da sempre presente in firma alla maggior parte dei lavori della casa. Dopo un paio di piccoli lavori di riscaldamento, l’autrice ha recuperato alcune suggestioni del suo esordio Ostende (2011), per cimentarsi finalmente con un anti-bluckbuster personalissimo e trionfale.
In secondo luogo, Trenque Lauquen è da considerarsi prosecuzione ideale di Historias Extraordinarias (2008), capolavoro contemporaneo e pietra angolare dell’intera produzione. Entrambe le opere si animano del medesimo paradosso: porsi come articolatissimo film “di trama” (thriller, nientemeno), impenetrabile ragnatela narrativa di twist e personaggi, e al contempo come negazione stessa del concetto. Così Trenque Lauquen assembla un affresco romanzesco sconfinato salvo squarciare un buco al centro della tela, suggerendo l’importanza strutturale della fallacità al cuore della narrazione. Controsenso o no, è la grande intuizione che il Pampero eredita dal romanzo postmoderno (e dalla sua grande scuola sudamericana, dall’ovvio Borges a Bolaño - sfiorata al cinema recentemente da Raúl Ruiz e indirettamente dall’europeo Miguel Gomes): storie-macchine la cui perfezione formale è funzionale non a chiudersi in una spiegazione, quanto ad aprire spazi vuoti.

trenque recensione ghfd

Lo spettatore all’avventura entri in questa particolare terra del mistery con l’anima in pace: Laura (Paredes, moglie di Llinas, volto ricorrente e omonima dell’autrice: non fosse la realtà documentata, sembrerebbe una delle tante false piste investigative con cui questi film amano giocare), Laura è sparita. Ha mollato la macchina del collega Ezequiel in un’area di sosta, allontanandosi a piedi per le lande argentine. Il doppio film segue a ritroso la malinconica indagine di Ezequiel, innamorato di lei, e di Rafa, suo fidanzato, determinati (ma neanche tanto), come lo spettatore, a riempire i buchi, unire i punti, trovare un senso a un vuoto (Laura stessa, e la sua abdicazione al proprio ruolo nel plot) che non ne ha. Due film, due indagini, due possibili complotti vouyeur-spionistici a ricostruire la storia della donna: la corrispondenza segreta di Carmen Zuma, misteriosa insegnante senza volto vissuta mezzo secolo prima, scoperta da Laura tra i libri della biblioteca locale; la comparsa di una felliniana creatura degli abissi nel lago locale, catturata e allevata in un laboratorio segreto da una coppia di biologhe clandestine.

Come da molti evidenziato, la centralità femminile è l’altro grande tema di Trenque Lauquen. Non si tratta di osservazioni contenutistiche spicciole: le qualità formali ereditate da Historias Extraordinarias, per quanto rivoluzionarie rispetto a pressoché qualunque altra proposta del cinema contemporaneo, da sole non porrebbero il film al di là dei maggiori exploit della casa argentina. Erano questi racconti collettivi, re-immaginazioni di un Paese e della sua storia, in cui il trope del “protagonista” implodeva come marionetta vuota. Trenque Lauquen, invece, è la sua protagonista: Laura inchioda il flusso del racconto a un punto di capitone emozionale, strumento di decodifica tradizionale che altre opere sacrificavano alla vertigine della narrazione reticolare e senza centro (di questo slancio entropico, La Flor fu forse l’apoteosi). Al contempo, Laura è l’incognita irriducibile a nulla, i cui amanti-investigatori cercano invano di ricondurre a un orizzonte di senso comprensibile - trinità di ruoli sessualizzata, la cui lettura femminista non è dunque campata in aria.
Paradosso nel paradosso, Laura è tutto questo non-essendoci: laddove i precedenti lavori del gruppo deliravano schizofrenici nella profusione di centri narrativi, Trenque Lauquen trova un prezioso “senso del film” nell’esplicita negazione dello stesso.

Quindi, Laura è sparita. È andata e basta, per quelle pampas argentine che il Pampero Cine ha da sempre indicato come nuovo West della postmodernità esplosa, orizzonte fantastico dove la torma delle identità sociali si risolve nella rinuncia a ognuna e la fuga nel nulla. Solo qui Laura può sparire dal cinema e diventare uno dei personaggi leggendari delle sue stesse ricerche, miti fondativi di un’umanità dispersa senza più (una) Storia, ma ancora appesa al suo infinito raccontarsi. 

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Laura Citarella Laura Paredes Ezequiel Pierri Rafael Spregelburd 260 minuti
Argentina 2022
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Grace

di Veronica Vituzzi
grace film laguna

C’è qualcosa di paradossale nell’esasperato dato visivo presente in Grace, opera prima di Ilya Povolotsky vista al Inlaguna Film Festival, Festival Internazionale di Cinema Indipendente a Venezia, da cui è tornata vincitrice nel dicembre scorso del primo premio. È un film, infatti, che non chiede altro che essere visto, nella connotazione più letterale del termine. I dialoghi sono ridotti al minimo, il ritmo narrativo è lentissimo, le informazioni sui personaggi vaghe e sintetiche. Ciò che è possibile dedurre dalle immagini è il racconto del viaggio di padre e figlia adolescente su uno sgangherato furgone lungo le periferie della Russia contemporanea. I due si guadagnano da vivere allestendo cinema all’aperto per la gente del posto e vendendo loro bibite e snacks; null’altro di preciso è dato sapere sul loro passato, a parte un piccolo accenno alla morte della madre della ragazza. Con questi presupposti il film appare difficile, ostico, impenetrabile, e in effetti lo è, finché non si concede alle inquadrature la pazienza necessaria a dire, da sole, tutto quello che c’è da sapere.

Il vero protagonista di Grace è il panorama: lande sterminate, desolate, opprimenti. La presenza del paesaggio è così ingombrante da non poter risultare che una precisa scelta stilistica. Il cielo e la terra assorbono ogni cosa nell’immagine al punto tale che la macchina da presa è costretta a piani lunghissimi o lenti piani sequenza per poter catturare con lo sguardo gli individui che tentano di abitare queste infinite distese. L’unica forma di difesa verso questa vastità a tratti cannibale sembra stare nei piccoli ripari che l’essere umano riesce a costruirsi. Il furgone di padre-figlia, per quanto improbabile e disordinato, diventa una sorta di rifugio con cui scappare e muoversi senza lasciarsi inghiottire dalle stradine impervie costruite sullo sfondo di gigantesche montagne avvolte nella nebbia. Solo un profilo sembra tener testa ai contorni del panorama, ed è quello della fanciulla adolescente che appare spesso in primo piano, i tratti innocenti di un viso scosso da impercettibili attimi di rabbia, alla ricerca di uno spazio realmente proprio, in conflitto con il padre taciturno e con la natura indifferente ed ostile. Come il regista, anche lei nel film cerca di strappare alle dita voraci dello spazio e del tempo gli individui, fotografandoli con una macchina che produce piccole polaroid.

