Cobweb

di Jacopo Bonanni
Copertina

"Nessuno saprà mai se i bambini sono mostri, o se i mostri sono bambini. "

Non si tratta di una citazione casuale quella con cui Lucio Fulci conclude il suo Quella villa accanto al cimitero: un affresco malinconico, spettrale e anticonformista sulla dimensione illogica dell'infanzia dove si rintanano nel buio della psiche entità spaventose, impulsi omicidi e morbose fantasie di vendetta. Nel 1981 il colto regista romano aveva già percepito come la riflessione di Henry James estrapolata dal celebre romanzo Giro di vite, pietra angolare del genere gotico, fosse l'unica chiave di lettura possibile per comprendere e rappresentare compiutamente la vastità e la complessità dell'universo infantile in tutte le sue sfaccettature. L'influenza dell' intuizione visionaria di James, come quella dell'opera di Fulci, si riverbera ancora oggi su tutto il cinema fantastico - soprattutto in ambito horror - laddove un autore scelga di confrontarsi con gli orrori dell'infanzia per interrogarsi sul rapporto simbiotico (e simbolico) che intercorre tra innocenza e mostruosità.

Quella villa accannto al cimitero

Nel corso degli anni il grande schermo è stato letteralmente invaso da una covata malefica di piccoli animi corrotti - sulle orme tracciate dai bambini innocenti di Clayton e quelli dannati di Rilla - in grado di compiere e di assistere inermi a qualsiasi genere di efferatezze malgrado la presunta innocenza che li dovrebbe contraddistinguere; di solito si tratta di ritratti archetipici dove la sfera infantile e preadolescenziale diventa automaticamente sinonimo di abbandono, marginalità e morte. Lo testimoniano, in tempi recenti, sia i giovani protagonisti dell'osannato film australiano Talk to Me diretto dalla coppia di youtuber Danny e Michael Philippou, sia i bambini spaesati dello sperimentale Skinamarink di Kyle Edward Ball. Nonostante le presenze fantasmatiche rappresentino l'elemento visivo predominante di queste opere, il ruolo dei bambini resta centrale all'interno della narrazione in quanto essi condividono la stessa dimensione di alterità e solitudine dei mostri (interiori) che li perseguitano e li opprimono. L'incomunicabilità di questa condizione si trasforma così in un "catalizzatore naturale" di eventi sinistri, surreali e insidiosi che si manifestano puntualmente lontano dallo sguardo offuscato degli adulti.

Cobweb 1

Questo aspetto risulta ancora più evidente se analizziamo il recente Cobweb: una fiaba nera a tutti gli effetti - vicina alle atmosfere di Babadook - dove quel gomitolo confuso di timori e ossessioni tipiche dell'infanzia prende forma grazie alla sensibilità del regista francese Samuel Bodin. Come molti dei suoi coetanei, anche il protagonista di questa storia - il timido Peter - è un bambino introverso, bullizzato dai coetanei e incompreso dai genitori, che trova conforto soltanto tra le ombre del suo isolamento forzato. Nella sua giovane esistenza l'unica presenza capace di comprenderlo, ma soprattutto di difenderlo dalla angherie e dalla nevrosi del mondo esterno - oltre ad una premurosa insegnante - sembra appartenere a una forza misteriosa che alberga tra le mura della sua abitazione in attesa di essere sprigionata. Ignorato da tutti, nonostante le disperate richieste d'aiuto, recluso nel microcosmo provinciale della sua casa/prigione, il bambino, stanco di subire, sfogherà ben presto la sua frustrazione con inaudita violenza, scoprendo troppo tardi - insieme agli spettatori - la natura ostile del male che ha liberato e che sta per inghiottirlo.

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Dopo l'avvincente serie horror Marianne targata Netflix, Samuel Bodin torna di nuovo dietro la macchina da presa per raccontare, in modo altrettanto intelligente, una storia palpitante di incubi domestici e fratture familiari alimentata e sostenuta da un senso del  ritmo formidabile, un intreccio narrativo affascinante e una recitazione sopra la righe. Fin dal principio la scelta del cast risulta particolarmente appropriata, soprattutto per quanto riguarda il bizzarro connubio tra Lizzy Caplan e Antony Starr nei panni di una bizzarra coppia di genitori psicotici, protagonista di alcuni dei momenti più deliranti del pellicola. Nota di merito anche per la figura del bambino, interpretato da Woody Norman, che si rivela il motore dell'azione, la causa sconvolgente degli eventi, demolendo la convenzione universale che lo vorrebbe relegato al ruolo di puro spettatore inconsapevole. Contrariamente ad altre pellicole, il film di Bodin non tenta infatti di giustificare l'infanzia, anzi la mette in discussione svelandoci il mostro che si nasconde sotto il letto, la "metà oscura" dei bambini: quella dionisiaca, emotiva, nichilista e in quanto tale votata alla distruzione. Al netto di alcune incongruenze riscontrate nella sceneggiatura, il pregio maggiore di questo lavoro, a dispetto di molte produzioni contemporanee, resta quello di "credere fermamente nella potenza evocativa del cinema di genere puro e semplice" (Calzoni).

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Da questo punto di vista Bodin è consapevole che non ha bisogno di "elevare" il suo film con pedanti allegorie per renderlo credibile, memore della lezione di Stephen King secondo cui "un sottotesto funziona a meraviglia soltanto se non è invadente". Infatti, quello che ci viene presentato in Cobweb è un orrore fiabesco dalle regole semplici e brutali come sono semplici e brutali certi giochi dei bambini: la quintessenza della narrativa del brivido. Il tipico racconto di mezzanotte dal sapore autunnale, ricco di dettagli sanguinolenti e situazioni angoscianti, che progredisce inesorabile e scava sottopelle, costruendo un clima di terrore latente per poi deflagrare (e deragliare) in un finale esplosivo. La resa dei conti conclusiva tra Peter e il suo alter ego maligno probabilmente è l'elemento più grossolano e discutibile del film ma non riesce comunque a cancellare nello spettatore quella sottile sensazione di disagio provocata così abilmente durante il resto della visione. Un risultato che non può lasciare indifferenti, perché dimostra come sia ancora possibile arrivare al cuore del pubblico affidandosi a un linguaggio autoriale "primitivo" ed efficace - privo di inflessioni hipster - capace di spaventare senza dover per forza ostentare.

Categoria
Samuel Bodin Lizzy Caplan Antony Starr Cleopatra Coleman Woody Norman 88 minuti
USA, 2023
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Killers of the Flower Moon

di Matteo Berardini
Killers flower moon - recensione scorsese.jpg

La Crudeltà ha Cuore Umano
e Volto Umano la Gelosia
il Terrore, l’Umana Forma Divina
e Veste Umana la Segretezza

la Veste Umana, è Ferro forgiato
la Forma Umana, un’incandescente Forgia
il Volto Umano, una Fornace sigillata
il Cuore Umano, la sua Gola famelica.

