Un colpo di fortuna - Coup de Chance

di Emanuele Polverino
colpo di fortuna - recensione film

«Sarei voluto nascere in Europa ed essere un regista francese».
Sono le parole con cui Woody Allen, durante la presentazione in anteprima italiana il 15 settembre, ha voluto introdurre il suo ultimo, e cinquantesimo, lungometraggio: Un colpo di fortuna - Coup de Chance. Una frase che riesce a inquadrare e illuminare sotto un’altra e ben precisa luce un film che, da una buona parte di critica (soprattutto francese), è stato ritenuto debole e stancamente adagiato sui classici stilemi del cinema alleniano. E a un primo, superficiale, sguardo si potrebbe quasi pensare di concordare con chi ritiene che ormai Allen scriva e diriga film con il pilota automatico, nel tentativo di rispolverare sceneggiature di suoi vecchi capisaldi – Match Point e Misterioso omicidio a Manhattan sono gli immediati collegamenti in questo caso – pur di non smettere di girare (per lui è sempre stata una questione di vita o di morte essere dietro la macchina da presa). Ed è proprio qui che ci viene in aiuto il postulato (o assioma, se si vuole essere radicali) citato prima: «sarei voluto nascere in Europa ed essere un regista francese». Perché con il suo ultimo film – il primo interamente in lingua straniera – Allen decide di girare un proto-remake di uno dei grandi (e dimenticati) capolavori della Nouvelle Vague: Stéphane, una moglie infedele (La femme infidèle), diretto nel 1969 da Claude Chabrol. Regista con il quale Allen, a ben guardare, ha diversi punti di contatto, a partire da una carriera indirizzata alla prolificità e longevità non indifferenti, un percorso fatalmente attratto dal mistero e spesso incentrato sulla figura della donna, epicentro in ogni sua declinazione. Ma se le sceneggiature dei due film si prestano a una convergenza tematica, è nell’equilibrio tra gli elementi e nella sostanza dell’approccio formale che emergono le (necessarie) differenze, dove il cinema di Allen prende il sopravvento sul mondo costruito da Chabrol.

Jean Fournier (Melvil Poupaud) e Fanny Fournier (Lou de Laâge) sono una giovane coppia che vive nel fiore degli anni, e del loro amore, la routine parigina. Tra case d’asta di alto antiquariato ed eleganti residenze nel cuore della capitale francese, la loro vita sembra il perfetto sogno alto borghese. Sarà un fortuito incontro con un vecchio compagno di scuola e ora scrittore, Alain Aubert interpretato da Niels Schneider, a condurre Fanny verso un destino d’infedeltà nei confronti del geloso e iperprotettivo marito.

allen recensione venezia

Al netto dell’ispirazione che Allen sembra trarre dal film di Chabrol per costruire il suo primo lungometraggio “francese”, è nella coerenza con cui torna a riflettere sul cuore pulsante del suo cinema che il film si arricchisce e diventa l’ennesimo grande tassello di una folgorante carriera. Perché già dall’incipit, indice di un personale approccio alla sceneggiatura, capiamo le intenzioni del regista newyorkese, che con un lungo e avvolgente piano sequenza accompagna il primo casuale incontro tra i due futuri amanti. Ne deriva una smaccata attenzione alla dimensione romantica (spesso presente in Allen, nonostante il suo sarcasmo) che in Chabrol è del tutto assente. Si pensi a come Chabrol decide di aprire (e chiudere) La femme infidèle, con un campo totale su Hélene Desvalées (Stéphane Audran) la moglie, Charles Desvalées (Michel Bouquet) il marito, Manny (Louise Rioton) la madre di lui e Frédéric (François Moro-Giafferi) il figlio della coppia, una costruzione che sembra descrivere perfettamente i canoni di una classica e benestante famiglia francese di inizio anni 70.

Se il focus dell’opera di Chabrol risiede nella meschina facciata della famiglia borghese, nel macabro gioco al tradimento, nella noia coniugale che spesso pervade le fredde serate autunnali trascorse davanti al televisore, in Allen tutto assume sfumature differenti. La passionale storia tra i due amanti non è abbandonata nelle ellissi ma pervade la prima metà del film, mentre l’omicidio – che in Chabrol diventa un silenzioso esercizio di stile, nella miglior accezione del termine, per sé stesso e per l’assassino – occupa una parte minimale della storia, maldestramente mascherato e svelato con il colpo di scena nel finale. In Chabrol il gioco di allusioni, condotto tra movimenti di macchina, carrelli laterali e un depistante dello zoom, attraverso immagini che ruotano attorno agli oggetti di scena rimandando al mistero nascosto nel fuori campo, viene incoraggiato da una totale bidimensionalità delle pedine in gioco. Non a caso come spettatori ci ritroviamo a parteggiare inizialmente per il marito, innocente vittima del tradimento, per poi arrivare a quello splendido finale che rivela la doppiezza della famiglia nel suo complesso. Allen, al contrario, fa sì che i personaggi vivano e muoiano nella freschezza dei loro dialoghi, esaltati dalla luce di Vittorio Storaro che invade e pervade la scena con i suoi toni caldi (per la storia d’amore tra Fanny e Alain) e freddi (quando il tradimento prende forma nella mente e negli atteggiamenti del marito Jean).

Allen insomma omaggia ma al contempo prende le distanze, per parlare ancora di ciò che ama e di ciò che lui e il suo cinema sono sempre stati. A partire da quell’incipit, che racchiude tutto il calore e la passione che guideranno il film, e nella seguente attenzione alla musicalità dei dialoghi, al non detto che prende forma dal movimento dei corpi, alla spesso disillusa speranza e la casualità della vita. Un colpo di fortuna - Coup de Chance rivela un trasformismo e una vitalità che a ottantotto anni, dopo cinquanta film e altrettanti anni di carriera, non possono far altro che confermare, come se ce ne fosse ancora bisogno, la grandezza di un regista che ha ancora voglia di mutare e aggiornare il cinema, indifferente alle critiche e fedele a ciò a cui ha sempre creduto.

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Woody Allen Lou de Laâge Niels Schneider Melvil Poupaud 96 minuti
Francia, Regno Unito 2023
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Remembering Every Night

di Emanuele Polverino
Remembering Every Night - recensione film

Ultimi giorni di primavera, primi d’estate. Così Remembering Every Night, il secondo lungometraggio di Kiyohara Yui (visto in concorso al Inlaguna Film Festival - Festival Internazionale di Cinema Indipendente a Venezia) sembra rimanere sospeso nel tempo e nello spazio, dove le storie di tre donne si incontreranno e uniranno come piccoli pezzi di un enorme puzzle.

Tama New Town è il più grande complesso residenziale del Giappone, costruito nel 1965 e in grado di ospitare 200 mila anime, dislocate e suddivise in tanti quartieri, in una struttura urbana che genera delle piccole città nella Città. Ed è proprio qui che le vite delle tre protagoniste – Chizu (Kumi Hyodo), una disoccupata di mezza età; Sanae (Minami Oba), un’addetta comunale alla lettura del gas; e Natsu (Ai Mikami), studentessa universitaria – scivolano lentamente nei piccoli momenti quotidiani, tra bizzarre avventure e rimpianti passati. In un non-luogo che inghiotte e dimentica, sospeso in un limbo temporale senza fine, dove i ricordi appassiscono nel dedalo di strade tutte uguali. Come le memorie di un’anziana signora che da anni ormai vive da sola, i vecchi filmati dimenticati e mai sviluppati, le piccolezze che rievocano la nostalgia per un tempo in cui le storie di un quartiere trovavano la loro forza nella comunità, nell’unione e nella fiducia reciproca.
Non a caso, una delle prime immagini del film è un campo totale che inquadra un gruppo di amici intento ad assaporare le ultime brezze primaverili, all’ombra di un grande albero e al suono di una tastiera elettronica. Cimelio di un tempo perduto e simbolo di un collettivismo ormai sbiadito. Reminiscenze di universi alternativi, dove il ricordo di un gatto scomparso rievoca frammenti di vita familiare, manifesto di un Giappone, quello del boom economico post Seconda guerra mondiale – lo stesso complesso di Tama New Town (considerato una vera e propria altra-Tokyo) fu punto apicale dell’architettura urbanistica degli anni 60-70 –, ormai scomparso.