Unico soggetto realmente vitale in uno scenario dove i personaggi sembrano abbandonati a sé stessi, ignari di sè, Grace è il solo elemento narrativo a produrre un atto di rottura con un passato e presente che similarmente sembrano ostinarsi a una quieta paralisi, fatta di micro-eventi che non lasciano traccia nel ricordo. L’evento determinante è una necessaria fuga con tanto di lancio di una pietra contro il parabrezza del furgone abitato con il padre – a significare l’aperto rifiuto di specifiche dinamiche familiari – per vivere il primo rapporto sessuale con un ragazzo fuggitivo come lei. Simile a tante altre fughe adolescenziali, il suo è un tentativo improvvisato, maldestro e destinato al fallimento, ma pur tuttavia prezioso per riposizionare il proprio corpo – e dunque sé stessa – entro uno spazio che non sia solo nemico. 

In tutto il film c’è un solo oggetto che resiste alle forze esterne, rimanendo chiuso e sigillato, dal contenuto invisibile e intangibile: è il vaso che contiene i resti della madre morta, e con esse tutto un mondo di ricordi ed emozioni represse da padre e figlia. L’apertura finale con, l’abbandono delle ceneri alle onde del mare costituiscono forse la prima vera, consapevole appropriazione dello spazio da parte della protagonista. Non ci è dato sapere molto di più su cosa sarà di lei; il film di Povolotsky è troppo silenzioso per lasciar spazio a ipotesi. Ma in un’opera che oltre la semplice visione richiede lo sforzo di un’indagine su ogni dettaglio, è sufficiente l’andatura decisa e sofferta di Grace che si muove tra i flutti marini, a lasciarci la speranza di aver assistito alla storia di un essere umano che, non potendo contare su nessuno, si salva da solo.

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Ilya Povolotsky Maria Lukyanova Gela Chitava 119
Russia 2013
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Perfect Days

di Andrea Giangaspero
perfect days - recensione film Wim Wenders

Komorebi è un’espressione che i giapponesi utilizzano per riferirsi alla “luce che filtra tra le foglie degli alberi”. Un modo come un altro con cui la cultura di un paese prova a scorgere qualcosa di bello nel quotidiano, nelle cose estremamente semplici e prosaiche della vita che ci circonda. Proprio come fa Wim Wenders con il suo ultimo film, Perfect Days, in cui affida al protagonista la capacità di alzare sempre gli occhi al cielo per catturarne istantaneamente la bellezza, ricordarne l’appartenenza comune, quindi sorriderne. Ne approfitta pure per scattare quotidianamente delle foto con la sua vecchia Olympus analogica. La punta verso l’alto e fissa l’impermanenza del fruscio del vento e della luce morbida tra le foglie in un’istantanea in bianco e nero. Allo stesso modo in cui guarda e fa esperienza della bellezza del komorebi, nelle sue lunghe notti di riposo Hirayama  (omonimo del protagonista de Il gusto del sakè di Ozu, di cui il film è tributo diretto, e interpretato da uno straordinario Kôji Yakusho) sogna i medesimi scorci, con la stessa luce sovraesposta delle sue fotografie, gli stessi scenari fuori fuoco, in bianco e nero, gli uni confusi e posti disordinatamente sugli altri.

Sogni liquidi che svaniscono al sopravvenire del nuovo giorno, brevilinei e dolci come un haiku, ma che Wenders restituisce come traccia ineludibile di uno sguardo in grado di saper discernere, di saper decidere cosa guardare, per affidarlo alla custodia della memoria e ai leggeri gorgheggi dell’inconscio. Di più, quei sogni son fatti della stessa pasta di ciò che guardiamo, ne sono l’emulsione analogica, e il montaggio di ciò che abbiamo deciso infine di trattenere. Almeno per Hirayama, che ha fatto di sé quasi alla lettera archivio di ciò che vuole guardare, allontanando tutto il resto, come un lungo film della vita composto solo delle sue inquadrature preziose. E ne avrebbe da scartare, di brutture, di momenti negativi: Hirayama, sulla sessantina, lavora forse da un’eternità come addetto delle pulizie dei bagni per una ditta di Tokyo. Ogni mattina si alza quando il sole è ancora basso dietro la linea dell’orizzonte, beve caffè in lattina da una macchinetta, e raggiunge il luogo di lavoro dove lo aspetta un collega più giovane e frustrato che continuamente si lamenta dell’inutilità di quello che fanno (“tanto sporcheranno di nuovo”, dice ad Hirayama).

Con fare routinario, l’uomo elabora una propria poetica del vivere strenuamente secondo la disposizione del bello, da cogliere per sottrazione e con un affiancamento morbido e costante alle arti della letteratura e della musica. Le poche parole pronunciate emergono come epifanie leggere (specie quelle rivolte alla nipote in fuga dalla madre), le letture serali prima di andare a letto sono come chiavi di comprensione del mondo, la musica in audiocassetta schiude in forma limpida i versi pronunciati da Lou Reed, The Animals, Nina Simone, che parlano di “giorni perfetti”, di “nuove albe, nuovi giorni, nuove vite” sentendosi bene. È la lotta di un savio o di un pazzo contro il morire delle cose e contro la resa incondizionata a un’esistenza necessariamente vestita di miseria, fatta di un’accettazione passiva all’abiezione del mondo. La lotta di un corpo analogico contro il reame simulacrale del digitale, della sua verità materica contro la post verità. È un modo personale di stare al mondo, meglio, di scegliersi un mondo. Hirayama lo dice, a un certo punto, che il suo è un mondo di tanti possibili e compresenti. È diverso, forse remoto, sicuramente di una piccolezza infinitesimale, un vecchio rudere destinato a collassare. Ma funziona perché è frutto di una scelta venuta da lontano e ponderata dall’esperienza, come appunto lo è il cinema di Wim Wenders giunto a questa parte forse terminale della sua carriera.

perfect days - recensione Wim Wenders

Lontanissime dalla ricerca e dall’esperienza del viaggio, quand’anche questo era un falso movimento come nel film omonimo, le immagini di Perfect Days sono ora senili e vegliarde come il suo protagonista. Come Ozu, e non lontane da Kaurismaki (specie l’ultimo di Foglie al vento, che ha condiviso con questo film la presentazione alla Croisette nel 2023), Wenders si appresta a una trascendenza silente, un modo di pensare le immagini di cui forse perderemo traccia nel cinema venturo. E sarebbe tuttavia sbagliato leggere l’ultimo Wenders come un autore del tutto differente dalle sue versioni precedenti, specie da quelle degli esordi. “Il mondo è fatto di tanti mondi. Alcuni di questi sono connessi tra loro, altri no”, dice ancora. Eccola, la lettura forse più calzante, quella più esatta. Nel mondo remoto di Alice nelle città, il foto-reporter Philip Winter/Rüdiger Vogler intraprendeva un viaggio per accompagnare a casa una bambina che non conosceva affidandosi solo a una fotografia, quella di una casa in campagna, una meta da raggiungere. Era il cinema di uno sradicato, come un po’ tutto il Nuovo Cinema Tedesco, disgustato dalla dimenticanza della generazione dei padri, privato di un heimet, uno sguardo non conciliato alla ricerca continua (il road movie) di un’identità da riacciuffare. Philip Winter scattava foto di luoghi trovandovi poi dentro un vuoto, la loro aura era già trascorsa, marginalizzata nel passato. Trattenuto in una dead-end, le immagini non erano più in grado di dimostrare la sua presenza nel mondo, né la consistenza delle cose attorno. Era semplicemente scivolata via, o non era mai stata lì. Come la casa della nonna di Alice nella fotografia, che tradiva la sua funzione perché quella nonna non c’era più, impronta di una realtà svanita. Fino almeno all’intervento di Alice, che scattava una foto a Philip per aiutarlo a riconoscersi, e con lui trovava infine un punctum di emersione emotiva in un’immagine che li vedeva assieme, ridendo e con facce buffe.