William Blake

È anzitutto questione di corpi. Sfatti, imbolsiti, vecchi ma comunque incombenti, incarnano un potere di avidità corrotta, terrigna, famelica. Can you find the wolves in this picture? Tutti le figure apicali del potere messo in scena da Killers of the Flower Moon, potere bianco e maschile i cui connotati oscillano tra gli stilemi del western e del gangster movie, rientrano in questo tipo di configurazione formale. La posizione politica ribadita da Martin Scorsese passa anzitutto da qui, da questa pletora di carni stanche eppure inesauste nella loro ingordigia, intenzionate ancora e sempre a esserci, come corpo presente e pesante, dentro ogni immagine. A occupare l'inquadratura.
La smorfia imbruttente e belluina adottata da Leonardo DiCaprio è solo la punta dell’iceberg, la manifestazione più visibile e ottusa impiegata come strumento dalle eminenze grigie. Non certo innocente, perché sono sue le mani che si sporcano di sangue e veleno e affliggono persino lì dove il sentimento permane e si mescola a confuse ideologie di morte; eppure la colpa del suo Ernest Burkhart, nipote del mefistofelico William Hale, parla la lingua della debolezza piuttosto che della forza, vicina com’è alla semplicità manipolabile di certi personaggi rurali creati da William Faulkner. Realmente pura e morale è piuttosto l’innocenza di sua moglie, Mollie Burkhart, amata e contemporaneamente afflitta, ingannata, deturpata negli affetti e nell’identità culturale oltre che braccata per il suo patrimonio. Similmente a quanto già fatto tramite il personaggio di Peggy Sheeran, la figlia del killer interpretato da Robert De Niro in The Irishman, anche qui Scorsese rende la presenza femminile una controparte apparentemente silente al mondo di violenza perpetrato dal dominio maschile, detentrice di voce narrante ma soffocata dall'altrui punto di vista. Come Peggy, anche Mollie si limita per lo più a osservare, senza prendere posizione, ma che errore sarebbe scambiare il silenzio di queste figure per condiscendenza, acquietamento, sconfitta. Il loro sdegno piuttosto riverbera, e in particolare in Killers, grazie alla dignità gloriosa e ardente incarnata da Lily Gladstone, il tutto avviene attraverso gli occhi. Nello sguardo di Molly, mai chiuso anche nei momenti di peggiore malattia, anche quando il sentimento sembra accecare il giudizio e rendere incredibile il tradimento, è raccolto tutto il senso morale e l’urgenza politica del film. Il suo cuore, attorniato da lupi famelici che non ne inzozzano la purezza e la dignità, appunto, altissimamente umana.

Nel suo classico L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, il sociologo Max Weber esprime una tesi rimasta celebre, per cui l’impulso all’arricchimento terreno professato e perseguito dalla borghesia europea a partire dal Cinquecento va ricondotto, o per lo meno messo in relazione, all’interpretazione etica del lavoro data dalla confessione protestante, anzitutto quella di matrice calvinista, secondo cui la ricchezza personale non è altro che la manifestazione fenotipica della grazia divina. Ma se è vero che il benessere dato dal lavoro, con i suoi frutti monetari e materiali, rispecchia una volontà divina, come spiegare la ricchezza detenuta dagli infedeli? Come tollerare che una riserva indiana, grazie ai giacimenti di petrolio scoperti dentro il suolo, diventi il territorio con i più alti valori di ricchezza pro capite del mondo? I nativi americani della nazione Osage, in Oklahoma, sono la popolazione più ricca degli Stati Uniti, ma cosa hanno fatto per meritarsi quel benessere? E come si permettono di detenerlo, indossarlo, ostentarlo fino al paradosso di legare a sé, attraverso accordi commerciali, la forza lavoro bianca?

killers moon recensione

La grandezza di Killers of the Flower Moon, e il motivo per cui si ritaglia un suo spazio autonomo e fortemente significante nel filone cinematografico dedicato alla rilettura insanguinata della fondazione americana (da I cancelli del cielo a Il petroliere passando per Gangs of New York dello stesso Scorsese, controtipi del mito intenti a mettere sotto nuova luce quali furono davvero the hands that built America), sta tutta qui, in questa sorta di bestemmia urlata contro il cielo, una stortura grottesca da cancellare e correggere a ogni modo. Finanche soffocandola nel sangue, storpiandola nello sfregio umiliante della disperazione. Affinché la ricchezza generata dal capitalismo ritorni nelle mani dei legittimi proprietari, di coloro che soli possono viverne il benessere all’interno della dimensione teologica dettata dalla grazia divina (la quale, evidentemente, non contempla il paradosso per cui l’origine del benessere sono i giacimenti offerti dal territorio, di cui i nativi sono, ontologicamente e contrariamente al pensiero bianco, i detentori naturali). Raccontare il piano oscenamente criminale di William Hale, i sotterfugi, gli inganni e gli omicidi attraverso i quali quel fiume di denaro nero veniva via via deviato e ricondotto lungo il suo corso verso la legittima foce, permette a Scorsese non solo di gettare una luce sulla cronaca dimenticata ma di contribuire al processo di decolonizzazione della storia culturale americana creando un ponte tra le sue forme di razzismo sistemico, genocidio e ferinità capitalistica, e l’impianto ideologico europeo, quindi occidentale tutto.

Dotato di una forza mercuriale, letteralmente febbrile in certi momenti del racconto, e di un incedere morale e tensivo che non lascia scampo, come una tagliola che lenta si serra attorno alla gola e preme sempre più sulla giugulare, un millimetro alla volta, Killers of the Flower Moon si rivela un’esperienza cinematografica ben più intensa e stratificata di The Irishman. Un film prodotto da Apple ma pensato per tutto fuorché piattaforma, che parla la lingua del grande cinema e decide di farlo per tre ore e mezza di racconto, senza sbavature o lungaggini di sorta.
Talmente convinto del progetto da mettersi in gioco in prima persona, nello splendido finale tra archeologia dei media e lezione di cinema politico, Scorsese mette in campo un’energia e una lucidità registica mai perdute, e che davvero scuotono occhi e animo a confronto con il panorama odierno. Killers of the Flower Moon è un gesto di fede dovuta, un’ulteriore scavo nella nascita mostruosa di una nazione, un affresco che riporta l’immagine del cinema americano a forme di epica e classicità perdute. L’occhio si spalanca, come nella danza finale intrapresa dagli Osage tra gli alti fili d’erba delle loro praterie, un ballo tribale in cui turbinano nel vento corpi, tessuti e colori, ripreso dall’alto di un plongée che ne stilizza la forma circolare, l’iride dilatata rivolta verso il cielo.

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Martin Scorsese Leonardo DiCaprio Robert De Niro Lily Gladstone Jesse Plemons Brendan Fraser John Lithgow 206 minuti
USA 2023
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Sick of Myself

di Mattia Caruso
Sick of myself - recensione film borgli

Signe (Kristine Kujath Thorp) non è una narcisista. O, almeno, questo risponde a chi le chiede perché lavori in un bar e non, ad esempio, assieme al suo ragazzo, Thomas (Eirik Sæther), artista contemporaneo in ascesa e alla costante ricerca di visibilità. Eppure, ogni cosa che avviene nel secondo lungo di Kristoffer Borgli, Sick of Myself, ora in sala dopo essere passato per Cannes 75, fa, sin da subito, pensare il contrario. Dall'insofferenza con cui guarda ai successi del compagno alle trovate puerili con cui cerca di chiamare gli occhi su di sé è infatti immediatamente chiaro come Signe viva per ricevere attenzioni, ossessionata dallo sguardo altrui e terrorizzata di non essere abbastanza interessante per meritarselo.
Un desiderio, quello d'attenzione, che nel film del regista norvegese finisce col trasformarsi presto in patologia quando la ragazza decide consapevolmente di fare uso di un farmaco ritirato dal mercato spacciandone i devastanti effetti collaterali per una rara malattia della pelle. È l'inizio di un calvario che getterà Signe in una ragnatela di menzogne sempre meno innocenti e sempre più autodistruttive, al solo scopo di realizzare il sogno di una vita: essere finalmente guardata. Non importa a quale prezzo.