Ed è qua che sembra aleggiare il suggerimento a una dimensione altra, nei momenti anti-narrativi in cui la macchina da presa abbandona i personaggi alla ricerca di mondi ulteriori fuori dal quadro. O negli sguardi dei personaggi verso il fuori campo, persi a indagare e scoprire altri-noi. Universi analogici in cui provare a tornare in vita in un mondo post-pandemico, cercando di annullare quella distanza e quei silenzi che ideologicamente e concretamente si sono creati. Distanze generazionali che ricordano molto l’eredità dei film di Ozu, dove l’incomunicabilità diventava scontro e successiva riconciliazione (spesso ritrovata in un ritorno a determinati valori di un vecchio Giappone tradizionale). In Remembering Every Night appunto, le tre protagoniste assumono idealmente le varie fasi naturali di vita dell’essere umano, dove l’infanzia e l’adolescenza vengono rievocate attraverso racconti e filmati, mentre la vecchiaia con fugaci apparizioni di anziani abbandonati a loro stessi.

Il film è costruito sui raccordi di tanti campi lunghi e totali, un montaggio essenziale volto a risaltare ed evidenziare la solitudine delle protagoniste, spesso figure decentrate o squadernate. Le quali si perdono e ritrovano all’interno del quadro, accompagnate da motivetti extra-diegetici e rumori (diegetici) di vita quotidiana, colonna sonora del quartiere. E se alcuni momenti – come il ricordo del gatto scomparso che riaffiora da un vecchio filmato e che metaforicamente si lega alla nostalgia della regista per il mondo (sommerso) analogico, contrapposto a quello spersonalizzato e anonimo del digitale (lo stesso Tama New Town diventa simbolo dell’omologazione urbana), o il bel finale che riprende e prova a trasmutare, così come l’incipit, immagini già codificate e assimilate dal cinema di Ozu – risultano assolutamente degni di nota, è proprio l’esasperazione formale e l’eccessivo ricorso ai campi lungi (e totali) che porta lo spettatore ad allontanarsi dall’intimismo dei dilemmi delle tre protagoniste. Compromettendo, almeno parzialmente, la totale immersione nel flusso (anti) narrativo e contemplativo che permea il film per tutta la sua durata.

Un’opera che, come detto in precedenza, si adagia troppo facilmente su elementi che il cinema giapponese negli anni ha ampiamente digerito e sorpassato, ma che trova nella sincerità, propria e dei personaggi, il suo maggiore punto di forza.

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Yui Kiyohara Kumi Hyodo Minami Ohba Ai Mikami 116 minuti
Giappone 2023
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Birth/Rebirth

di Mattia Caruso
Birth/rebirth - recensione film Moss

In tempi in cui l'horror spesso e volentieri eccede nel suo gusto per l'allegoria, ossessionato da un “messaggio” che usa il genere come semplice pretesto, un film come Birth/Rebirth potrebbe sembrare quasi elementare nella sua immediatezza. Eppure, a rendere interessante il lungo d'esordio di Laura Moss – visto al Torino Film Festival e già passato per il Sundance – è proprio il modo in cui ragiona su temi forti e sempre attuali come potrebbero essere quelli legati alla maternità e alla genitorialità, senza mai voler trascendere il genere di appartenenza, senza mai diventare esplicitamente e superficialmente “politico”.

Operando il più significativo dei gender swap, il film riprende infatti il Frankenstein di Mary Shelley per fare della figura prometeica del suo mad doctor qualcosa di nuovo. Una figura non solo ribaltata di segno ma sdoppiata in due opposti che incarnano due mondi, due sistemi di valori agli antipodi eppure solo apparentemente inconciliabili. Nello strano rapporto di co-dipendenza che si instaura tra Rose (Marin Ireland), fredda e ossessiva anatomopatologa che, novella re-animator, ha scoperto il modo di ridare la vita attraverso l'uso di cellule staminali, e Celie (Judy Reyes), ostetrica affettuosa ed empatica travolta dalla morte improvvisa della figlia Lila, ci sono infatti due modi di intendere il femminile (e la maternità) che cozzano tra loro ma che si uniscono in un'alleanza che metterà le due donne di fronte a dilemmi etici via via sempre più significativi, fino a ribaltare i rispettivi ruoli e a confrontarsi con scelte decisamente estreme.

Birth/rebirth - recensione film moss 2

Se è vero che l'opera di Shelley, al di là del celebre tema dell'uomo “che gioca a fare Dio”, porta già avanti un discorso sulle paure e le ansie legate alla procreazione e alla genitorialità, Birth/Rebirth sembra operare il naturale passo successivo: riportare, in maniera esplicita, la donna al centro di quel discorso. Non più uomini che, senza bisogno della controparte femminile, generano artificialmente altri uomini, dunque, ma donne che, dando e ridando la vita, rivendicano il proprio ruolo attivo sulla scena. Anche a costo di sperimentare i limiti dell'etica e del loro stesso corpo.

Ambientato quasi esclusivamente in interni, Birth/Rebirth racconta così di un orrore opprimente e claustrofobico che nega il soprannaturale (siamo lontani da film come Flatliners o Pet Sematary) restando con i piedi ben piantati in una realtà fatta di ossessioni e sentimenti, scienza e affetto, dove l'orrore non sta solo nelle raggelate sequenze di vivisezione che scandiscono la vicenda, donandole una patina inevitabilmente cronenberghiana, ma nelle scelte che, per il (presunto) progredire della scienza o per amore, si è portati a compiere.
Un orrore ambiguo su cui la regista pare sospendere il giudizio, interessata com'è a farci entrare piuttosto nelle dinamiche di questa famiglia sui generis, facendoci empatizzare con essa (soprattutto con il dolore di madre di Celie, contrapposto alla freddezza pragmatica di Rose) solo per poi costringerci a fare i conti con decisioni via via sempre più estreme e discutibili. È proprio per questo che Birth/Rebirth può dirsi un film davvero scioccante, per lo scontro di sguardi e punti di vista che mette implacabilmente in scena e con cui interpella costantemente lo spettatore. Consapevole che non esistono risposte facili quando ci si confronta col dolore della perdita e quando è in gioco la responsabilità stessa, e tutta femminile, di dare (o ridare) la vita.

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Laura Moss Marin Ireland Judy Reyes A. J. Lister Breeda Wool 101 minuti
USA 2023
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Best Wishes to All

di Emanuele Polverino
Best wishes to all - recensione film

«Se la nostra felicità dipende da come gli altri ci vedono, come faremo a capire di essere davvero felici?».
Kotone Furukawa (tra i volti de Il gioco del destino e della fantasia di Hamaguchi) è una studentessa di infermieristica a un passo dalla laurea. Scappata dalla campagna, e dalla famiglia, un giorno riceve una chiamata dal padre che la prega di tornare nel paese in cui da piccola viveva con i nonni, nella casa in cui le primissime immagini del film prendono vita. Un ritorno a traumi infantili che la ragazza sembra non aver mai superato. Premiato per la miglior regia nel Concorso Internazionale Lungometraggi del Monsters Taranto Horror Film Festival, Best Wishes to All è il primo film Shimotsu Yuta.