Mentre quel mondo si formava e si compiva, moderno perché senza utopie, ne era già contenuto un altro, non ancora esposto, non ancora toccato. Quel mondo cioè che un heimet lo ha generato da sé per un puro atto di volontà, che non insegue nulla perché sceglie di vedere le cose davanti e attorno a sé, anche se durano un’istante e la luce si sposta, svanisce, come l’effetto del komorebi. E giacché per Philip “nessuna immagine ti lascia mai da sola, vogliono tutte qualcosa da te”, sono ora gli stessi Hirayama e Wenders a scegliere per sé ciò che le immagini vogliono da loro, quindi ciò che possono dare in cambio, facendo tacere tutto il resto, conciliandosi col loro tempo, vivendolo mentre si compie, prima che sia tardi, perché “adesso è adesso” e i giorni perfetti non possono esistere in nessun altro momento.

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Wim Wenders Kôji Yakusho 123 minuti
Giappone, Germania
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Inmusclâ

di Riccardo Bellini
Inmusclâ – recensione film pastrello

«Tanto tempo fa mi addentrai in un bosco munifico e mi ferii». Versi dalle reminiscenze dantesche della poetessa Bianca Borsatti aprono Inmusclâ, ultima opera fieramente indipendente di Michele Pastrello presentata all’Edera Film Festival e ora disponibile su CHILI. Anche qui «la diritta via» smarrita dalla protagonista (Lorena Trevisan) rimanda a un percorso interiore. Anche nel mediometraggio di Pastrello, l’errante figura femminile, priva però di un Virgilio che orizzonti l’impervio snodarsi del suo vagare, deve fari i conti con selve, colli e asperità dal valore allegorico, in cui lupi e demoni sono però prima di tutto affioramenti psichici di un passato irrisolto e quindi destinato a tornare. Inmusclâ è infatti un viaggio visionario nella psiche di un io ferito alla ricerca di sé, teso alla riconciliazione con un rimosso che in quanto tale non può che riemergere ostinato come alterità frammentaria, in parte familiare ma al contempo indicibile.  

In una natura algida e ostile, raggelata tra i boschi e le montagne nei pressi della friulana Claut, la protagonista rincorre ed è rincorsa dalle schegge del proprio passato. Spazio e tempo perdono le loro coordinate, la benda finisce con l’anticipare la ferita che verrà e il movimento sembra frustrato in un loop da incubo. «Esiste un nord?», si chiede la voce over della poetessa che puntella lo smarrimento della donna tra i silenzi e i rumori di un labirinto virtuale a cielo aperto. Il falso movimento così tracciato, e più volte sepolto come orme dalla neve, è lo specchio di una condizione umana universale, la cui impasse sembra forse superabile solo con la fine della fuga dal proprio dolore, senza però che si abbia la certezza di essersi per sempre liberati dei propri fantasmi. In questa erranza onirica, la fisicità di corpi, spazi ed elementi naturali è centrale. Il talento di Pastrello emerge soprattutto nella capacità di riplasmare il dato materico in chiave psichica, senza sacrificare il primo in funzione della seconda. Tornando per un momento alla suggestione iniziale, come nel poema dantesco la materia conserva infatti la propria corporeità, anche se configurata come elemento metafisico e allegorico. La ferita della carne dà letteralmente corpo a quella dello spirito, il muschio cristallizzato sulla ruvida corteccia è la manifestazione aptica di un’infestazione interiore che trova piena realtà nell’elemento naturale (lo stesso titolo del film si potrebbe tradurre come «infestato dal muschio»). Il fluido indugiare della macchina da presa su carni e superfici, sulla scorza di una natura inospitale, assieme all’articolata componente sonora nutrita dalle voci del bosco e della montagna, danno così forma al territorio dell’anima, ai suoi recessi e ai suoi traumi.  

In Inmusclâ il legame indissolubile tra l’io e il suo ambiente, e quindi tra essere e materia, è espresso del resto a partire dalla scelta della lingua clautana, una variante del friulano parlata dai pochi abitanti di una manciata di paesi della Valcellina, qui liricamente vivificata dalla voce della poetessa ottantenne Borsatti e dai suoi versi. Una soluzione che sottolinea il radicamento profondo a luoghi e ambienti dello sguardo interiore di chi ne fa parte, quello stesso sguardo che plasma la sostanza e ne è da esso plasmato. Ma, in ultima istanza, la scelta del clautano, rappresentativa di una specifica minoranza culturale, sembra anche riflettere l’idea di un cinema, quello di Pastrello, da sempre pertinace nella propria resilienza minoritaria, nella scelta di restare sempre e comunque fedele a sé stesso, pur a costo di intraprendere la ripida strada dell’autoproduzione. Una scelta di libertà espressiva che si traduce con un cinema fuori dai consueti schemi narrativi e rappresentativi, come lo stesso Inmusclâ, il quale trova nell’aderenza alla visione personale dell’autore un equilibrato connubio tra visionarietà, lirismo e riflessione esistenziale. 

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Michele Pastrello Lorena Trevisan Bianca Corsatti 36 minuti
Italia, 2023
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Napoleon

di Alessio Baronci
Napoleon - recensione film

Scrivendo di The Last Duel, ci si era ritrovati davanti a un film a suo modo apocalittico, un progetto attraverso cui lo stesso Ridley Scott prendeva atto di una crisi imminente nel concetto di rappresentazione e nel linguaggio del cinema contemporaneo o, per dirla meglio, nel suo stesso modo di intendere la regia. E la soluzione che il regista aveva reputato più adatta per scongiurare la fine era stata una fuga. Verso altri spazi mediali (quelli della tv, della serialità) ma anche, forse soprattutto, verso modi alternativi, finali, di intendere uno dei suoi generi d’elezione, l’epico, il cavalleresco, lo storico. E così il dinamismo delle battaglie campali perdeva costantemente qualche giro e i valori dell’amore cortese svelavano tutte le loro ambiguità, complice anche un rapporto con la verità sempre più “post”, malleabile, riscrivibile secondo i punti di vista, che riscopre la sua natura di essenziale strumento politico per la costruzione di consenso.
Ridley Scott è forse, tra le righe, il primo a comprendere come, negli ultimi tempi, il trend di certi grandi maestri ancora in attività, posizionati all’interno delle coordinate del cinema contemporaneo, sia l’autoanalisi, la costante messa in discussione del loro linguaggio, dei loro immaginari. Scott come Scorsese e Killers Of The Flower Moon, dunque, ma anche come Fincher e i soliloqui “meta” di The Killer, o Mann alle prese con la morte e la resurrezione delle sue immagini in Ferrari. E allora qualsiasi riflessione sul suo Napoleon non può che partire da lì, dalla fine, volutamente rovinosa, dello sguardo di Scott, costretto in spazi non suoi, rifugiato in contesti straordinariamente “nel tempo” ma la cui agibilità deve ancora soppesare.