Adottando i toni della commedia nerissima Borgli costruisce una satira tagliente e feroce sul nostro tempo e la sua ossessione per le immagini. Lo fa mettendo in scena la storia esemplare di una dissociazione, quella di un individuo che costruisce una versione alternativa di sé in una realtà altra dove poter essere finalmente protagonista. Un viaggio che accorpa assieme body horror (già esplorato dall'autore nel corto Eer) e black humour, dramma e inserti onirici, restituendo il senso di spaesamento di un personaggio ormai incapace di orientarsi tra realtà e fantasia (di sé). Una dissociazione che non coinvolge solo Signe ma pare ammantare tutto il film e i suoi personaggi (Thomas in primis, in lotta costante con la protagonista per essere al centro dell'attenzione) fino a coinvolgere, con essi, anche lo spettatore. Perché il mondo di Signe è il nostro stesso mondo e la sua paura è la stessa che consuma la nostra contemporaneità: la paura di scomparire, di non essere speciali, di essere, in definitiva, invisibili, inguardabili.

È su questo confine sottile, quello che corre tra visibile e invisibile, ma anche tra fascinazione e repulsione, che resta in bilico Signe, consapevole che, oggi, nell'era dell'inclusività e della diversity, è proprio essere vittima a vendere di più. A patto, ovviamente, che la diversità sia ben regolamentata, che la “bruttezza”, cioè, non respinga mai davvero ma sia invece affascinante, ispiratrice, “instagrammabile”.
Tra coppie disfunzionali divorate dall'invidia e bisogno patologico di visibilità, Sick of Myself restituisce così, con intento, certo, programmatico ma con una padronanza tematica ed espressiva tutt'altro che superficiale, il ritratto tagliente e a tratti insostenibile di una società in cui esteriorità e interiorità finiscono paradossalmente per coincidere, vittime di un male (o di un vuoto) che non conosce confini. Un Triangle of Sadness (ma la coppia disfunzionale che si fa a pezzi è una figura ricorrente nelle narrazioni di questo periodo, pensiamo al recente Lo scontro) appena meno grottesco e più puntuale, dove la guerra per il successo e l'affermazione individuale non risparmia nessuno, sintomo di un'ipocrisia tutta contemporanea che è fatta, ancora una volta, della stessa sostanza di un sogno americano oramai ubiquo, un morbo tanto fisico quanto mentale diffuso a ogni latitudine e in ogni sensibilità.

 

 

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Kristoffer Borgli Kristine Kujath Thorp Eirik Sæther Fanny Vaager Henrik Mestad 97 minuti
Norvegia, Svezia 2022
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Malum

di Gaia Fontanella
malum recensione horror

Il regista horror statunitense Anthony DiBlasi torna alla regia con Malum, un self-remake del suo precedente Last Shift, del 2014, il cui impianto viene qui reimmaginato e ampliato, per donare nuova profondità a una storia già convincente e divenuta nel corso del tempo un piccolo cult. Il plot di base è il medesimo: una giovane recluta accetta di sorvegliare da sola una stazione di polizia nella sua ultima notte di attività, prima che la centrale venga dismessa a favore di una più moderna ed efficiente. Durante questo ultimo turno si manifestano eventi carichi di orrore e, soprattutto, di echi di un passato non troppo lontano, legati alle vicende di una setta satanica e alla storia personale della protagonista Jessica.
Le fondamenta narrative non differiscono di molto dalla prima versione del film, di cui viene mantenuto l’omaggio basilare a Distretto 13 di John Carpenter, apertamente citato da DiBlasi, che non sceglie però la via dell’horror politico ma, piuttosto, quella di un misticismo gore. Nel capolavoro del 1976 il distretto è assediato da una folla senza volto che cerca di entrare mentre qui la presenza maligna è già all’interno, scatenata dalle azioni di una setta satanica che compiva sacrifici umani.

La stazione di polizia di Malum è un luogo carico del dolore, della sopraffazione e della violenza che hanno abitato le sue celle, e che si manifestano in visioni e fantasmi del passato che perseguitano la recluta, costringendola ad affrontare le azioni di un’ingombrante figura paterna: le colpe del padre poliziotto ricadono inevitabilmente sulla figlia, mettendo in scena una narrazione che si dipana sul confine tra demoni personali e demoni reali. La solitudine e l’isolamento vengono acuiti da strane telefonate anonime e da una città in rivolta al di fuori delle mura del distretto, tutte le volanti sono impegnate a sedare i tumulti per il primo anniversario del massacro compiuto dalla setta satanica guidata da un leader carismatico di nome Malum, figura chiaramente e prevedibilmente ispirata a Charles Manson. La presenza del satanico si fa via via sempre più tangibile, segnando così la grande differenza con Last Shift, dove era nettamente più sfumata la linea di separazione tra eventi reali e autosuggestione. Questa volta DiBlasi sceglie una via più definita, complice anche un budget più elevato, che permette di indugiare con maggiore insistenza su effetti speciali che arricchiscono l’orrore messo in scena, rendendo il film più efficace nel creare perturbazione nello spettatore.

malum rece fdsa

Malum è un mix riuscito del sottogenere della casa infestata, ibridato con uno dei tópoi narrativi più sfruttati in cinema e letteratura, quello della stanza chiusa: un’unica location che diventa, qui letteralmente, prigione. Il senso di claustrofobia e di inevitabile confinamento diventano materia diegetica pulsante e angosciante, costruendo un labirinto oscuro nel quale noi che guardiamo perdiamo l’orientamento insieme a Jessica, in un susseguirsi di riusciti jumpscare, cantilene inquietanti, immagini disturbanti ed effetti sonori dissonanti. Questa compartecipazione spettatoriale viene accentuata da una regia che, in alcuni momenti, assume un punto di vista videoludico, con la camera puntata alle spalle della protagonista che percorre un dedalo di corridoi, in pieno stile survival horror à la Resident Evil. Questo innesto transmediale rappresenta una delle innovazioni più interessanti nella rivisitazione del testo originale, ne aumenta esponenzialmente l’incisività e lo stile, rendendolo così molto più personale e coinvolgente.