Prodotto da Shimizu Takashi, il film sembra ripercorrere, almeno per la prima parte, i più classici stilemi del cinema horror giapponese dei primi anni 2000, quello più attento a elementi classici della vita quotidiana, in cui case infestate e fantasmi di ogni genere vengono messi da parte. Costola virtuosa dei V-Cinema (film straight to video), è del resto il cinema che rese famoso Shimizu con la rinomata serie Ju-on, la quale, proprio a inizio di millennio, segnò un modo di intendere, e produrre, film di genere nel mercato nipponico. Ovvero film televisivi, nella miglior accezione del termine, con pochissimo budget ma tantissime idee, in grado di invadere la sfera orrorifica del cinema trasformandone le più tipiche caratteristiche di genere (ereditate dal periodo 60-70 con capolavori come Onibaba e Kuroneko) e intercettando il cambiamento verso il digitale, a volte con largo anticipo, trasmutando paure ancestrali attualizzandole ai cambiamenti sociali di inizio millennio, integrandole e dilatandole per incontrare le nuove esigenze dello spettatore.
Come Creepy di Kurosawa Kiyoshi (2016), uno dei padri del nuovo cinema horror giapponese, anche il film di Shimotsu Yuta individua nella famiglia, e più in generale nella società consumistica, l’epicentro del malessere che sembra aleggiare in secondo piano – o dal fuori campo – in tutta la prima parte del film. Riuscendo quindi a trasformare la casa spesso epicentro di ogni male (appunto, Ju-on) in puro veicolo, mezzo attraverso il quale la famiglia è in grado di gettare le sue radici, espandendo il suo potere gentrificante verso luoghi ancora non contaminati dal consumismo. Se quindi la dimora era fondamentale nelle opere di Shimizu, in quanto la maledizione era parte stessa degli spazi familiari e ne permeava come un virus le pareti, nel film di Shimotsu la decentralizzazione del suo ruolo è appunto dovuta alla maggior consapevolezza, quasi come assunzione di responsabilità, della famiglia come portatrice di male.

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È con la seconda metà del film, divisione scandita da un colpo di scena che sancirà anche un cambio nell’approccio formale del regista, fino a quel momento estremamente rigoroso, che la decostruzione del genere prende forma.
Se inizialmente è nell’intangibilità del male che l’orrore prende forza e si alimenta, mano a mano che la protagonista prende consapevolezza delle sue radici e del segreto che si cela dietro alla mascherata perfezione familiare, il tutto si sposta su una dimensione più carnale e attenta all’importanza dei corpi che si muovono nella casa. È nell’impossibilità di slacciarsi dai legami familiari, che contagiano come un virus chiunque ne venga a contatto, che le mutazioni e metamorfosi fisiche e strutturali trovano origine: nel determinismo delle scelte del singolo, comandate da un percorso (forse) secolare da cui la protagonista non riesce a distaccarsi. Una condizione che la porterà anche ad annientare l’unica figura immune al fascino della perfezione. Un’epidemia, quella consumistica, che trova nei corpi il mezzo (non più la casa) necessario per espandersi, individuando nella felicità la nuova droga con cui stregare e guidare le azioni dell’uomo contemporaneo. Un sentimento fagocitato non tanto da una condizione personale del singolo, quanto più attraverso gli occhi e la bocca di un altro individuo. I sensi tramite cui viene incanalata e manifestata l’accettazione di noi stessi da parte di altre persone che fanno parte della nostra stessa sfera sociale (per non dire familiare): «se la nostra felicità dipende da come gli altri ci vedono, come faremo a capire di essere davvero felici?»

Così Best Wishes to All abbandona i canoni più elementari del j-horror per deragliare in quelli di un body horror di cronenberghiana memoria – le associazioni, soprattutto nel finale, con The Brood sono quanto mai evidenti – e provare così a inserirsi in un discorso tematico/produttivo/distributivo oltremodo saturo.  Formalmente Shimotsu si affida (e confida) alle lezioni stilistiche di Kurosawa Kiyoshi, soprattutto per quanto riguarda le scene in interni e l’orrore manifesto tra ciò che vediamo e il mistero (nel fuori campo). C’è anche una certa attenzione al ruolo del campo e controcampo, che ritrova forza e vigore teorico attraverso un’insistita frontalità della macchina da presa nei momenti di maggiore tensione. Le musiche sono invece la vera nota dolente del film, scolasticamente giustapposte in modo tale da guidare lo spettatore, laddove distorsioni sonore e accademici crescendo intaccano in minima parte la bontà di alcune scene. È proprio in questo suo modo di essere estremamente didascalico – con l’uso della colonna sonora come emblema – che il film trova le sue fallacie tematiche e formali. Un materiale che però, nonostante i limiti derivanti dall’essere un’opera prima – il film è tratto da un cortometraggio del 2021, e talvolta la sensazione di lungaggine si avverte – riescono a scalfire il nocciolo di un nuovo (o rinnovato) materiale da cui poter ripartire.

Insieme a New Religion di Kondo Keishi – con cui condivide il tema, almeno parzialmente, del body horror – il film di Shimotsu Yuta rappresenta un incoraggiante esordio, che tenta di riportare nei radar produttivi e distributivi il J-horror, un genere che ormai da tempo si è lasciato alle spalle i fasti dei grandi autori, perdendosi nell’omologazione tematica e stilistica del contemporaneo.

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Yuta Shimotsu Kotone Furukawa Koya Matsudai 89 minuti
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Good Boy

di Irene Frau
good boy recensione flm

“Il limite dell'amore è sempre
quello di aver bisogno di un complice.
Questo suo amico
sapeva però che la raffinatezza
del libertinaggio è quella di essere
allo stesso tempo carnefice e
vittima.”

Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini

In una società nella quale le definizioni di amore sono costantemente oggetto di contesa politica, dove non si flirta ma si matcha, qual è il cortocircuito tra cura e sottomissione? Una possibile risposta a questa domanda è il pretesto narrativo di Good Boy, il terzo lungometraggio del regista norvegese Viljar Bøe, presentato al Monsters Taranto Horror Film Festival, organizzato dall’associazione Brigadoon e sotto la direzione artistica di Davide Di Giorgio. Quest’anno la manifestazione è arrivata alla sua sesta edizione, premiando Good Boy come Miglior Film nel Concorso Internazionale Lungometraggi.
Per la sezione Concorso Cortometraggi la giuria del festival ha premiato un'altra produzione scandinava, l’animazione The Lovers della svedese Carolina Sandvik. Il riconoscimento come Miglior Film della sezione Off Horror è andato invece a The Fifth Thoracic Vertebra, del sudcoreano Syeyoung Park.