Prima, però, un rapido passo indietro: perché in realtà, da un certo punto di vista, la nuova forma del cinema di Scott l'ha già raccontata, quasi in forma di prologo, House Of Gucci, clamoroso requiem sulla fine di un modo di intendere l’immagine e prima esplorazione dei modi in cui i fotogrammi possono sopravvivere, non a caso simbolicamente uscito dopo il film con Ben Affleck, Matt Damon e Jodie Corner. È un cinema di replicanti che sanno di esserlo, quello su cui si costruisce House Of Gucci. cinema postmoderno ormai oltre il postmoderno stesso, cinema di copie e frammenti in fame d'aria, che sembrano cercare nuovo spazio vitale, magari grazie a una rete che li remixa e li sostituisce agli originali. E spesso ci riesce, se è vero che sui social spopolano le immagini dell’Aldo Gucci di Jared Leto molto più di quelle del vero Aldo Gucci, magari protagonista di qualche intervista del tempo. Ma si trattava, è evidente, solo dell’inizio di un percorso che chiedeva di essere continuato, approfondito. E forse Napoleon è davvero l’unico esito possibile dei ragionamenti di Scott, anche solo per il carico simbolico che si porta dietro: è un altro film storico carico di epica, legatissimo alla sua idea tradizionale di cinema, vicino a I duellanti, il suo primo film, ambientato proprio in età Napoleonica ma anche a Stanley Kubrick, di cui coglie più o meno direttamente l’eredità del progetto mai realizzato. Prima di ogni altra cosa, però, è un biopic. Ed è forse proprio il suo rapporto con la verità e la storia che fa saltare il banco in modo affascinante.

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Ma andiamo con ordine. È ancora un film convintamente contemporaneo, Napoleon, anche solo per i suoi linguaggi, per il suo dichiararsi già “versione provvisoria, bisognosa di patch” del lavoro di Scott, che in realtà sta dando gli ultimi tocchi al vero progetto, un film monstre di quattro ore che verrà distribuito non in sala ma direttamente su Apple Tv+, una piattaforma dunque, che accoglierà la vera e propria Director’s Cut del suo lavoro. Ma l’essere “nel tempo” di Napoleon lo si intuisce, prevedibile, anche nella lettura ricercatamente “fragile” della mascolinità del generale, valoroso ma al contempo insicuro, legatissimo alla sua Giuseppina che spesso lo domina e da cui teme di non essere riamato. Le premesse, dunque, sono ancora tutte in The Last Duel da cui Scott prevedibilmente recupera anche quell’atteggiamento fuggiasco, che lo porta a giocare con le attese del pubblico, a dedicare all’epica del campo di battaglia poche (seppur lunghe, muscolari) sequenze e a chiudere il racconto delle traversie di Napoleone negli spazi di uno stranissimo melò fuori dal tempo di cui proprio Giuseppina sembra custodire le chiavi. Perché è chiaro, l’obiettivo è mettere in crisi quel formulario da “Tratto Da Una Storia Vera” tipico di un’idea di cinema evidentemente paludata, esondare in un lavoro teorico purissimo che prova a ipotizzare le forme in cui il biopic può continuare a sopravvivere ora, in un momento storico in cui quella verità, meglio ancora, quel reale, il reale della Storia, della vita dei soggetti rappresentati, sono colti nella crisi.

Per farlo Scott torna quasi alle origini del linguaggio cinematografico, come a recuperare i detriti di una forma in pezzi. E così si affida al montaggio ma quasi ne riscrive le regole di base, ricostruendo la vita di Napoleone accostandone i fatti essenziali quasi per metonimia, seguendo la capricciosa emotività degli anni che hanno visto la sua ascesa più che il rigore cronologico. Uno via l’altro si susseguono dunque l’assedio di Tolone, la repressione dell’insurrezione realista, l’incoronazione, “pezzi (volutamente) staccati”, quasi ipertesti richiamati da una diegesi che si preoccupa di seguire soprattutto una blanda successione logica degli eventi più che riflettere sulla loro storicizzazione. Sballottato tra questi estremi caotici, Napoleone non può dunque che divenire una sorta di avatar della Storia: immerso, innestato (e l’immersione e l’innesto sono, in effetti, due figure essenziali del nostro rapporto con lo spazio digitalizzato del cinema contemporaneo) a contatto con eventi storici di cui non è stato neanche lontanamente protagonista, come la decapitazione di Maria Antonietta.

kirby nap

È forse una delle vittime eccellenti della Post Verità, il Napoleone di Phoenix, spia evidente di quanto il cinema biografico oggi sia imprescindibile dal fact checking dello spettatore, che magari segue la visione, in casa, aiutandosi con smartphone e Wikipedia. Ma se il generale riletto da Scott viene mangiato, riprocessato dalla Storia, forse viene anche fatto a pezzi e rimasticato dalla Macchina Cinema, dal suo autore. Il sistema lo riduce a immagine spettacolare, a fotogramma/ingranaggio di un film scottiano fino al midollo proprio per il modo in cui piega il racconto al puro visivo senza preoccuparsi troppo delle conseguenze, cercando l’effetto, lo stupor dello sguardo a tutti i costi. L’elemento allora più vertiginoso del film (e, a margine, forse il dettaglio che tradisce con maggior chiarezza la sua contemporaneità) è la facilità con cui può essere suddiviso in veri e propri set pieces da cinema massimalista: le navi che scoppiano durante l’assedio di Tolone, le cannonate contro la punta delle piramidi in Egitto, i mortai che disperdono la folla rivoluzionaria; ma anche le battaglie, Austerlitz, Waterloo, che a ben vedere sembrano raccontare meglio di altri momenti i tratti di un cinema sempre più mutante, sequenze limbiche colte a metà tra il rigore della forma postclassica e le accelerazioni della macchina a mano, tra la richiesta, sottintesa, al pubblico di abbandonarsi all’ondata emotiva dell’evento spettacolare e il consiglio dato a mezza bocca di prestare comunque attenzione alla liceità di ciò che si sta vedendo, di esercitare il senso critico. Sezionare il fotogramma per discernere il vero dal falso, scampoli di un immaginario che trova nuova forza a contatto con la contemporaneità.

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Ridley Scott Joaquin Phoenix Vanessa Kirby Tahar Rahim Rupert Everett 157 minuti
USA UK 2023
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Linda e il pollo

di Andreina Di Sanzo
lindaeilpollo-recensione

Perla dell’animazione in concorso alla 41° edizione del Torino Film Festival, Linda e il pollo di Chiara Malta e Sébastien Laudenbach è un vorticoso racconto familiare che tratta temi per tutti: elaborazione del lutto, rapporto genitori-figli, contrasti familiari, crescita.
Il duo italo-francese porta sullo schermo una composizione antinaturalistica, dove spesso i toni accesi dominano i personaggi - che sono monocromatici – con colori che riflettono la loro personalità. Linda è infatti di un giallo esplosivo che denota la sua briosa giovane energia. Il tratto dei contorni non è lineare, ma impreciso e frammentato e nei campi lunghi i nostri protagonisti sono avvolti da una sorta di luce auratica, quasi a farci sentire più forte la loro presenza sullo schermo. Non mancano poi sequenze che ricordano il cinema dei primi del Novecento con i suoi trucchi e giochi di prestigio e i chiaroscuri accentuati. Tutte queste scelte visive spingono l’immaginazione ancora più oltre, come solo l’animazione può fare, restituendoci un racconto profondo che, pur trattando di temi così vicini a noi, riesce a portarci altrove.