L’operazione di riscrittura funziona per la maggior parte del film, depotenziandosi leggermente sul finale, che si perde in una sovrabbondanza di impulsi e stimoli, ma che resta più aperto e perciò più congruo rispetto a quello di Last Shift; la scelta di DiBlasi di rimaneggiare la sua opera si inserisce in un orizzonte più ampio di registi che rimodulano e reinformano le proprie creazioni, cosa che specialmente si adatta al genere horror, da sempre prolifico nella creazione di remake, reboot, sequel e ampliamenti di universi narrativi. E qui si opta per un’impalcatura filmica radicalmente diversa dalla precedente, abbandonando del tutto l’impianto minimalista della pellicola del 2014 a favore di un eccesso debordante di sollecitazioni visive e sonore, che da un lato ben compensano l’ambientazione scarna e limitata della stazione di polizia, ma che dall’altro lo rendono, soprattutto nella seconda parte, cacofonico e confusionario.
Certamente qui manca la potenza eversiva carpenteriana, la carica politica si desatura quasi del tutto, ma sarebbe anche ingiusto un confronto tanto iniquo dettato da una semplice - quanto lapalissiana - citazione. Il difetto più riscontrabile di Malum sta, semmai, nella sua mancanza di incisività e di pulizia, rendendolo così un film molto piacevole ma anche caotico e non mordace quanto avrebbe potuto.

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Anthony DiBlasi Jessica Sula Candice Coke Chaney Morrow 92 minuti
USA 2023
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Priscilla

di Matteo Berardini
Priscilla - recensione film coppola

Cinema della gabbia dorata, di solitudini femminili isolate dal mondo a opera di un benessere che fa da schermo protettore. Puoi proiettarci sopra i tuoi desideri ma infrangerlo è tutt’altra cosa. Ma anche cinema del ribaltamento di genere, del controcampo femminile che completa il quadro, lo verifica e complica. A ben guardare non è la prima volta che Sofia Coppola prende una storia dal radicato punto di vista maschile e la rimette in scena con una prospettiva altra, femminea, invertendo il segno del racconto. Già L’inganno (The Beguiled) operava in maniera simile, concentrandosi sul lato femminile dell’avventura eastwoodiana narrata ne La notte brava del soldato Jonathan. Il film di Don Siegel, primo adattamento del romanzo scritto da Thomas P. Cullinan, era allora il punto di partenza per l’operazione voluta da Coppola, intenta a estendere le coordinate cinematografiche che più le sono proprie dentro e attraverso delle griglie preesistenti che possano offrirle nuovo territorio in cui muoversi, nuovi contesti e referenti simbolici con cui confrontarsi. Un’operazione nettamente riuscita ma che messa in fila con Priscilla solleva adesso il dubbio che questo cinema, seppur così deciso e riconoscibile nelle forme, inizi a mancare di ispirazione propria e cerchi piuttosto contesti altri a cui applicarsi come struttura modulare. Priscilla in tal senso nasce come contraltare, volente o nolente, dell’Elvis di Baz Luhrmann, ma il ribaltamento di prospettiva ha un che di calligrafico, di pudicamente fuori fuoco, tanto che il film stesso sembra, a visione conclusa, mancare a sé stesso.

Avviata durante il servizio militare di Elvis in Germania e proseguita per anni burrascosi fino alla prigionia di lui sul palco di Las Vegas, la cronaca è per lo più nota, accennata anche nel film di Luhrmann e qui ricostruita a minor velocità e intensità scopica. Del resto tra il regista australiano e Coppola non potrebbe esserci maggior distanza registica, per quanto entrambi i film lavorino, in forme per l’appunto opposte, sullo spessore semantico della superficie, su ciò che nasconde ma soprattutto comporta. Ma se Luhrmann maneggia, magistralmente, le logiche e condizioni postmoderne, Coppola è ancora figlia della modernità, del cinema introspettivo che costruisce vicende e personaggi attraverso le attese e le relazioni con gli spazi, anzitutto domestici. Un cinema dello sguardo, che parla la lingua dell’alienazione inspessendo la cornice rappresentativa del quadro, senza per questo rinunciare all’immedesimazione sentimentale nei confronti dei caratteri.
Priscilla in tal senso conferma con coerenza l’approccio e gli interessi della sua autrice, puntando a completare quella cronaca appena accennata in precedenza, ma se l’intento è quello di dare dignità narrativa e spazio scopico alla vicenda di Priscilla, al personaggio e tutto quel che comporta in termini di sensibilità, pensieri, orizzonti esistenziali, il film sembra davvero mancare i suoi obiettivi. Tanto, troppo di quel che accende e anima il film riguarda infatti Elvis, con un esito paradossale per cui la forza centripeta del personaggio non domina soltanto la dimensione diegetica della supposta protagonista (nello squilibrio abusivo del rapporto tra i due) ma la narrativa stessa. Priscilla, semplicemente, non c’è. Non c’è il suo sguardo, non c’è reazione, e soprattutto non c’è futuro che esuli da Elvis. Persino in termini linguistici le trovate più stimolanti e foriere di riflessioni riguardano lui piuttosto che lei. Come, su tutte, la scelta di far interpretare questa versione bigotta e maschilista, indubbiamente tossica e tutto sommato ottusa, per quanto succube a sua volta dell’onnipresente (ma qui invisibile) Colonnello, di assegnare questo Elvis così discutibile e gretto a Jacob Elordi, magnifica scoperta di Euphoria che qui replica tale e quale il suo Nate in una sovrapposizione che attraverso spaziotempi così diversi genera un limpido cortocircuito d’immaginario. Ma, appunto, si tratta di Elvis. E Priscilla? Dov’è il cuore di un film che affronta la sottomissione della sua protagonista semplicemente mettendola in scena, reiterando a livello cinematografico lo squilibrio relazionale di cui è vittima? Priscilla, film e personaggio, mancano di reazione, di identità, di autonomia di sguardo. Tanto che persino nel finale, quando finalmente potevamo conoscerne l’esito al di fuori della funzione Elvis, quando finalmente Priscilla riesce a ritagliarsi uno spazio d’azione per evadere dalla gabbia (in un doppio movimento che il film non sfrutta, perché è proprio in quel momento che Elvis vi precipita, nelle forme dei palchi di Las Vegas), quando finalmente è libera e sola, ecco che il film finisce, ex abrupto, come a rimarcare la sua mancata indipendenza scopica e narrativa. Esito paradossale considerati gli intenti di cui si carica e che hanno fino a lì giustificato la visione.

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Sofia Coppola Cailee Spaeny Jacob Elordi 110 minuti
Italia, USA 2023
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Hokage - Ombra di Fuoco

di Andrea Giangaspero
Hokage - film recensione Shin'ya Tsukamoto

Nella lunga notte nera che infesta le immagini di Hokage con insistenza ossessiva, i personaggi potrebbero tanto essere fantasmi quanto relitti, tanto anime consumate e non ancora spirate, obbligate a un eterno vagabondaggio terreno, quanto corpi piegati, spaccati, privati quindi (come controcampo della prima prospettiva) dello spirito. E se questi personaggi possono essere contemporaneamente l’una e l’altra cosa, è perché una delle  grandi abilità di Shin’ya Tsukamoto è quella di modellare un quadro entro cui lo sguardo può rinvenire i segni di un orrore terminale che cancella ogni cosa, ogni storia (la Storia, in questo caso specifico), lasciando dietro di sé un mondo detritico e solo ferale, e insieme rinvenire la tenue sacca di luce che emana dallo spirito, financo quello fantasmatico e martoriato, straziato. Perché nella semovenza a singulti dei protagonisti si percepisce e quasi si vede una tensione tra lo scivolamento terminale nelle tenebre e una lotta febbrile per brandire la vita e custodirla, scegliere da sé il proprio destino.
Ci troviamo poco dopo il termine del secondo conflitto mondiale, in Giappone, con buona probabilità non lontani da una delle due città su cui è stata sganciata l’atomica. La protagonista femminile è una ragazza che non ha più nulla se non la gestione di una locanda (una topaia, un tugurio) per conto di un individuo che le procura soltanto scorte di sakè, e che campa a vivere vendendo il proprio corpo nella stanza accanto. In questo spazio disadorno, tetro, notturno e mortifero, giunge dapprima un giovane che ha combattuto in territorio filippino durante la guerra, ora spaesato, senza dimora, traccia sbiadita di una versione di sé che si impegnava a impartire i precetti dell’algebra a piccoli scolari. E poi, di tanto in tanto, compare un bambino alla ricerca di un nascondiglio per passare la notte.