Uno degli aspetti più interessanti di Good Boy riguarda la messa a fuoco, spietatamente verosimile, sul ruolo del potere nelle dinamiche relazionali. Sigrid, interpretata da Katrine Lovise Øpstad Fredriksen, è una studentessa lavoratrice che inizia a frequentare un ragazzo di nome Christian, conosciuto su un app di appuntamenti. Incarnato da Gard Løkke, il giovane appare come lo stereotipo del classico rampollo miliardario, dall’aspetto impeccabile, estremamente curato e dal carattere introverso, consapevole della sua scarsa propensione alla socializzazione. Il primo appuntamento fra i due segue il perfetto copione di una commedia romantica, ma è compromesso da un solo aspetto. Christian invita Sigrid a casa sua, in una villa nella quale dice di abitare in compagnia del suo cane Frank, che in realtà non è un vero e proprio animale domestico ma un uomo adulto che si comporta come se fosse un cane, indossando un travestimento.

good b

Viljar Bøe sceglie ambientazioni asettiche, luci fredde e il costante movimento della macchina a mano come comuni denominatori di un film nettamente bipartito tra un primo tempo dal taglio provocatorio e un secondo che passa repentinamente dal thriller all’horror. L'iniziale atmosfera rassicurante scivola in una spirale di tensione sempre più cupa, verso il superamento di ciò che poteva essere considerata come una pratica consensuale fra Christian e Frank, in direzione di uno scenario perverso e disturbante.
Dalle prime inquadrature che delineano il profilo del protagonista, Christian è osservato da vicino nei suoi gesti quotidiani, a primo impatto del tutto normali, tipici di una qualsiasi persona metodica, ordinata e abitudinaria. Gard Løkk restituisce l’algidità minacciosa del suo personaggio con una recitazione composta, imperscrutabile. Peccato che fra tutti, Christian sia l’unico personaggio a essere caratterizzato da particolari e dettagli, a discapito di quelli di Sigrid e di Frank, che invece restano solamente abbozzati e privi di consistenza. Uno dei fattori ai quali si potrebbe ricondurre la stesura di una sceneggiatura un po’ troppo precipitosa e sommaria può dipendere dal budget limitato. Di fatto, Good Boy dura solamente 79 minuti in cui si condensano parecchi messaggi, si susseguono registri appartenenti a differenti generi, si mette molta carne al fuoco.

Uno degli aspetti maggiormente perturbanti del film riguarda le argomentazioni che Christian utilizza per manipolatore Sigrid, rispetto al rapporto che ha instaurato col suo bizzarro coinquilino Frank. Il giovane miliardario la porta a mettere in discussione il concetto di normalità, avvalorando la sua tesi nel riferirsi esplicitamente all’approvazione sociale delle persone omosessuali nel corso della storia. Anche un’amica, con la quale Sigrid si confida, convince la ragazza ad essere di larghe vedute, di considerare la possibilità che si tratti di un puppy play, una pratica BDSM del tutto consensuale. Soprattutto, la esorta a non lasciarsi sfuggire un pretendente col quale sistemarsi, che potrebbe risolvere definitivamente ogni suo problema presente e futuro. Sigrid si lascia persuadere sia dalla retorica, sia dalle coccole lussuose, sorseggiando vini costosi in calici di cristallo e godendosi le totali attenzioni di una persona che non ha niente di cui preoccuparsi durante la giornata, se non del suo cane e del conteggio delle calorie. Sembra quasi che lei stessa ceda alla tentazione di barattare la sua libertà in cambio di certezze, al riparo da qualsiasi preoccupazione legata alla sussistenza. Di contro, Christian potrebbe sembrare capace di relazionarsi solamente quando può esercitare il massimo controllo coercitivo sull’altro, esattamente come fa per sé stesso, per la cura del suo corpo e dei suoi spazi. Sotto questa lente, parrebbe che vittima e carnefice siano stretti da un legame di complementarietà tale per cui, nel gioco delle parti, un ruolo non può esistere senza l’altro.

good boy film r

Eppure, se l’idea attorno alla quale ruota l’intero film tiene desta l’attenzione dello spettatore, la scrittura prende una direzione troppo sbrigativa, ricalcando le convenzioni del genere horror senza riuscire a caricarle di personalità. Il profilo psicologico dei personaggi, per l’appunto solamente abbozzato, pur lasciando intendere le ombre dietro ai costumi della nostra epoca in merito ai rapporti interpersonali, lascia alcune questioni in sospeso. Una di queste riguarda, ancora una volta, Sigrid e le scelte impulsive che prende nella seconda parte del film, così poco sufficientemente plausibili da smorzare la tensione che avrebbe potuto essere ancora più drammaticamente incisiva. In merito alla regia, dalla cifra stilistica non particolarmente evidente, sembra che si abbia preferito dare priorità alla fotografia.

È invece nel finale che il soggetto di Bøe esprime totalmente le sue potenzialità, lasciando intendere le sorti infauste delle vittime di un sociopatico, affetto da manie di controllo patologiche. Gli ultimi minuti di Good Boy sono talmente interessanti da riabilitare l’intero film, specialmente per la finezza del montaggio con cui si avvicendano le ultime sequenze di violenza a una chiusura che non ha bisogno di mostrare sangue o torture per essere agghiacciante. Complessivamente, nonostante alcuni snodi narrativi inesplorati, Good Boy offre nuovi possibili spunti di riflessione nel panorama dell'horror contemporaneo e lascia presumere che la crescita artistica del regista Viljar Bøe stia prendendo la giusta direzione.

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Viljar Bøe Gard Løkke Katrine Lovise Øpstad Fredriksen 76 minuti
Norvegia 2023
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The Old Oak

di Rosario Gallone
the old oak recensione film

Può un critico deporre, anche se solo temporaneamente, le armi dell'analisi, gli strumenti dell'osservazione che necessiterebbero di porsi a una certa distanza dall'opera, nel momento in cui è chiamato ad analizzare un film e il suo autore?
Non sappiamo se può, ma di certo non ha scelta di fronte all'ultima regia di Ken Loach: The Old Oak. Perché, come dice il personaggio di Yara, vero alter ego del regista, quando hai visto tante cose che avresti voluto non vedere, tali da non avere parole per descriverle, se le guardi attraverso la camera scegli di scorgere un po' di speranza e un po' di forza.

Così fa Ken Loach, opera una scelta: fotografare sì una realtà, ma attraverso il filtro della speranza e della forza. Azzera il distacco tra soggetto e oggetto dello sguardo, caratteristica ricorrente dei suoi lavori, ma stavolta colma l’immagine di empatia e comprensione. Ne abbiamo bisogno? Sì, ci potete giurare.
Ci sono al mondo già così tanta rabbia, sconforto, sfiducia e pessimismo (sentimenti che anche l'ottantasettenne regista britannico non manca di manifestare: Sorry, We Missed You non si può certo definire una favola) che The Old Oak è l'abbraccio di cui tutti abbiamo bisogno, la carezza che può rendere meno gravoso il peso di una vita difficile (che si sia profughi in fuga da una guerra o cittadini dimenticati dalle istituzioni), la mano tesa agli ultimi, un gesto che in molti abbiamo dimenticato. Loach, infatti, non ce l'ha con nessuno: tutti i suoi personaggi sono vittime, anche quelli che tramano contro TJ Ballantyne che, in fondo, è un po' come il Jimmy Gralton di Jimmy's Hall – Una storia di amore e libertà (e l'Old Oak è un po' come la sua Pearse-Connolly Hall). I cattivi, da sempre, sono il potere, il capitalismo e il liberismo sfrenato che stritolano gli individui e fanno perdere il senso di comunità. E questo senso di comunità è ciò che The Old Oak mette al centro del film.