Dopo un piccolo malinteso che genera un litigio tra Linda e sua madre Paulette, quest’ultima vuole accontentare il desiderio culinario della bimba: il pollo ai peperoni! Ma qualcosa inizia ad andare storto: uno sciopero generale impedisce alla donna di fare gli acquisti necessari per la ricetta e da lì si scatenano una serie di bizzarre avventure in cui le due dovranno districarsi. Aiutati o osteggiati da una serie di personaggi (l’adorabile zia che spesso bisticcia con Paulette, i gendarmi, l’autista che si invaghisce della madre, animali curiosi e bambini irrequieti) gli avvenimenti scorrono senza tregua in un film gioioso ed elettrizzante ma su cui aleggia un senso di lieve malinconia. Quel pollo ai peperoni così voluto dalla nostra Linda è la madeleine che la riunisce al ricordo del padre, scomparso ormai da qualche anno. Il lutto della piccola e di sua madre non è ancora del tutto metabolizzato, così negli alterchi, nei capricci, nella severità di una donna che da sola cresce sua figlia, si nasconde un dolore più grande. Nella sua estrema leggerezza e stilizzazione, Linda e il pollo è un articolato racconto sul posizionamento individuale all’interno della società, rappresentata dal piccolo villaggio con le sue strutture e le sue dinamiche: le questioni politiche, i malumori, l’autorità goffa e antiquata, il senso di comunità, la famiglia.

Lo sfondo acquerellato e impreciso è piuttosto riconducibile a tutti i microcosmi che viviamo nella nostra infanzia e che la memoria talvolta ci lascia solo i contorni fuori fuoco. Una fiaba contemporanea elettrica e veloce, una parabola sugli imprevisti dell’esistenza e su come affrontare il dolore mantenendo acceso il ricordo.

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Chiara Malta Sébastien Laudenbach Mélinée Leclerc Clotilde Hesme Laetitia Dosch Pietro Sermonti 95 minuti
Francia, Italia 2023
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Foglie al vento

di Andrea Giangaspero
foglie al vento - film recensione kaurismaki

Approdare al cinema di Kaurismaki ha sempre riguardato l’approdo a uno spazio (uno stadio) di grazia. O quantomeno l’impressione di esso. Come se l’autore finnico dagli anni 80 in su si sia incaricato di una missione di depurazione, magari anche solo di alleviamento in alcuni frangenti, che lo imponesse come zona franca, le sue immagini come luogo di ristoro. Un tempo lo diceva: voleva “inoculare un po’ di ottimismo senza perdere il contatto con la realtà. Un po’ come fare del neorealismo contemporaneo, ma a colori”. Il punto è che da allora il cinema di Kaurismaki è - almeno per chi scrive - persino migliorato in questo senso, attraverso un quieto ammorbidimento di forme. Foglie al vento resterebbe un film preziosissimo anche considerandolo a sé, separato dalla rete e dalle traiettorie percorse lungo 40 anni dal regista finlandese, e tuttavia calandolo nel discorso e nella prospettiva (qui indispensabile) della politique des auters, se ne comprende meglio la sua importanza capitale, la qualità della materia attraverso una lavorazione quasi secolare.
Serge Daney diceva dell’importanza nel cinema (ma non solo: nei viaggi, in una giornata, nella musica in particolare, come poi vedremo) delle concatenazioni, “l’arte di passare da una tappa all’altra (stadi, stasi) con la coscienza zelighiana di essere (se stessi) e di non essere (lo stesso)”. A ben vedere, non potremmo essere più certi di attribuire a questa concatenazione e a questo territorio il cinema di Kaurismaki, accanto a quello del modello costitutivo di Ozu. Più di una semplice variazione sul tema: Kaurismaki e Ozu integrano di volta in volta il loro spettro con qualcos’altro, qualcosa di appena e quasi irriconoscibilmente nuovo, attraverso una solida fedeltà a loro stessi. Con la storia dell’amore sempre proletario e lieve che sboccia tra Ansa e Holappa, in Foglie al vento Kaurismaki manifesta quindi l’ennesimo approdo alla grazia, di matrice naturalmente bressoniana, proprio nell’attraversamento di una piccola svolta. Sempre con Daney, appunto: “è sufficiente una svolta per creare dell’aldilà”.

Ansa è prima una commessa, poi viene licenziata per essere stata sorpresa a intascarsi una ciambella scaduta e viene assunta come lavapiatti, giusto il tempo di vedere il proprietario del ristorante arrestato per spaccio, infine è operaia in fabbrica. Per Holappa il percorso è simile: da operaio a manovale, fino all’ennesimo licenziamento dettato però in questo caso dalla sua negligenza. Un alcolizzato apparentemente senza speranza che accettando un giorno di accompagnare al karaoke il collega e amico Huotari (un gigantesco, comicissimo Janne Hyytiäinen) ha il suo incontro col destino, fissato nello sguardo timido di Ansa. Sonata di Schubert performata sul palco con l’accompagnamento di un canto finnico, le luci basse e soffuse che contornano i corpi immobili nel pub secondo una declinazione chiaramente hopperiana; serve pochissimo alle immagini per caricare questo momento di puro lirismo. Ansa e Holappa si incontreranno a più riprese lungo i soli (anche qui, di grazia) 81 minuti del film, inciampando negli imprevisti, nei detour comici e tirati, irreali, dettati dalla reciproca idiozia (lui perde il numero di telefono di lei e non può rintracciarla giacché neppure si sono presentati per nome), per poi tornare sempre e soltanto nell’unico luogo possibile in cui potrebbero reincontrarsi, senza perdersi di vista. Il cinema, naturalmente, il luogo che ha battezzato il loro amore e il loro primo appuntamento. Guardano I morti non muoiono di Jarmusch, sodale di Kaurismaki, e mentre fuori dalla sala un paio di signori scomodano paragoni altisonanti con Bresson e Godard (Diario di un curato di campagna e Bande à part), Ansa si limita a dire con sincera tenerezza che il film l’è piaciuto perché non ha mai riso così tanto. Ancora, il cinema è dappertutto, tappezza le pareti con le locandine non solo fuori dalla sala (ci sono Ozu, Fellini, Lean, Godard, ecc.) ma pure al centro dell’inquadratura, sopra le teste dei personaggi seduti al pub, con Delon in bella mostra in Rocco e i suoi fratelli. Nessuno sfoggio di cinefilia, neanche semplice citazionismo, ma soltanto l’aderenza, la partecipazione a un orizzonte familiare in grado di creare un’alcova dentro quell’altro orizzonte più espanso che è il mondo raffreddato e industriale della Helsinki kaurismakiana.