Sono tre orfani, di genitori e della loro casa. Non hanno dove andare e di che guadagnare, meno che quello spazio angusto entro cui, a un certo punto, tutti e tre trovano rifugio quando la ragazza cede alle richieste e lascia che soldato e bambino l’aiutino a rendere il suo tempo più lieto. Sopravvivono appena al caldo di un’estate feroce, di notte cercando il sonno tenendo gli occhi serrati, i volti e i corpi madidi di sudore mentre lottano con gli incubi. E si procacciano quanto di residuo può venire dal mondo esterno: uova e verdure. Il soldato presta il suo libro di algebra al bambino e gliene insegna le basi, sotto gli occhi umidi della ragazza che stenta a trattenere il sorriso e lo sgomento per la piega improvvisa che potrebbero aver preso le loro vite.
Tutta la prima parte del film è confinata in questa prospettiva spaziale limitata, dove però abbonda e rode le pareti un portato emozionale rutilante, feroce. Da qui, forse, le ombre di fuoco del titolo, che dicono di personaggi aggrappati alla vita nella forma di un tributo sofferto a tutt’una tradizione artistica, decorativa, e alla densità semantica di cui la parola kage è pregna. Dove l’occidente storicamente ha abbracciato senza remore le possibilità di irradiare persino la notte con l’avvento dell’energia elettrica, l’estremo Oriente (e il Giappone in particolare) ha sempre mantenuto una prossimità emotiva con l’oscurità, con i punti ciechi della vista. Il gioco chiaroscurale contro l’invadenza piatta dell’artificio luminoso. Kage è, poi, l’ombra “proiettata sul fondale”, elemento aderente a una tradizione teatrale fortissima (di marca però cinese) che cercava il movimento delle corde del cuore attraverso quello delle sagome piatte colpite dalla luce. I tre personaggi sono un po’ (anche) questo: proiezioni residuali di un desiderio sul fondo nero del micro-mondo di quella stanza, del loculo-locanda.

hokage-ombra-di-fuoco-tsukamoto

E quando d’un tratto il male prorompe con il ritorno tentacolare degli incubi a occhi aperti, attraverso la violenza improvvisa e incontrollata del giovane soldato, il sogno si spezza e le immagini si aprono a un inatteso vagabondaggio diurno. Un individuo indecifrabile offre un lavoretto al bambino: pagarlo per dargli in prestito, quando ne avrà bisogno, la pistola che il piccolo ha sottratto a un cadavere. Come l’Edmund del neorealismo detritico di Germania anno zero, il bambino guarderà e toccherà con mano l’orrore di prigionieri zombificati e dell’assenza di fede. Sembrerebbe non esserci spazio per pietà alcuna, specie quando il losco figuro, pistola alla mano, sevizia il suo ex generale, reo di averlo costretto a infliggere le peggiori torture ai nemici. Ma è qui, su questa vertigine estrema di dolore, che Tsukamoto coagula la rivalsa della pietà, e poi la persistenza della fede e il lucore strenuo dell’amore.
Un’immagine arcinota nella storia del Giappone è quella di una sagoma umana impressa sui gradini d’ingresso di una banca a Hiroshima, un’ombra nera (ancora kage) come ultima traccia di una persona polverizzata dall’esplosione dell’atomica. Una presenza che si è fatta improvvisa assenza nell’attraversamento di un flash sordo, accecante, un lampo che illumina la stanza e ne mostra la fine di colpo, come nei flash di negativi con cui Tsukamoto ci mostra allucinatoriamente e con impronta espressionista (e ora il continuo accostamento al Neorealismo non c’entra finalmente più niente) la catastrofe del dopo-bomba in una città miniaturizzata sul pavimento della locanda (serie di immagini che sono la perfetta sintesi di un autore in grado di verticalizzarne di colpo la potenza incubale attraverso un’estrema essenzialità di mezzi).

Nel dossier dedicato in passato al regista nipponico dalla redazione di Pointblank, a proposito di Killing e di tutta la filmografia del regista, Samuele Sestieri scriveva, puntualmente, che “il dolore, in Tsukamoto, diventa privazione della luce”. Persino le luci del giorno scivolano nel buio dei tunnel in cui ammassati come cadaveri, sopravvissuti per il solo respiro, stanno i fantasmi, le ombre dei soldati che il bambino osserva con curiosità ed espressione attonita. Entro questa vertigine - si diceva poc’anzi - si pronuncia il lirismo litanico di Hokage, il requiem sussurrato e disadorno in un'ovatta umbratile, e un’essenziale chiamata di vita che ha in dote tutta la storia del cinema giapponese. Attraverso un libro di algebra riconsegnato al maestro nel buio del tunnel, la preghiera ripetuta a non desistere da parte della ragazza malata rivolta al bambino, la sua volontà di fuoco a trasformarla in promessa, anche mentre uno sparo lontano suggerisce che la guerra non è mai finita.

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Shin'ya Tsukamoto 96 minuti
Giappone 2023
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The Palace

di Leonardo Strano
The Palace - recensione film polanski

Quando Woody Allen fece la sua famigerata escursione turistica europea non si aspettò tempo per sollevare disappunto contro la fulminea e inspiegabile involuzione stilistica di un regista un tempo grande e intoccabile. Se in quel caso si fosse fatto uso meno timido della memoria critica e della teoria dell’autore, invece di demonizzarla come forma di miopia giustificatrice per appassionati autorialisti, probabilmente film come Vicky Cristina Barcelona, Midnight in Paris To Rome With Love sarebbero apparsi come critofilm sulle cinematografie nazionali ospitanti magari a tratti poco riusciti ma sicuramente lucidamente sperimentali: sciatti per scelta, per strategia argomentativa isomorfista e non per involontario risultato o peggio ancora improvviso spaesamento cognitivo - come si confà a un cineasta da sempre dichiaratamente (rivedere ancora una volta Zelig) interessato a usare lo stile in senso connotativo rispetto alla situazione di riferimento. Curiosamente l’ultimo film di Allen, girato in Francia, con attori francesi e in lingua francese ma senza la stangata linguistica delle passate immagini europee (il film poteva essere tranquillamente girato a New York e ragiona in effetti su tutt’altri toni grazie alla rodata collaborazione con Storaro), è stato accolto con calore dall'ultima mostra veneziana  Mentre i cori di disappunto sono stati tutti riservati a The Palace, l’ultimo film di Roman Polanski. Cori ancora una volta sostanziati dalla stessa rinnovata incredulità - Barbera non escluso - contro la presunta regressione stilistica di un senescente grande vecchio del cinema, colpevole di uno scivolone senza movente: “Come è possibile fare L’ufficiale e la spia e poi imbruttirsi così in questo cinepanettone trash proprio per niente riuscito?”. 