When You Eat Together, You Stick Together: sono i pranzi e le cene sociali in cui ognuno scopre di aver bisogno dell'altro, cessa di vergognarsi della sua condizione e di invidiare persino chi magari riceve una bicicletta di seconda mano e degli abiti dismessi. Ma anche il cinema come momento di condivisione fa la sua parte: la proiezione delle fotografie di Yara cui assistono gli abitanti di Durham è un momento fondamentale in cui tutti si rispecchiano in quello che vedono sullo schermo, si vedono e si riconoscono uguali, inglesi e stranieri.
C'è poco da fare, si esce dalla visione di The Old Oak con gli occhi lucidi e gonfi di lacrime, non si riesce a essere obiettivi, ma è anche bello, occasionalmente, lasciarsi andare, come Anton Ego di fronte a una ratatouille, invece che mostrarsi professionali sì, ma anche “aridi” come gli inviati dei Cahiers du cinéma a Cannes (Olivia Cooper-Hadjian, Charlotte Garson, Alice Leroy, Thierry Méranger gli hanno affibbiato da un pallino nero a due stelle su quattro), che rimproverano a Loach un certo schematismo nella messa in scena e lo scarso approfondimento psicologico, compreso quello dei due protagonisti, che sarebbero più funzioni agenti in un meccanismo preordinato che veri e propri personaggi. Insomma la semplificazione di situazioni più complesse. Ma forse è giunto il momento di pensare che di fronte alla fame, alla guerra, alla morte, la complessità sia l'alibi del potere. Benvenuta semplicità, bentornato Mr. Loach.

Se sarà il suo ultimo film, avrà lasciato un'eredità di impegno e coerenza più unica che rara. Perché, se è vero che spesso ci siamo trovati ad affermare che alcune sue opere siano più necessarie che belle, nel caso di The Old Oak occorre avere il coraggio di affermare il contrario, che il film è bello, e tanto, proprio perché necessario. Pertanto shukran, Yara, e shukran TJ. Ma soprattutto, shukran Ken Loach.

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Ken Loach Dave Turner Ebla Mari Debbie Honeywood 113 minuti
Belgio, Francia, UK 2023
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Dream Scenario

di Saverio Felici
Dream Scenario recensione film Borgli

Per essere la forza motrice dell’intero immaginario contemporaneo, non si può dire che siano molti i film ad aver raccontato gli effetti cognitivi dell’Internet 2.0 sulla nostra psiche.
Un silenzio forzato che rivela l'intraducibilità dei due medium: quei fenomeni online tanto pervasivi da farsi cultura di rado trovano manifestazione nella realtà concreta - ed è purtroppo con quest’ultima che il cinema opera. Ascoltare personaggi di un film dibattere di cancel culture o alt right saprà sempre di artefatto, e non è detto che l'auto-ironia tenga come alibi: con ogni probabilità, quella stessa ironia è già stata fatta, l'argomento era già esaurito il pomeriggio stesso del giorno in cui andò in trending. Chiedere a Rian Johnson, ad Adam Mckay, o a Ruben Ostlund, il cui sarcasmo facilone in Triangle of Sadness pareva indietro sulle stesse idiosincrasie giovanili che pretendeva di parodiare. I trend digitali evolvono attraverso l'autocritica ironica, e ogni lettura “definitiva” è già banale nell'istante stesso che si perde a formalizzarla. Un meme muore come finisce in bocca agli opinionisti dei talk show, una sottocultura social è ufficialmente alla frutta quando iniziano ad arrivare gli editoriali di approfondimento.
Dream Scenario è l'autocandidatura di Kristoffer Borgli come satirista ufficiale della digital era, e viste le premesse non resta che applaudire al coraggio.

Dream Scenario amplia e migliora dunque un discorso già aperto dall'autore norvegese con i grotteschi DRIB e Sick of Myself, drenando lucidamente gli eccessi provocatori in favore di un approccio più morbido e sottile. Come il feroce e un po' sboccato film precedente, anche il terzo lavoro del regista muove su un terreno assurdista nel quale l’horror è ingrediente solo secondario. La surreale premessa è più figlia di certa comicità televisiva peraltro apertamente citata (Seinfeld, i sempiterni Simpson), dunque funzionale alla commedia di costume più bunueliana che polanskiana. Protagonista non è un incubo astratto quanto il quotidiano rapporto dell'individuo con l'internet tutto, inteso come manifestazione tangibile dell'immaginario collettivo (si cita Jung, ovviamente nella versione cretinizzata a là Jordan Peterson – per non sbagliare, citato a sua volta).

"Vita e morte di un meme" potrebbe sottotitolarsi Dream Scenario, storia di un omuncolo senza qualità, tra Ned Flanders e Walter White e mille altri, che come in un vecchio creepypasta si riscopre protagonista involontario dei sogni dell’umanità. Sovvertito il rapporto gerarchico tra immagini e realtà, il poveruomo vedrà sfumare quest’ultima nel labirinto delle rappresentazioni altrui. Non è un caso dunque che a dar corpo allo sventurato Paul Matthews sia l'attore-meme per eccellenza. Dopo due decenni di prese per il culo (dalle api di Wicker Man e la torta di Family Man e giù irridendo), Nicolas Cage ha finalmente riconosciuto l’espropriazione della propria immagine a opera del web. Il Talento di Mr C. era solo l’antipasto; sempre più consapevole della propria maschera, eccolo alla guida di un cast volutamente piatto e senza divi con il più ridicolo dei make up, vestiti fuori misura e vocetta da cartoon. Nicolas Cage meta-attore, wojak di carne in un mondo di umani, frammento di significato senza più referente alla deriva nell'infosfera.

Non è però l'eroe di Dream Scenario l'unico meme-suo-malgrado del film. Un’ulteriore chiave di lettura emerge contestualizzando l’opera all’interno del catalogo A24, etichetta talmente sdoganata da permettersi oggi, più o meno volontariamente, di entrare nella fase dell’autoparodia. Come il protagonista del film, anche la casa madre del cosiddetto elevated horror è al guado di una crisi di mezza età: il trionfo mainstream di EEOAO e The Whale da una parte, il cappotto finanziario di Men e Beau is Afraid dall'altro, voci insistenti su un'imminente svolta in direzione delle grandi IP all’orizzonte. Consapevole di arrivare al termine di un ciclo, l'europeo Borgli ha campo libero nel proporre la prima riflessione consapevole sul sottogenere. Fingendo di stare al gioco, si giustificano così le riciclatissime idee visive del film, sempre quelle, talmente ricorrenti nell’A24 Cinematic Universe da sembrare illustrazioni di un unico catalogo fotografico. Ironia sul paratesto, riciclaggio consapevole: se gli indie-horror metaforici sono meme a loro volta, non possiamo più riproporli senza riderne.

Basta cogliere i layers per accontentarsi? Verrebbe da opporre un no stizzito e un po' esasperato al giochino di rimandi. L’altrimenti modesto Dream Scenario ha però dalla sua qualcosa che mancava ad altre invettive sulla contemporaneità - tanto alla brutalità di Tàr (o di Sick of Myself), quanto alla fatuità dei vari Glass Onion o Bodies Bodies Bodies. È la sincera umanità di fondo dell’opera, piccola tragedia di un uomo ridicolo in questo incomprensibile decennio. Viene da pensare che, fosse vivo, Dino Risi si inventerebbe oggi un commento del genere, magari con Pozzetto protagonista. Sarà questo che fa voler bene a Dream Scenario: stanchi dello shitposting sarcastico, l'ultimo step che ci rimane dopo l'overdose di cinismo è ritrovare l’empatia.