foglie al vento - recensione film kaurismaki

E sappiamo che i personaggi di Kaurismaki partecipano a plasmare questo luogo ormai senza tempo, quasi romanticamente rimasto congelato agli anni 80, tra radio e jukebox (anche se il calendario indica che siamo già nel 2024), muovendo i loro corpi con l’ormai classico automatismo bressoniano e comunicando tra loro in forma sincopata, sintetica, come se non servissero loro le parole per rivelare la bontà o il dolore delle ferite provocate dalla percosse della società capitalista. Ma c'è anche (in particolar modo in questo film) qualcosa di più.
Sarà che Alma Pöysti ha il volto forse più tenero di tutte le eroine di Kaurismaki, ma la discrezione con cui occupa l’immagine accanto a Holappa e la comicità laconica (eppure mai così frizzante e gustosa) che anima i loro incontri determinano quella lieve svolta che li avvicina alla grazia (accanto, naturalmente, alla grazia delle immagini stesse). Concatenazioni, appunto, tornando a Daney, che dialogano col passato e lo conducono dentro questo presente fatto di nuove  e appena palpabili curvature, rapprese nella sua ormai paradigmatica auto-conservazione. Essere sé stessi e non essere lo stesso. Spetta quindi alla musica la concatenazione decisiva, che dalla rivelazione dell’amore fulminante nell’accompagnamento di Schubert muove poi all’esclamazione dell’estasi latente dei corpi con una (spassosissima) traduzione finnica del Mambo italiano, per approdare infine ai versi cantati dal duo pop rock dei Maustetytöt, attraverso i quali si confeziona il momento più alto e bello del film. Un’epifania improvvisa si posa sul volto di Holappa, ora quasi trasceso e lontano dalla vertigine di una fine disastrosa, e lo porta a donarsi per intero a un amore sano, fino a smettere di bere. Anche quando le foglie morte “cadono a mucchi”, come nella poesia di Prevert da cui il titolo originale del film è tratto, il “fedele e silenzioso amore / sorride ancora, dice grazie alla vita”. Le vediamo, le foglie al vento, alla luce diafana di un’alba su uno squarcio industriale privato della componente umana; le vediamo al cinema ai piedi di Holappa in attesa di Ansa; e le vediamo fluttuare attorno ai due su una panchina, in un altro giorno, un’altra alba ancora d’inverno ma che per loro è una primavera dell’anima, mentre il piccolo Chaplin, il cagnolino salvato dall’abbandono da Ansa, scodinzola e li guarda, cammina con loro, all’apparire del giorno.
“Com’era più bella la vita \ e com'era più bruciante il sole”. È quella piccola svolta apparentemente semplice, e che tuttavia in pochi riescono a replicare, con cui Ansa e Holappa, Kaurismaki, il nostro sguardo, “creano dell’aldilà”.

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Aki Kaurismaki Alma Pöysti Jussi Vatanen 81 minuti
Finlandia
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Last Things

di Sandra Innamorato
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La Via Lattea di Hershel ruotata di 90 gradi, un orizzonte stellare che diventa soggetto verticale in posizione eretta, con arti inferiori puntiformi e tronco lucente. L’immagine che apre il documentario sperimentale di Deborah Stratman è una torsione di verità scientifica, una rivoluzione copernicana compiuta digitalmente, per proporre all’occhio dello spettatore un’alternativa inattesa alla fine del mondo. Ma anche al suo inizio: “tutto ebbe inizio con un grande sì”, il verbo che compone la materia, la formalizza e le conferisce il ruolo di prima creatura in moto, vivente. Egocentrismo, narcisismo cosmico, il lavoro della regista americana politicizza la nostra incapacità di pensarci co-protagonisti di uno spazio che ci precede e durerà dopo la nostra estinzione. L’antropomorfizzazione dell’universo che apre questa nuova metafisica formato mediometraggio non è infatti un tentativo di far assomigliare l’universo all’uomo ma, al contrario, la creazione di una nuova figura narrante, la rappresentazione di un Altro-vivo ma apparentemente privo di vita. Last Things parla di minerali, rocce, materialità essenziale - per usare le stesse parole della regista - del fascino di quel “delizioso snack caramellato” della geo-biosfera. Ed è anche simbolo di un nuovo ecosistema, quella silhouette luminosa: un approccio narrativo non dominante nei confronti degli altri, la profezia di una costellazione egualitaria di forme di vita e intenti.

Vincitore del Prix du Court-Métrage al Cinéma du Réel, ma in viaggio dall’inizio del 2023, partendo dal Sundance per passare alla Berlinale e concludere il suo giro di boa a Concorso de INFF Inlaguna Film Festival, Last Things è figlio maturo del precedente On The Various Nature Of Things del 1995. Dagli anni ‘90 a oggi, la regista esplora il rapporto epistemologico dell’uomo con la natura più dura e inaccessibile, premendo la camera contro le pareti liminali delle nostre facoltà percettive e insieme contro l’inscrutabile superficie delle cose. Via via per ordini di grandezza, ci vengono mostrati oggetti, stanze, corridoi, centraline, pareti rocciose, sculture, una galassia di immagini che il nostro occhio nudo cattura con facilità; e poi immediatamente dentro la materia, la camera diventa occhio potenziato per accedere da vicino alla sfera intima del regno minerale. Cristalli iridescenti si muovono lungo la cornice dello schermo, squarciano la superficie monocromatica eleganti motivi frattali. Ma ancora, dettagli dei paesaggi lunari e sciami di condrule di origine solare, per poi passare ancora di grado a squisiti studi formali, tavole geometriche, planimetrie e scheletri bidimensionali per vivisezionare didatticamente la materia apparentemente inerte. Un footage che passa per il microscopio cinematografico: zoom, ralenti e distorsioni visive operate per trasformare l’ignoto in superficie intellegibile.

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L’elemento più interessante dell’operazione è però il montaggio sonoro, pensato per conferire vita all’immobile e, ancor di più, per catturare la natura del suono/rumore che potrebbe generare un minerale agendo nel mondo. Le musiche di Brian Eno e Okkyung Lee sintetizzano la pietra e i cristalli attraverso onde vibranti e propulsivi segnali alieni, una struttura spettrale e disarmonica che restituisce perfettamente la dinamica fisica di creature non-organiche.

Ispirato a due novelle di J.-H. Rosny (i fratelli belgi Boex) il progetto mescola science-fiction e documentario per costruire, sulla base delle scienze dure, una nuova metafisica. L’apparato di studi che regge il testo filmico è fittissimo: dagli scritti di Roger Caillois sulle pietre a L'ora della stella di Clarice Lispector, dalla teoria dell'evoluzione minerale di Robert Hazen alla teoria della simbiosi di Lynn Margulis, dagli scenari multi-specie di Donna Haraway alla ricerca di Hazel Barton sui microbi delle caverne fino al pensiero di Marcia Bjørnerud sull’alfabetizzazione temporale. Il capillare montaggio teorico di Stratman fa capo a un unico manifesto: il decentramento dell’essere umano dal processo evolutivo, e insieme la rivelazione – grazie alla matrice finzionale dal sapore ultraterreno - che le particelle minerali capeggiano un popolo alieno, alterità misteriosa cui confrontarsi.