In questo caso per vederci chiaro non serve tanto la teoria dell’autore, che pare non avere più effetto, quanto la teoria degli autori. Sì, perché, se tutti si sono affrettati a riconoscere in Luca Barbareschi (già, comunque, presente anche nel dramma su Dreyfuss) non tanto un partner produttivo quanto un corruttore di forme, quasi nessuno, almeno tra i detrattori, ha dato peso alla presenza in sceneggiatura (assieme ad Ewa Piaskowska) di uno dei più importanti registi viventi, e cioè Jerzy Skolimowski. Eppure, che The Palace sia un film skolimowskiano lo si capisce subito, fin dalla prima inquadratura: un palloncino che velocemente si gonfia. Con questa scena, dettaglio apparentemente decorativo dei preparativi che un albergo sta allestendo per la grande festa dell’ultimo dell’anno del 1999, Polanski chiarisce che il film si articolerà secondo una pura tensione superficiale in espansione, prodotta dalla compressione degli eventi in uno spazio-tempo raccolto. Non però come nel suo cinema antiborghese, da sempre pronto a confinare la classe sociale in introversi spazi chiaroscurali, stretti in un tratto tutto metaforico, bensì come nel cinema del connazionale, e cioè con le misura di un film interessato al paradossale rapporto tra materia e movimento, o meglio, all’illusione di movimento come forma di nascondimento della materia.  Polanski accoglie la teoria della tensione superficiale skolimowskiana e come un folle chirurgo plastico piega e tende le immagini verso una cinetica in cui ogni immagine si somma e si annulla sull’altra con foga.

palace rece

Il moto perpetuo capace di far sembrare volatile e inconsistente ogni figura fisica, ogni incastro drammaturgico, non ha niente che a vedere con la retorica comica – nemmeno nel luogo della gag grottesca, sempre annullata di ogni presunto (si direbbe östlundiano) effetto abrasivo ad uso e consumo di spettatori desiderosi di facile indignazione -, ma piuttosto con una forma di onesto realismo documentario, simile al calco vivo di una realtà già di per sé troppo simbolica (e autoconsapevole) per essere ri-mediata nuovamente. Quale realtà però? Quella appunto della borghesia, sì, ma non più industriale, bensì quella nuova e molto più aggressiva propria della ricchezza finanziaria. Polanski e Skolimowski allineano le immagini alle stesse esatte condizioni d’espressione dell’economia cardine del nuovo secolo, e cioè a un sistema di pensiero economico che per nascondere la propria gretta natura materialista e meccanica si presenta volatile e senza peso, invisibile e senza grinze, liscio e levigato, e soprattutto senza residuo fisico – non è un caso che nel film si generino continuamente problemi escatologici di natura corporea, dalle feci di cane a cadaveri trafugati, e che tutto l’impegno della solerte hôtellerie sia direzionato a evaderli e nasconderli. A essere documentata qui comunque è più nello specifico la tensione inflazionistica della particolare bolla finanziaria nata con l’improvviso avvento di Putin al governo – il film ancora una volta non bada a schermare nulla, e porta tutto in superficie alla visione, trasmettendo il vero discorso del futuro capo di stato alla vigilia dell’ultimo dell’anno – o meglio della bolla nata con la transizione economica postsocialista (davvero siglata con l’elezione putiniana) da un’economia pianificata a un’economia capitalistica liberale e soprattutto disponibile alla privatizzazione del capitale di stato. 

È questa bolla a essere formalmente riprodotta attraverso un continuo rigonfiamento senza sosta e senza scoppio (come dichiara anche la finta pistola accendino che chiude il film), in accordo a una delle principali linee narrative. Non quella dell’attesa spasmodica per il Millennium Bug (vero e proprio MacGuffin, niente di più che uno starnuto alfanumerico senza effetto), ma quella dei giovani gangster russi – già divertiti dalle dichiarazioni televisive di El’cin e Putin -, pronti a portare denaro al loro cliente, un corrotto ambasciatore connazionale. Quando arrivano depositando milioni in contanti nella grande cassaforte dell’hotel l’intento di Polanski a proposito non è ancora chiaro, ma lo diventa nelle scene in cui rapporti di forza tra il presunto dipendente di stato corrotto e i suoi galoppini armati si ribaltano a favore di quest’ultimi: per un caso l’ambasciatore rimane infatti chiuso dentro la suddetta cassaforte, mentre i gangster ne rimangono fuori con la propria parte dell’accordo. Scegliendo la rocambolesca nascita della contemporanea criminale oligarchia russa come accento finale di una lunga e disturbante onomatopea filmica del capitalismo finanziario, il regista polacco si concede a 90 anni un affondo psicologico nella forma simbolica neocapitalistica: nell’inconscio del palazzo, castello virtuale che si mostra esteriormente fatto di aria e niente (come annuncia un unico e decisivo campo lungo smaccatamente digitale), è chiuso dall’interno lo spettro che l’economico finanziario fa finta di dimenticare. E cioè il puro movimento meccanico (proprio per niente post-umano) di due animali che copulano mentre tutti hanno lasciato la festa. 

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Roman Polanski Oliver Masucci Mickey Rourke Fanny Ardant Luca Barbareschi John Cleese 100 minuti
Italia 2023
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Strange Way of Life

di Andreina Di Sanzo
strange-way-of-life-recensione

Pedro Almodóvar si sposta nelle terre di frontiera degli inizi del 900 e firma un queer western, prodotto insieme a Anthony Vaccarello e Yves Saint Laurent che curano anche scenografie e costumi (ovviamente!). Da settembre in sala e in arrivo su MUBI, il cortometraggio Strange Way of Life è un mélo a cavallo con la star del momento Pedro Pascal e l’evergreen Ethan Hawke.

Lo sceriffo Jake (Hawke) sta cercando l’assassino della cognata quando improvvisamente ripiomba nella sua vita il vecchio amico e amante Silva (Pascal), con cui ha condiviso avventure da sicario e una passione travolgente. La tensione aumenta nel momento in cui lo sceriffo confessa all’amico che il principale sospettato dell’omicidio è proprio il figlio di Silva.
Almodóvar, maestro del desiderio, ci regala un’esilarante e travolgente storia di vecchie passioni condita da tutti gli elementi del western classico: le sparatorie, i paesaggi di frontiera, la ricerca del brutale assassino. Jake, più schivo e sostenuto, si lascia travolgere dalle avances esplicite di Silva che non perde tempo a ricordare i tempi felici trascorsi insieme, ma lo sceriffo teme che l’amico si sia fatto vivo solo per salvare il figlio, più che recuperare quella relazione ormai perduta. Il trasporto sentimentale di una notte esplode in uno scontro a fuoco che sa più di resa dei conti tra i due che di risoluzione dell’intrigo.

Il peso del film è tutto sulle spalle di due magnifici attori in perfetta armonia: la giacca verde sgargiante del disinvolto Silva contrasta i colori neutri indossati dallo sceriffo Jake, ancora incapace di accettare le proprie pulsioni e sentimenti. Così Strange Way of Life omaggia e decostruisce il genere per eccellenza della Grande Hollywood.
Pur trattandosi di un lavoro apparentemente distante (per ambientazione) dalla sua filmografia, riconosciamo la regia del maestro spagnolo nei primi piani intensi, negli abbracci (spezzati) tra i protagonisti, nella cura della messa in scena. Magnifico come la camera si sofferma su quella biancheria candida riposta con cura nel cassetto. Dettagli che dimostrano, ancora, come un grande cineasta riesca nelle piccole rifiniture a far parlare il cinema.