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Kristoffer Borgli Nicolas Cage Julianne Nicholson Michael Cera Tim Meadows 100 minuti
USA 2023
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Past Lives

di Andrea Giangaspero
Past Lives - film recensione Celine Song

“Prova a guardare le tue dita. Poi, una per volta, muovile. Ti sembrerà davvero misterioso. Senti di non poter fare niente, ma poi sei in grado di muovere le tue dita”. Suona un po’ così la battuta che pronuncia il personaggio dell’insegnante in House of Hummingbird (2018, di Bora Kim) rivolta alla protagonista, in preda a una percezione di impotenza verso le cose che ha attorno. Muovere le dita solleticando l’aria. Un gesto piccolo piccolo attraverso cui si restituisce nel film un principio di compiutezza, di autodeterminazione.
Partiamo da qui. Non c’è alcun legame diretto tra Bora Kim e Celine Song, la regista di Past Lives. Entrambe però sono coreane. Ed entrambe hanno un modo molto simile di scrivere attraverso le loro immagini un’idea della vita che suoni come una specie di ronzio, o si posi come una nebbia sottile. Tra corpi in letargia e piegati all’inazione, muovere un dito coscientemente può accendere una luce. Il cinema coreano che conta è pieno zeppo di questa pratica, di questo modo di vedere le cose attraverso la lente della sobrietà e dei piccoli movimenti. Vengono in mente pure Moving on (2019) di Yoon Dan-bi e Aloners (2022) di Hong Sung-eun, ma pure la commediola agrodolce di Kim Cho-hee, La fortunata Chan-sil (2019).

In modo altrettanto efficace, dicevamo, se ne serve anche Past Lives, che scivola benissimo lungo la pasta morbida dei non detti, nello specifico adottando qui una prospettiva autobiografica, che vede la protagonista abbandonare i natali in Corea per emigrare in Canada coi genitori, e da lì muovere in età adulta a New York, proprio come accaduto per la regista. Nel suo passaggio dalla Corea a New York, la protagonista (Greta Lee) abbandona il nome, da Na Young a Nora Moon, e un amico-fidanzatino, Hang-seo (Teo Yoo). Si salutano senza dirsi neppure una volta quello che provano l’uno per l’altra e si perdono di vista per 12 anni, fino a quando lui non si serve di Facebook per rintracciarla. Ne vien fuori un dialogo a distanza à la Normal People, facce pixelate che si incontrano sui monitor dei MacBook nelle brevi coincidenze di disponibilità offerte dal fuso orario. E poi si riallontanano per altri 12 anni, fin quando Hang-seo decide di raggiungere Nora, pur sapendola ormai sposata con un newyorkese che come lei fa lo scrittore (John Magaro).

Non c’è una storia d’amore all’orizzonte. I due neppure si sfiorano, come invece accade nel melò bellissimo di Peter Chan, Comrades - Almost a love story (1996), che ne fa sicuramente da modello. Anzi, Hang-seo attraversa continenti quasi soltanto per comprendere cosa s’è perso dell’amica d’infanzia, senza nutrire alcuna speranza per una riconquista. Celine Song fa camminare i suoi protagonisti per le vie del Brooklyn Bridge Park - lo skyline di Manhattan di là dall’Hudson - e li osserva mediante la grana preziosa e la ricchezza pastosa dei colori catturati dalla sua lente analogica. Qualità finissima propria delle immagini laccate A24 e Sundance, si dirà, e tuttavia questa volontà di impreziosire il quadro non altera la tensione sottostante. Entrambi parlano di in-yun, una parola che i coreani utilizzano per concettualizzare il tocco del destino che si posa su due persone (anche quando queste si sfiorano soltanto, senza che s’incontrino o nasca qualcosa tra loro), una fatalità carica in sé del pregresso di vite passate, di incontri sopiti nella memoria del tempo.

past lives - film recensione Celine Song

Due persone innamorate l’una dell’altra sono il risultato di almeno ottomila livelli di in-yun, dice ancora Nora, e un po’ così funzionano questo film e il cinema coreano di spessore, lavorando a catturare lo spirito del tempo, l’imperturbata distanza alienante prodotta dal lavoro (Aloners), da una famiglia in conflitto (Moving On), dalle pieghe del destino e dalla propria volontà (Microhabitat e lo stesso Past Lives), per cavarne fuori - spesso in modo assai prosaico e per questo ancor più magico - anche il più sottile strato di una qualsivoglia qualità umana sincronizzata con l’amore puro. E per questo il compagno yankee di Nora le rivela di sentirla bisbigliare nel sonno in coreano, la lingua che ha quasi reciso dalla sua esistenza, come se inconsciamente si rifugiasse in un’alcova affettiva che è una sacca di tempo e di memorie, una diffrazione dello spettro. Non solo nella dimensione lunare e inconscia del sogno, anche nella vita vera Nora e Hang-seo esprimono quel gesto di compiutezza e autodeterminazione, di cui parlavamo in apertura, affrancandosi dal destino, o quel che è un ronzio nell’orecchio di essere meant to be.

Come suggerisce una sequenza chiave che è infatti il controcampo visivo e uditivo dell'incipit, coi tre personaggi - il coreano, lo yankee e la coreana-yankee - seduti al bancone di un bar sorseggiando un drink. All'inizio, con prospettiva frontale e distante dai personaggi, partecipiamo con la voce di un gruppo di spettatori invisibili nell'intuire il rapporto tra i tre, e vien facile pensare che stia accadendo qualcosa di più tra i due coreani, mentre il terzo è isolato, in ascolto, viso preoccupato. Col rovescio prospettico che seguirà più in là nel film - e di cui è, appunto, il momento chiave - la verità del dialogo tra Nora e Hang-seo si rivela. È un venire a patti coi turbinii dei rispettivi mondi interiori, con i pruriti dei what if, di infinite vite passate e ipotetiche in cui ci si è tenuti per mano come da bambini, per compiere infine quel piccolo movimento delle dita che è invece un balzo di tigre (senza voler scomodare Benjamin, la cui espressione calzava però qui a pennello). E quasi riducono la grande aura del destino a una piega, un'increspatura della realtà, scegliendo strenuamente di custodirsi in un incontro e un ricordo, diventare l’uno per l’altro un brivido sottocutaneo, un gorgheggio dell’anima.

In La fortunata Chan-sil, il fantasma dell’attore Leslie Cheung appare d’un tratto alla protagonista cinefila e la tiene stretta tra le sue braccia, chiedendole uno sforzo. “Tieni duro, Chan-sil”. Una battuta che è di una verità granulare e che però è quanto Nora e Hang-seo possono e decidono di abbracciare. Rompendo l’inerzia, filtrando l’ovatta della vista, tenendo duro.

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Celine Song Greta Lee Teo Yoo John Magaro 106 minuti
Stati Uniti 2023
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The Creator: Is Everything In The Right Place?

di Alessio Baronci
The Creator - Film - Gareth Edwards

Dopo il nero, in fondo, non si può che ripartire dall’abisso. Bisogna come al solito muoversi in parallelo, giocare su più tavoli e, soprattutto, ammettere di trovarci a contatto con un sistema che si muove con tempi rapidissimi. Si è discusso a lungo, proprio su queste pagine, di spazio analogico infiltrato dal digitale, di nuovi paradigmi visivi, di un cinema dei dati che sta acquisendo sempre più forza, identità, fagocitando anche le icone di un immaginario eminentemente di carne e sangue, di cui svela, anzi, in prospettiva, il debito con lo spazio digitale, come accaduto con Tom Cruise in Mission Impossible - Dead Reckoning Parte 1.