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Ma i minerali sono anzitutto superfici testuali per la Stratman, archivi immortali di una storia lunga 13 milioni di anni. Le immagini dei disegni rupestri suggeriscono la duttilità della materia alla conservazione del patrimonio memoriale dell’universo, un database analogico infinito che, nel paradosso della natura mortale dell’uomo, offre invece dispositivi di immortalità o, meglio, di lunghissima conservazione. L’amara consolazione dell’imperitura vita dei minerali arriva dalla regista come un invito curioso alla scoperta di questa categoria vivente sottovalutata, suggerendo una modalità di ascolto e apertura del sé del tutto innovativa. E lo fa con una costruzione narratologica aperta: il montaggio degli elementi che costituiscono il film è del tutto sincretico, una mappa geografica priva di gerarchie. Il viaggio dell’eroe si trasforma in costellazione episodica, e il procedere temporale è scandito esclusivamente dai salti tra un’immagine e un’altra. Un nuovo ordine, quindi, un nuovo modello conoscitivo e di eredità che fa della postura dei minerali, rivolta a un tempo indeterminato, un mantra contro le contingenze, un nuovo rapporto con i segni come firme di un io imperituro.

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Deborah Stratman 50 minuti
USA 2023
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Dove osano i giganti: Godzilla Minus One

di Jacopo Bonanni
Copertina

"Poche immagini esprimono bene il Giappone del dopoguerra come Godzilla, che è quasi una bomba atomica che cammina" - Go Nagai (2007)

L'epopea apocalittica di Godzilla iniziata settant'anni fa a largo dell'Atollo Bikini, dopo il tragico incidente nucleare che coinvolse l'equipaggio del peschereccio Daigo Fukuryū Maru, oggi sembra lungi dall'essersi conclusa, come testimonia il recente Godzilla Minus One: un dramma a sfondo bellico, spietato e coinvolgente, che ripercorre da vicino gli eventi che condurranno alla nascita della leggenda di Godzilla, privilegiando la dimensione umana della vicenda laddove altre trasposizioni hanno preferito esaltare quella spettacolare dell'azione fine a se stessa. Questo intenso monster movie, scritto e diretto dal talentuoso Takashi Yamazaki, un autore già molto apprezzato in patria, rappresenta l'occasione ideale per celebrare ed esaminare le ragioni del successo di un franchise che con trentasette pellicole all'attivo, tra alti e bassi, non ha mai smesso di alimentare l'entusiasmo degli appassionati e dei neofiti dell' iconica saga dedicata al "Re dei Mostri", ideato da Tomoyuki Tanaka e immortalato al cinema nell'indimenticabile cult di Ishirō Honda del 1954. 

Godzilla 1954

Nell'arco del suo lungo percorso di destrutturazione e contaminazione del linguaggio cinematografico, suddiviso convenzionalmente dai giapponesi in quattro ere ben distinte (Showa, Heisei, Millenium e Reiwa), Gojira, nell'idioma nipponico, non ha mutato semplicemente la sua indole e la sua fisionomia, captando le trasformazioni delle istanze sociali e culturali del momento, ma ha cambiato radicalmente i connotati dell'intero settore dell'intrattenimento - dalle tecnologie al marketing - grazie alla sua  capacità di coniugare il passato con il presente, l'analogico con il digitale, la tradizione con l'innovazione. Da un lato il capostipite del genere kaijū-eiga, ovvero film sui mostri giganti, ha contribuito a plasmare con la sua antologia di pellicole la moderna concezione di serialità preconizzando, sdoganando e canonizzando alcuni concetti chiave dei blockbuster seriali, in particolar modo degli attuali cinecomics, come quelli di continuity, crossover e multiverso; dall'altro ha costituito un tassello fondamentale nell'evoluzione dei modelli di narrazione transmediale, anticipandone soluzioni e formule produttive particolarmente efficaci per affrontare le sfide della contemporaneità. Basta considerare la recente operazione del MonsterVerse: l'ambizioso progetto hollywoodiano, promosso dalla storica casa di produzione giapponese Toho in collaborazione con l'americana Legendary Pictures, che vede i personaggi più celebri del franchise proiettati all'interno di un universo condiviso, espanso su più piattaforme, dove i luoghi, le situazioni e le tematiche presenti nei diversi capitoli si intersecano in una  trama più ampia composta da film (Godzilla vs Kong), fumetti, serie animate e live-action interconnessi tra di loro (Monarch: Legacy of Monsters).

Gozilla vs Kong

Se le produzioni americane hanno sempre avuto il difetto di provare a ingabbiare il camaleontismo della saga di Godzilla all'interno di schemi prestabiliti per facilitarne la comprensione e la spettacolarizzazione, quelle nipponiche, al contrario, né hanno sempre esaltato la vena anarchica e anticonformista. Tanto è vero che nei lungometraggi autoctoni non esiste un solo Godzilla ma tante interpretazioni dello stesso concetto e dello stesso personaggio, declinate in modalità differenti, a seconda della sensibilità autoriale dei registi che hanno avuto il compito di tramandarne il mito, sebbene non sempre con i risultati sperati. Adottando questo criterio possiamo affermare che la versione proposta da Takashi Yamazaki nel suo Godzilla Minus One sembra possedere tutti i requisiti necessari per essere annoverata non solo come una delle più introspettive ed evocative dell'intero franchise ma anche tra le più affascinanti e rappresentative del nuovo corso cinematografico inaugurato dal blasonato Shin Godzilla nel 2016.

Shin Gozilla

Nonostante le differenze sostanziali di approccio al corpus narrativo originale, entrambe le pellicole veicolano un messaggio politico inequivocabile. Infatti, nel caustico reboot firmato da Shinji Higuchi e Hideaki Anno il ruggito di Godzilla assomiglia a un grido di disprezzo, quasi di scherno, di fronte all'inettitudine delle istituzioni giapponesi, incapaci di gestire le conseguenze di una catastrofe che ricorda da vicino il caso di Fukushima; mentre quello della creatura di Yamazaki assume il valore di un lugubre ammonimento contro l'ipotesi, ventilata dai governi conservatori, riguardo una possibile militarizzazione del "Paese del Sol Levante" dopo anni di pacifismo. Un'eventualità drammatica che, seppur lontana, richiama inevitabilmente alla mente il ricordo doloroso dei bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, un topos ricorrente in tutte le incarnazioni di Godzilla dagli albori fino ai giorni nostri.

Minus One

È proprio a partire da questa vivida reminiscenza che l'autore di Godzilla Minus One decide di tornare indietro nel tempo per omaggiare il film di Honda da cui si è originata la saga e ripartire da zero, anzi da meno uno, per citare il titolo della pellicola. Yamazaki racconta lucidamente dal punto di vista inedito di un disertore - l'ex pilota kamikaze Koichi Shikishima - le conseguenze disastrose della politica imperialista giapponese durante la seconda guerra mondiale e le ripercussioni che queste ultime hanno esercitato nel dopoguerra sulla società civile sia sul piano materiale, sia su quello spirituale. Il resoconto drammatico di quel periodo, popolato di fantasmi e permeato di sconforto, ci presenta uno scenario atroce che non lesina nulla sulla disperazione delle vittime, né eclissa sulla responsabilità dei colpevoli, attingendo direttamente alle radici antimilitariste sui cui si fonda storicamente la saga. Ogni aspetto della storia viene curato meticolosamente nei minimi dettagli: dalla ricostruzione delle ambientazioni e degli umori dell'epoca agli effetti speciali digitali utilizzati durante le battaglie, mentre la trama mescola registri narrativi differenti alternando momenti più intimisti a momenti di puro intrattenimento che in termini di pathos ed epicità non temono confronti con le migliori produzioni occidentali. Per quanto riguarda la resa visiva di Godzilla invece il film di Yamazaki si ispira dichiaratamente al cinema di Spielberg che emerge, in particolar modo, ogni volta che l'azione si sposta dalla terraferma sull'oceano, e ci rammenta con nuovi occhi come le inquadrature del maestro americano siano ancora in grado di fare scuola quando si tratta di tradurre la tensione sullo schermo.