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Pedro Almodóvar Pedro Pascal Ethan Hawke 30 minuti
Spagna, 2023
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Asteroid City

di Brunella De Cola
asteroid city recensione film

È il 1955 e tutto sembra tranquillo ad Asteroid City, cittadina fittizia degli Usa, immersa in un deserto Looney Tunes e nota per un cratere gigante, fossile della caduta di un asteroide. La cittadina sta per animarsi, poiché diventerà presto lo scenario di una convention di Space Cadet, ragazzini “cervelloni”, ognuno con un proprio progetto scientifico rivoluzionario. Tuttavia il raduno sarà interrotto da un evento fuori dal comune: l’arrivo di un alieno che manderà in subbuglio tutto e tutti… Ma non finisce qui, perché secondo Wes Anderson Asteroid City in realtà è la messa in scena di una commedia in tre atti e un epilogo, narrata da Bryan Cranston, scritta da un drammaturgo interpretato da Edward Norton e girata da un regista (Adrien Brody).  Una matrioska filmica che alterna i toni del bianco e nero ai colori pastello dell’enorme deserto fittizio, ricalcando l’esperimento di The French Dispatch. Questo alternarsi tra “reale” e finzione sottolinea forse la tendenza del regista a presentarci personaggi che sono sempre più concettuali, in un film in cui, nonostante gli sforzi, la narrazione è tutt’altro che lineare, ma appare senz’altro sacrificata, affogata dal concetto. C’è da interrogarsi sulla possibilità che sia proprio questo l’intento di Wes Anderson: far perdere le coordinate allo spettatore, catapultandolo in un luogo sospeso in un tempo apparentemente definito (gli anni ’50) ove però i personaggi sono alla ricerca di un contatto, che sia fortemente umano o extraterrestre. E il contatto tra i personaggi è il tema che apre debolmente la ricerca dell’emozione: il rapporto tra i vari teenager cervelloni sembra a momenti ricalcare le vicissitudini amorose di Moonrise Kingdom, senza riuscire, tuttavia, a riproporre quella amorevolezza che sprigionavano i protagonisti di allora.

È un Wes Anderson che cita sé stesso, vi sono infatti certamente richiami a I Tenembaum: anche qui un padre single con una manica di figli a cui badare. Jason Schwartzman è il vedovo di questa storia, padre di Woodrow il cervellone e di tre piccole bambine (vera rivelazione attoriale del film). Nella vicenda sfortunata di questa famigliola ci sono attimi di tenerezza purissimi, in cui anche il tema della morte è toccato con la giocosa sensibilità a cui il regista ci ha abituati nel corso delle sue opere. Ed è forse questo fare cinema un po’ trasognato, un po’ al confine, ancora il punto di forza di Anderson che come in The French Dispatch gioca qui con un coloratissimo scenario e una parata di attori di altissimo livello (Tom Hanks, Scarlett Johansson, Maya Hawke, Jeffrey Wright, Tilda Swinton, Steve Carell, Margot Robbie, Hope Davis ecc) che provano a dare corpo ai vari personaggi, senza riuscire tuttavia a restare veramente memorabili.
Anche il rapporto che si dipana tra Jason Schwartzman e la Johansson non convince, restando intrappolato nella formalità delle inquadrature andersoniane, senza liberarsi e restando piuttosto sterile, senza toccare l’emotività di chi guarda. Anche il duo Maya Hawke - Rupert Friend (truccato e vestito alla Paul Newman) appare sacrificato a poche inquadrature e la loro storia viene troncata come quella di tutti gli altri, con il semplice epilogo di liberazione di Asteroid City.

Il continuo alternarsi dei due livelli del racconto non aggiunge nulla di significativo alla messa in scena. E proprio il personaggio di Norton, nella parte in black&white, non convince, perso nelle sue crisi creative e inneggiante al “You can’t wake up if you don’t fall asleep” (Non puoi risvegliarti se non ti addormenti). Ecco probabilmente il cinema di Wes Anderson si è un po’ addormentato nella sua stessa maniera, e non riesce più a scuotere lo spettatore; nonostante le scenografie degne di premio Oscar, e i colori e le forme di Happy Days, il formalismo soffoca l’emozione. Attendiamo il risveglio.

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Wes Anderson Jason Schwartzman Scarlett Johansson Tom Hanks Jeffrey Wright Tilda Swinton Bryan Cranston Edward Norton Adrien Brody 104 minuti
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Tra "The Killer" e "Hit Man", ovvero di algoritmi e identità riscritte dei fantasmi melvilliani

di Leonardo Strano
The Killer e Hit Man - fincher Linklater

Lo spettro di Jean-Pierre Melville si aggira in Laguna. Evocato tra le immagini di alcuni film del festival, per la tesa di un cappello, nel controluce di una postura d’attesa, dentro al punto cieco di un mirino nascosto, il suo cinema riverbera in forme adiacenti, generando connessioni ipertestuali. In The Killer, per esempio, thriller di David Fincher su un sicario che sbaglia il colpo e innesca così una caccia all’uomo molto personale, tutto si muove a partire dall’intuizione melvilliana di scolpire fuori dalla figura dell’assassino su commissione il dramma dell’identità al tempo del capitale. Similmente a quanto avrebbe fatto negli stessi anni e su carta, dentro la Série Noire delle Éditions Gallimard, Jean-Patrick Manchette, con i suoi polar che perfettamente dialogano con questo cinema, così faceva il regista francese con i suoi noir: metteva in scena la manipolazione, la costruzione e la formattazione dell’identità moderna da parte delle strutture del tardo capitalismo, responsabile non solo della trasformazione della realtà in immagine ma anche della progressiva deregolamentazione di questa stessa realtà in un campo mercantile. Non solo però. Melville riconosceva nella grigia neutralità del killer, nella sua studiata e strategica impersonalità (ricordate l’inespressività, poi fondativa per il genere, di Alain Delon ne Le Samouraï?), la possibilità esemplare per rispondere con un ribaltamento all’istanza di controllo dei poteri, una forma di silenziosa sovversione delle pressioni del mondo sull’individuo: di fronte all’annullamento esistenziale organizzato dal capitale per gestire e amministrare le personalità, meglio annullarsi di propria mano, passare inosservati nella folla, diventare immagine tra le immagini, e lavorare dall’interno indisturbati.