Appena una manciata di mesi fa terminava questa prima guerra mediale ed è già il tempo di leccarsi le ferite, di riflettere sulle conseguenze del trauma, di processare questo impatto, magari sintetizzando un vero e proprio vocabolario di motivi, di strutture ricorrenti utili a raccontare la crisi. E in The Creator sembrano esserci tutte o quasi: l’avanzatissima intelligenza artificiale creata dagli americani, la bomba nucleare che l’AI sgancia, pare autonomamente, su Los Angeles, la conseguente guerra senza quartiere lanciata da America ed Europa contro questa tecnologia senza volto, inconoscibile (e la Cina, emblematico, che prova a convivere con questo nuovo ecosistema) e infine un soldato disilluso incaricato di dare il colpo di grazia all’Intelligenza Artificiale ma che finisce, irrimediabilmente, per empatizzare con il bersaglio.
Ma si parlava di abisso. Perché a Gareth Edwards, forse il primo creativo che, per caso o necessità, si è trovato a doversi confrontare con le conseguenze dell’impatto, va in effetti riconosciuta una lucidità straordinaria nell’affrontare la questione. Non fa un passo indietro, lascia intendere che la lotta, la resistenza, tra l’uomo e la macchina siano soprattutto una questione di facciata, in realtà l’esito dell’ennesimo scontro di civiltà è già tutto scritto nello splendido prologo che racconta gli antefatti della guerra. E lo fa posizionandosi già al di là del linguaggio e del medium cinema in senso convenzionale, optando piuttosto per un ibrido che unisce finto repertorio con i filmati Educational che raccontano l’ingresso dei robot nelle fabbriche già negli anni ’50, estratti di false sedute del Congresso colte con panoramiche da fly on the wall e altrettanto artefatte ricostruzioni storiche di eventi mai avvenuti. Il punto di partenza, è evidente, è la lezione postmoderna di Zemeckis, che in Forrest Gump infiltrava il suo protagonista nei meandri della Storia. Gli intenti, però, sono evidentemente agli antipodi.

Manca, in effetti, l’ironia del postmoderno. C’è, piuttosto, la consapevolezza che quanto sta avvenendo di fronte allo spettatore non sia la realtà, ma neanche una sua rappresentazione prettamente “cinematica” in senso stretto. Ce lo dice la sintassi, ce lo dicono i formati, certo, ma ce lo dice anche, forse soprattutto, questa strana fatigue, quest’affanno che si percepisce tra le immagini, il loro desiderio di avvicinarsi alla rappresentazione di uno spazio credibile ma mai veramente decifrabile dai sensi. E allora emergono le ammaccature, le incertezze, i falsi positivi, le visioni involontariamente inquietanti, malgrado il sistema cerchi di “dirti” che ciò che stai vedendo è tutto vero. È il trionfo del deepfake, il prologo di The Creator, squadernato, tuttavia, senza alcun intento esibizionistico ma quasi lasciando intendere che, ora, le uniche immagini possibili al cinema sono quelle “pensate” ed elaborate dai dati, dall’intelligenza artificiale, afferenti a contesti sempre più lontani dalla concretezza del reale. Gareth Edwards ha colto il potenziale mitopoietico dell’IA, la possibilità dello spazio digitale può accogliere nuovi immaginari, nuove mitologie a partire da immagini che hanno una loro forza, una loro credibilità intrinseca. È vero, il suo è un ragionamento a grana grossa e, per certi versi, pare limitarsi a proseguire un discorso che, tra gli altri, era già in nuce in un film come The Gray Man praticamente nato a partire dalla ricombinazione di spunti, spazi, linee pre-esistenti, ma tra il film Netflix e The Creator c’è un abisso. Perché per Edwards tutto pare perduto, tutto va ricreato da zero, gli input precedenti sono ormai relitti, non troppo dissimili da quelli che, in effetti, il protagonista è incaricato di scandagliare per lavoro. E allora tanto vale sfidare lo spettatore, immergerlo in uno spazio straniante, interrogare la tenuta dei suoi sensi.

Avrebbe tutto il potenziale per essere un film densissimo, The Creator che sembra voglia rileggere in chiave contemporanea quella paranoia del digitale che già era nel cinema dei primi anni ’00 di un autore come Tony Scott e che, a ben vedere, insisteva in domande simili (dov’è la verità, ad esempio, in un mondo di immagini false ma così convintamente vere? cosa vuol dire reale? come si guardano queste nuove immagini?). Ma quando Edwards è chiamato a dire la sua si blocca, spiazzato da una crisi della referenzialità che ha innescato ma che in realtà, a ben vedere, non sa come gestire. Quasi lo spaventa, tant’è che, emblematicamente la relega allo spazio sonora, da cui improvvisamente emerge, all’apice del primo atto, quell’Everything Is In The Right Place che è il singolo con cui i Radiohead tentarono di raccontare le paranoie della internet culture nel 2001. È come una resa, una fuga in altri spazi perché ci si rende conto troppo tardi di non avere il fiato e la forza muscolare per sviluppare la lettura ipotizzata in un primo momento. E allora, spaventato dal peso delle sue argomentazioni, o forse, perché no? dalle risposte, inquietanti, ambigue, che avrebbe potuto trovare “dall’altra parte”, The Creator fa un passo indietro e quasi si contraddice.

The Creator - Film - Gareth Edwards

Disperato, Edwards cerca la referenzialità a tutti i costi, lavora sulle superfici, costruisce grossomodo ogni cellula visiva o narrativa del suo film a partire da quei prelievi da cui, almeno inizialmente, pareva voler prendere le distanze. Come per rassicurare gli spettatori che in fondo nulla è cambiato, che i regimi della rappresentazione sono ancora quelli noti, che le regole del gioco sono quelle condivise. Ma è un meccanismo di difesa che prevedibilmente mostra le sue falle senza troppe difficoltà, che forse regge solo quando insiste sulle zone canoniche del cinema del suo regista, sulla sua fascinazione per i War Movie, per l’estetica sporca delle campagne americane in Vietnam o in Iraq, i cui tratti distintivi sembrano tornare costantemente tra le immagini, come fossero incubi inconsci di un’intera nazione che infestano anche le distopie più remote.

Per il resto è un film sempre più stanco, The Creator, sempre più rigido, che pare ravvivarsi solo quando si rende conto che lo spettatore ha intuito il suo gioco referenziale e portato alla luce, in modo tutto sommato semplicissimo, tutti i riferimenti, le influenze, gli spunti su cui si costruisce. Ma allora quella di Edwards non è più un’idea di cinema futuro ma piuttosto una fiacca caccia al tesoro che passa da Terminator e Blade Runner, sfiora le estetiche urbane di Neil Blomkamp, costeggia certe inquadrature prese di peso dal precedente Rogue One ed esonda in un ultimo atto che pare fare il verso al prologo di Call Of Duty - Infinite Warfare, forse uno dei pochi veri colpi di reni di un film che in chiusura almeno torna a quello sguardo oltre il cinema da cui era partito. Edwards si nasconde sullo sfondo, quasi schermato dalle ambientazioni curatissime, dagli oggetti di questo mondo sci-fi che pare non riuscire a essere altro che un freddo diorama o, ancor meglio, un artwork di Ralph McQuarrie o Simon Stålenhag (eccolo, ancora, prigioniero della reference a tutti i costi). La regia, la scrittura, non entrano mai davvero in gioco perché  al film manca tutta la pars costruens, la forza che leghi un vero e proprio discorso argomentativo a partire dalle tematiche affrontate dal film. Beninteso, è evidente che a tratti sfiori certe intuizioni per certi versi fenomenali, anche solo per il modo in cui prova a raccontare il futuro con sguardo quasi solar punk, rileggendo in chiave luminosa il rapporto tra uomo e tecnica, sfiorando quasi la tecnomagia, tra mani giunte in preghiera che lanciano impulsi EMP e robot che officiano funerali. Ma si tratta di illuminazioni momentanee, che la scrittura lascia emergere senza mai davvero argomentarle, senza mai partire da esse per fondare quel paradigma, interpretativo e visivo, annunciato nelle prime immagini, quasi si accontentasse di lasciare certi elementi allo stato grezzo perché tanto basta, tanto è sufficiente a rassicurare chi guarda che la tecnica, la tecnologia, forse non sono strutture così apocalittiche, respingenti, come potrebbe sembrare, dopotutto.