Godzilla Minus One

Forte di un cast di interpreti eterogeneo e straordinariamente coeso, con cui è impossibile non empatizzare, Yamazaki preferisce ridimensionare l'attenzione rivolta generalmente alle imprese distruttive del titano radioattivo - centellinando le sue apparizioni - per elaborare i  traumi individuali e sviluppare le ragioni collettive che condurranno i suoi protagonisti, un nucleo di sopravvissuti, ad affrontare i loro i demoni interiori e a prevalere sugli orrori del conflitto appena trascorso e su quelli che verranno. Godzilla Minus One trasgredisce le regole e le convenzioni del genere sui mostri giganti per mettere in scena, in tutta la sua magnificenza, un viaggio spaventoso e irresistibile attraverso le grandi dicotomie che albergano nell'animo umano, trasformando una storia personale di vendetta e redenzione in un'odissea corale dai risvolti melvilliani dove Godzilla, con le sue proporzioni mastodontiche e il suo sguardo impietoso sulla Storia, trascende la sua natura fisica per tramutarsi in "un incubo uscito dal magma indistinto della memoria" di un popolo orgoglioso e tormentato. Un popolo, quello giapponese, che da settant'anni a questa parte ha eletto all'unanimità "Il Re dei Mostri" come simbolo della lotta contro ogni avversità.
 

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125 minuti
Giappone, 2023
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Il cielo brucia - Intervista a Christian Petzold

di Andreina Di Sanzo
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In my mind dei Wallners è il pezzo che risuona all’inizio e alla fine dell’ultimo bellissimo film di Christian PetzoldIl cielo brucia, fuori concorso al Torino Film Festival e nelle sale italiane distribuito da Wanted. È nella mente del protagonista Leon, scrittore al suo secondo romanzo, che sembra diramarsi questa storia così profonda e allo stesso tempo misteriosa. Invitato a passare l’estate nella casa al mare del suo amico Felix, il romanziere in piena crisi incontra Nadja, una donna autodeterminata e inafferrabile che attrae il giovane e lo mette di fronte a se stesso e ai suoi limiti. Tra i personaggi, a cui si aggiunge Devid - prima amante di Nadja, poi di Felix, -si metteranno in moto dinamiche di seduzione e risentimenti, portando alla luce fragilità e desideri di ognuno di loro. Un dramma che guarda alla coralità di Visconti e all’indagine delle passioni di Bergman, sullo sfondo una riflessione sulla questione ambientale, in un mondo sempre più minacciato concretamente dalla crisi climatica. Quel fuoco che incombe sulle coste è il pericolo che noi stessi abbiamo creato.

Abbiamo incontrato il regista Christian Petzold che dopo Undine, film sull’acqua, si dedica a un altro elemento: il fuoco.

Si tratta di una trilogia degli elementi? Ci può dare altre informazioni sul prossimo film?
CP: Devo fare una premessa: l’Italia è un paese cattolico, io vengo da un paese protestante e un po’ come Leon, il protagonista del film, ho la tendenza a parlare sempre dell’importanza del lavoro o di come il lavoro sia gratificante. Qualcosa che i cattolici non hanno tanto e per cui provo una certa invidia. Il cinema cattolico infatti è un cinema associato alle immagini, i cattolici hanno fatto forse il miglior cinema, mentre il cinema prodotto dalla cultura protestante è più legato alla musica. Quando mi capita di aver realizzato un film in cui mi sono divertito molto, come Undine per esempio penso subito al lavoro successivo, perciò mi ero promesso avanti un progetto sugli elementi (Undine acqua, questo sul fuoco). Lavorando alla sceneggiatura di Tutto brucia e realizzando in seguito il film, mi sono reso conto che volevo concentrarmi su qualcosa di diverso in futuro. In particolare, le scene di gruppo girate intorno al tavolo in cui si beve e si discute, mi hanno fatto capire che in passato mi sono sempre concentrato su due figure, l’uno di fronte all’altro. Il cielo brucia mi ha fatto capire che mi concentrerò su dinamiche di gruppo nei prossimi film, gruppi che tentano di sopravvivere, forse in una trilogia: una famiglia, un gruppo politico, un sindacato.

Questo film, appunto, ricorda molto i cinema di Luchino Visconti, e anche quello di Ingmar Bergman… registi che vengono dal teatro e che hanno lavorato a opere corali.
CP: C’è una parentela interessante tra questi due registi che io amo moltissimo, perché entrambi hanno un approccio molto “economico”, come ad esempio il fatto ritornare per due volte sullo stesso luogo oppure una situazione che si ripete ma con una differenza, che costituisce l’elemento significativo. Amo molto il fatto che entrambi lavorino sulle passioni ma con un approccio molto equilibrato. Monica e il desiderio ad esempio, l’ho visto insieme agli attori quando dovevamo prepararci al film, ma c’è una differenza sostanziale che ho voluto creare nella Nadja di Il cielo brucia, interpretata da Paula Beer.

Ci può parlare meglio infatti della figura femminile, di Nadja
CP: Mentre Monica è esposta totalmente, nelle sue fragilità, nella sua nudità, ed è l’oggetto del desiderio, Nadja fa il contrario. Nadja è una donna indipendente e non ha bisogno del nostro sguardo per esistere, Nadja è sempre presente anche anche quando non la vediamo, vive fuori dall’inquadratura. Esiste al di là della proiezione del desiderio maschile. Nadja è un personaggio etereo e inafferrabile proprio perché si sottrae al desiderio oggettivante maschile.

La natura qui è un elemento importante, tanto quanto la Grande Storia nei suoi film precedenti; quanto influenza perciò i personaggi? E come mai questo cambio di prospettiva?
CP: Nella scena in cui i personaggi discutono al tavolo, Nadja cita von Kleist e il racconto del terremoto in Cile. Quel racconto è ispirato al terremoto di Lisbona che ha cambiato radicalmente il pensiero filosofico europeo e che sancisce l’inizio del pensiero illuminista. In quella scena è di questo che i personaggi stanno parlando ma riferendosi al cambiamento climatico. Il cambiamento climatico non è casuale, ma frutto delle nostre azioni e von Kleist, in seguito al terremoto di Lisbona, afferma che bisogna cambiare e trovare una nuova forma di raccontare la storia e il mondo. Così come noi forse abbiamo bisogno di nuovi modi di raccontare ciò che accade. Ecco, il film forse parla proprio di questo: nuove forme diverse di raccontare.

 

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102 minuti
Germania, 2023
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