Fincher segue a ruota. Il suo killer non ha la faccia d’angelo di Frank Costello, veste meno elegante, ma attua le stesse strategie di impersonalità per non farsi controllare dal potere. In questo consiste la sua fatica, come chiarisce nel monologo di apertura: non nel colpo, nell’esecuzione o nell’azione effettiva, ma piuttosto nella riflessione, nell’attesa, nel dolce far niente che precede tutto ciò che solitamente si associa a un assassinio, e poi nella successiva fase di eliminazione delle tracce, del proprio passaggio, della propria presenza. Un’intensità esistenziale tutta spesa tra “il non fare nulla” e “il non essere nulla” per comprimere la propria, comunque necessaria, apparizione in un solo fugace momento, detonato silenziosamente e senza rischi per non farsi vedere. Non più però dal potere melvilliano del vecchio capitalismo alle porte della postmodernità, quanto da quello del più nuovo capitalismo finanziario, autentico controllore e amministratore occulto delle vite individuali del nuovo millennio. The Killer usa Melville come metro espressivo ma mette in scena un cambio di paradigma: se nei film del regista francese il sicario si nascondeva nella realtà diventata immagine trasformandosi egli stesso in un’immagine e costruendo un codice di comportamento personale con cui rinegoziare la scomparsa dell’etica nel tempo della morale postmoderna, ecco che il sicario del nuovo millennio per nascondersi dalla logica algoritmica che orchestra tutto ora si trasforma invece proprio in algoritmo.

melville leo costello

E cioè in una serie di precise istruzioni, da seguire in un ordine inderogabile, secondo un fine determinato, senza nessuna volontà, nessuna empatia, nessun interesse. L’assassino interpretato da Michael Fassbinder replica il funzionamento inferenziale con cui gli algoritmi manipolano i comportamenti, e cioè quel sistema di deduzioni con cui trarre da un piccolo insieme di assiomi un grande numero di previsioni: prima, durante e dopo i colpi si ripete mentalmente senza sosta le regole del proprio modus operandi come postulati, allineando il proprio volere a una dimensione senza volontà, di pura neutralità meccanica. Ora, per Fincher questa stessa neutralità è qualcosa di costruito, uno stratagemma isomorfista (il simile che risolve il simile) con cui l’identità gioca alle regole che le sono state imposte. Non sorprende che per lui non sia una condizione di natura, anzi, piuttosto una necessità di contesto: esattamente come il suo killer, il regista americano, tra i pochi interpreti del contemporaneo capaci di ribaltare a proprio favore le condizioni del digitale (come forse solo Soderbergh), ha scelto di nascondere la propria grafia d’autore dai controlli e dai contratti industriali (in questo caso quelli di Netflix, pronta a finanziare i suoi progetti) attraverso l’assimilazione delle logiche algoritmiche. The Killer è infatti costruito per capitoli che sembrano o potrebbero assumere la forma di episodi da una ventina di minuti, secondo una struttura seriale analitica e frammentaria adatta per una visione sempre sollecitata (il film è scritto inanellando solo scene madri).

Certo, l’adeguamento alla narrativa televisiva - già Zodiac preconizzava l’avvicinamento del cinema alla televisione – non è che uno specchietto per allodole. Costruendo le immagini attraverso continui cortocircuiti ritmici - survoltati dalla esaltata linearità televisiva ma rallentati in quadri fissi; immobilizzati in piani ieratici ma brulicanti di dettagli sempre nuovi - per mostrare il tentativo del suo killer di raggiungere un’imperturbabile impersonalità solo ed esclusivamente attraverso un continuo moto (cambiamento di costumi, spostamenti, cambi di piano), Fincher chiarisce plasticamente che la neutralità algoritmica nasconde un incredibile sforzo di un movimento, e che quindi si tratta di un  costrutto illusorio, che si vorrebbe mitologico e invece è molto schietto e banale. Il suo cinema usa il digitale come occasione figurativa per esplorare ancora la dialettica tra immobilità e movimento con cui si costruisce l’identità, ma questa volta anche per dissimularsi nella struttura di controllo, nella cornice del potere, e allo stesso tempo metterne in scena la fasulla neutralità. A essere virtuale e mitologico non è tanto il potere, che è invece sempre pregno d’intenzioni basse e dissimulate, ma piuttosto l’identità, che infatti può adattarsi e costruirsi a piacimento e comunque rimane imprendibile. È quello che intuisce l’altro film imparentato (per secondo grado questa volta) con le intuizioni melvilliane: Hit Man di Richard Linklater. Difficile trovare all’interno di un concorso due film che si spiegano a vicenda, ma in questo caso fin dall’apertura non ci sono dubbi: “Quella che voi credete essere una realtà”, dice il protagonista parlando della figura del sicario su commissione, “non è che un mito”.

hitman linklater

Professore di storia e filosofia che arrotonda lavorando per la polizia, Gary viene presto assoldato come sicario su commissione per incastrate malintenzionati disposti a pagare per un omicidio. Senza nessuna esperienza pregressa e nessuna particolare abilità nel campo, l’uomo si rivela un trasformista, capace di adattarsi a qualsiasi situazione, cambiando sempre connotati e costume a seconda dell’estrazione antropologica del cliente. Come si spiega il suo istantaneo successo? Lo chiarisce Gary stesso, con un altro rivelatorio monologo iniziale: è proprio grazie alla consapevolezza della neutralità senza carattere della propria identità, inetta e senza particolare colore, grigia e trasparente, senza nulla da dire e senza particolare connotato, che l’uomo riesce a fingersi chi preferisce a seconda della necessità. Quando, sullo sfondo delle immagini dei killer più famosi della storia del cinema (tra cui chiaramente quelli di Melville), il professore spiega che la figura dell’assassino non è che un mito, facilmente interpretabile, appare chiaro che il vero mito di cui sta parlando sia quindi quello dell’identità. Linklater - regista da sempre interessato a mettere in luce le forme di costruzione dell’identità attraverso le immagini – sceglie qui, sempre melvillianamente, di usare la topica dell’assassino per scrivere una commedia nera sui processi di identificazione. E cioè sui processi dialettici (Fincher direbbe di movimento) con cui l’identità costruisce se stessa per relazionarsi con il mondo.

Hit Man spiega e completa in qualche modo The Killer. Perché chiarisce quell’intuizione fincheriana sull’identità come mito polare, asintoto irraggiungibile sempre un attimo più in là della presa, opposto a qualsiasi principio a priori che si dà come assoluto presente. In questo senso il film di Linklater, oltre che melvilliano, è anche molto più alleniano (l’Allen di Zelig per capirci) di quanto non sia Coup de Chance, altro film in concorso: non tanto per come ragiona sul rapporto tra coerenza identitaria e immagini del mondo – integrando come si diceva sequenze di altri registi nelle proprie – ma proprio per il racconto dell’identità come un costrutto più o meno possibile, che rimane sospeso tra  circostanze del tutto estemporanee, quindi entropiche, e forme di congelamento e controllo sociale più o meno istituzionale. Come Gary, che si spinge troppo in là nella propria finzione, diventa complice d’omicidio con la donna di cui si è innamorato e poi assorbe il trauma con l’aiuto della controparte femminile. Entrambi i film si chiudono comunque allo stesso modo su una forma di compromissorio happy ending di coppia, in cui i (veri o finti) sicari protagonisti, dopo mille peripezie e cortocircuiti dicono di aver raggiunto la tranquillità, un nuovo status quo identitario. Lasciando però intravedere l’ombra di un irrisolto, che rompe l’impersonalità marmorea dei connotati (sia Michael Fassbinder che Glen Powell neutralizzano perfettamente le espressioni per lasciare intravedere appena appena un lieve sintomo fuori posto) o con un tic o con la confessione spiritosa di un cadavere nascosto tra le righe, come la voce scomoda di un accordo prematrimoniale.

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David Fincher Richard Linklater
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