È  un film apodittico, The Creator, che accetta le sue idee come ovvietà, un falso movimento, solo in apparenza proteso verso il futuro e in realtà straordinariamente contemporaneo, soprattutto per il modo in cui porta in scena e prova a contrastare quelle che sembrano alcune delle maggiori fobie del presente: la paura della perdita dei propri punti di riferimento, la paura di non comprendere più come previsto ciò di cui lo spettatore fruisce.

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Gareth Edwards John David Washington Gemma Chan Ken Watanabe Sturgill Simpson Allison Janney 133 minuti
USA 2023
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La caduta della casa degli Usher

di Federica Piana
La caduta della casa degli Usher - recensione netflix flanagan

Chi non si è scoperto, cento volte, nell’atto di commettere un’azione spregevole o stolta, a ciò indotto dalla sola ragione che, come ben sapeva, non doveva farla? Malgrado il nostro saggio avviso non abbiamo noi forse una perpetua inclinazione a violare la Legge, solo perché la conosciamo come tale? Fu questo spirito di perversità, lo
affermo, a condurmi alla catastrofe.

Edgar Allan Poe, Il gatto nero

Una cieca e inesauribile perversità è il tratto comune ai protagonisti di La caduta della casa degli Usher (The Fall of the House of Usher), l’ultima serie scritta e diretta da Mike Flanagan e distribuita su Netflix dal 12 ottobre. A partire dall’opera di Edgar Allan Poe, Flanagan riflette sulla crudeltà del mondo odierno, costruendo in modo sapiente una narrazione incentrata su una famiglia abietta, macchiatasi di ogni sorta di nefandezze e per questo artefice della sua stessa rovina. Avidi e anaffettivi, Roderick e Madeline Usher hanno costruito la fortuna della loro casa farmaceutica sulla vendita indiscriminata di un antidolorifico che provoca gravi e letali effetti collaterali. La buona sorte che da sempre ha accompagnato gli Usher li abbandona improvvisamente quando i sei figli di Roderick, altrettanto meschini, iniziano a morire in bizzarre circostanze accidentali.

Come è facilmente intuibile da queste poche righe, la rielaborazione dell’omonimo racconto di Poe non si esaurisce in un suo mero aggiornamento in chiave contemporanea ma passa, come spesso avviene nel cinema di Flanagan, attraverso un meticoloso lavoro di riscrittura. La caduta della casa degli Usher fornisce più che altro al regista la suggestione di base per un adattamento dell’opera di Poe nel suo complesso. Se in The Haunting of Bly Manor (2020) la brevità e compiutezza del materiale originale, ovvero Giro di vite di Henry James, hanno probabilmente influito sulla riuscita generale della serie (penalizzata anche dall’assenza della regia e della scrittura di Flanagan in quasi tutti gli episodi), in questo caso la possibilità di spaziare tra fonti molteplici ha permesso al regista di manifestare liberamente la ricchezza del suo immaginario e delle sue risorse espressive.
È dunque l’intero corpus del poeta di Boston a offrire i presupposti e l’imbastitura ideale per la serie: alcuni tra i più celebri racconti di Poe, come Il gatto nero e I delitti della Rue Morgue, insieme alla poesia Il corvo (omaggiata nel primo e nell’ultimo episodio) forniscono titolo e spunti narrativi a ciascuno degli otto episodi. Tuttavia, la rielaborazione di Poe non è circoscritta all’utilizzo di citazioni dirette ma si traduce in un sistema di rimandi e omaggi estremamente elaborato che, nonostante la sua complessità, non intacca mai la linearità e coerenza del racconto. I richiami sorprendono per la loro numerosità, tanto che sarebbe difficile quantificarli tutti: spaziano dai nomi di tutti i personaggi (Auguste Dupin, Annabel Lee, Tamerlane, Arthur Gordon Pym, per citarne alcuni) fino ad alcune svolte e dettagli narrativi, come lo scontro con il proprio doppio da William Wilson, i denti strappati in Berenice, il crudele omicidio al centro di Il barile di Amontillado o il motivo, così ricorrente in Poe, della sepoltura accidentale di una persona ancora in vita.

caduta usher

Il risultato è uno straordinario universo-Poe che, se da un lato appaga chi già conosce e ama lo scrittore, dall’altro è reso fruibile anche per chi non si sia mai avvicinato alla sua opera, proprio grazie alla coesione e alla solidità del plot. Sostenuto da questa rete di continui richiami, il racconto seriale di Flanagan si sviluppa intorno ad alcuni temi portanti della poetica di Poe. Così, l’angoscia causata da una fine sempre più vicina e ineluttabile, un assordante senso di colpa dovuto agli atti di perversità commessi e la loro conseguente espiazione scandiscono, inquietanti come il rintocco della pendola che preannuncia l’arrivo della Morte Rossa, l’atto finale della famiglia Usher. Per queste ragioni, La caduta della casa degli Usher risulta molto più vicina all’opera di Poe di quanto The Haunting of Hill House lo fosse al gotico femminile di Shirley Jackson e, soprattutto, riesce a restituire potentemente l’immaginario dello scrittore americano più dei numerosi, e spesso deludenti, biopic dichiaratamente romanzati, come il recente The Pale Blue Eye (S. Cooper, 2022).

Mike Flanagan è dunque riuscito là dove i più avrebbero fallito, ovvero nell’impresa non facile di sorprendere e inquietare il pubblico nonostante la notorietà di racconti come Il cuore rivelatore, qui reso magistralmente grazie a una costruzione martellante della suspense e a un climax che culmina in agghiaccianti scene body horror. Attraverso codici espressivi attuali e la cura formale che da sempre caratterizza il suo cinema, Flanagan riproduce in maniera affatto scontata ciò che di solito si prova quando si leggono i racconti di Poe per la prima volta: incredulità, raccapriccio e la continua, angosciante sensazione di trasalire. La serie incarna alla perfezione le brutture della società in cui viviamo, sfatando la concezione favolistica del progresso e mostrando punti di contatto inaspettati tra le scelleratezze del mondo di oggi e quelle della prima metà dell’Ottocento.
I temi trattati sono, d’altra parte, estremamente attuali, basti pensare al già accennato riferimento alla crisi degli oppioidi negli USA e al ruolo giocato dalla famiglia Sackler nel commercio dell’ossicodone (al centro di altre due serie recenti, Dopesick, del 2021 e Painkiller, del 2023). D’altronde, cosa potrebbe descrivere meglio la contemporaneità se non una spasmodica aspirazione al denaro e alla fama a ogni costo, e l’indifferenza assoluta verso le ricadute tragiche che questa bramosia ha per le nuove generazioni?

Se da un punto di vista formale tutta la serie si mantiene coerente fino al finale, alcuni episodi spiccano per la potenza delle immagini: La maschera della morte rossa e il preludio orgiastico al macabro finale sulle note di “Closer” dei Nine Inch Nails; l’estetizzante e crudele lotta contro gli specchi in Lo scarabeo d’oro; l’originale messa in scena della trappola mortale in Il pozzo e il pendolo, solo per citarne alcuni. Con i suoi attori feticcio, la sua incredibile capacità di rimodellare con naturalezza capolavori assoluti della letteratura, e con un immaginario che sarebbe eufemistico definire disturbante, Mike Flanagan si riconferma come il narratore horror (e non) più influente di questa generazione e fa de La caduta della casa degli Usher uno dei suoi lavori migliori.

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Mike Flanagan Kate Siegel Carla Gugino Bruce Greenwood Mark Hamill Henry Thomas Ruth Codd Rahul Kohli Samantha Sloyan T’Nia Miller Miniserie da 8 episodi
USA 2023
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